I Musei Vaticani e il
Museo Ebraico dedicano una mostra al più importante tra i segni
dell'ebraismo: dal testo biblico al candelabro del Tempio di
Gerusalemme.
Anna Foa
La mostra che si apre in Vaticano lunedì 15 maggio, organizzata in
collaborazione tra i Musei Vaticani e il Museo Ebraico di Roma, è
intitolata "Menorà: culto, storia e mito". La Menorà, il
candelabro a sette braccia il cui nome ha la stessa radice di or,
luce, è il maggiore e il più antico dei simboli ebraici. La sua
storia va dal testo biblico al candelabro del Tempio portato a Roma
nel trofeo di Tito alle raffigurazioni nelle catacombe ebraiche al
moderno stemma dello Stato di Israele, dove è affiancata da due
rametti d'olivo.
Il logo della mostra
raffigura appunto un particolare segmento dai bassorilievi dell'arco
di Tito, che rappresentano il trofeo romano sulla Giudea sconfitta:
prigionieri ebrei portano sulle spalle la grande e pesante Menorà in
oro. È, di tutte le immagini che abbiamo della Menorà, quella che
più si avvicina alla realtà, dal momento che pochi anni soltanto
erano passati dal corteo vittorioso di Tito e la Menorà del Tempio
era ancora presente agli occhi degli artisti che la scolpirono.
Ma una raffigurazione
della Menorà in una pietra di una sinagoga di Magdala, scoperta nel
2009 e datata intorno alla distruzione del Tempio, mostra un'immagine
differente da quella di Roma, sia nei bracci, non arcuati ma
ottagonali, sia nella base. La Menorà era simbolo di saggezza e
di illuminazione. Essa ricordava anche, come ricordano i testi, il
roveto ardente, e con i suoi sette bracci è stata ancora
interpretata come il simbolo della creazione che appunto richiese
sette giorni per realizzarsi.
La lucerna centrale
simboleggerebbe il Sabato. Essa è stata interpretata anche alla luce
delle dottrine cabalistiche. La Menorà fu per secoli il simbolo
stesso dell'ebraismo. Solo a partire dal XVII secolo essa cominciò
ad essere affiancata dal magen David, la stella di David, che
ritroviamo ora sulla bandiera di Israele.Nella storia della Menorà,
realtà, culto e valore simbolico sono strettamente intrecciati. La
sua costruzione è disposta e minuziosamente descritta nella
rivelazione fatta da Dio a Mosè, come si legge in Esodo 25, 31-40.
La sua base era adorna di
immagini di fiori e frutti. Inizialmente era collocata nel
Tabernacolo, il santuario trasportabile che accompagnava gli ebrei
nel deserto, poi nell'anticamera del Tempio. Scomparve nell'esilio
babilonese e fu ricostruita e collocata nel secondo Tempio. Ce la
descrive Giuseppe Flavio, che fu testimone della sua traslazione a
Roma. La Menorà doveva restare accesa dal tramonto all'alba, ma
una o più delle sue lampade restavano accese anche durante il
giorno. Nella riconsacrazione del Tempio ad opera dei Maccabei,
nonostante fosse sufficiente per un sol giorno, l'olio delle lampade
rimase miracolosamente acceso per otto giorni. Da lì la festa di
Hannukka, caratterizzata dall'accensione del candelabro a nove
braccia, la hannukia.
Come il rilievo datole
nei bassorilievi dell'Arco di Tito dimostrano, la Menorà ebbe un
ruolo speciale nel trionfo di Tito. Era al tempo stesso un oggetto di
gran pregio, costruita com'era in oro puro, e il simbolo della Giudea
sconfitta.
Inizialmente, fu
custodita nel Tempio della Pace, il nome attribuito al Foro di
Vespasiano, tra i Fori e la Suburra. Durante il sacco di Roma del 455
ad opera dei Vandali di Genserico, fu trasportata a Cartagine con il
resto del bottino. Di là fu portata a Bisanzio da Belisario, il
generale di Giustiniano, quando questi conquistò Cartagine nel 533,
per essere portata in un ulteriore trionfo descrittoci da Procopio.
Ed infine sembra essere approdata a Gerusalemme, non sappiamo dove né
come. Da allora se ne sono perse le tracce, forse è stata fusa
nel sacco di Gerusalemme ad opera dei Persiani nel 614. Si tratta
però di notizie prive di fonti certe. Infatti, ben presto, di fronte
ad un candelabro errante, e sostanzialmente, dopo Tito, volto a far
ritorno nel luogo delle sue origini, la sua localizzazione cominciò
ad essere avvolta nelle nebbie del mito.
La questione si
complicava per il fatto che già nei primi secoli si parlò di una
duplicazione del candelabro. Quale era quello originario, strappato
al Tempio nel 70 e divenuto il simbolo dell'identità di un popolo in
diaspora?A Roma, dove l'esistenza della Menorà era quotidianamente
testimoniata dai bassorilievi dell'arco di Tito, l'idea che essa non
avesse mai lasciato la Città era diffusa.
Ne ritroviamo traccia,
sia pur vaga, in alcuni testi talmudici e perfino nel viaggio di
Beniamino da Tudela, un viaggiatore ebreo del XII secolo. Una delle
leggende fiorite intorno al candelabro lo diceva affondato nel
Tevere. Era una diceria che risaliva ai secoli del sacco dei Vandali,
e che ha forse come punto reale di riferimento il fatto che il
bottino fu trasportato fino al mare sul Tevere.
Un'altra leggenda lo
diceva invece nascosto sotto il Laterano. Priva di basi documentarie,
la leggenda sulla presenza a Roma della Menorà è tuttavia
sopravvissuta nei secoli, fino ad arrivare agli scavi tentati nel
Tevere alla fine del XIX secolo e alla richiesta che sarebbe stata
fatta in anni recenti al Vaticano di cercarla nei suoi sotterranei e
di restituirla allo Stato di Israele. L'altra ipotesi, che ha una
maggiore corrispondenza nelle fonti, è quella che essa sia a
Gerusalemme, nascosta o perduta.
È questa, ad esempio, la
tesi su cui si basa un romanzo di Stefan Zweig, Il candelabro
sepolto, scritto nel 1937 e pubblicato in italiano da Skira, per la
prima volta autonomamente dagli altri scritti di Zweig, nel 2013 con
una bella postfazione di Fabio Isman. In anni molto recenti, nel
2002, aveva per un momento rinforzato la tesi del Tevere la scoperta
di una lapide nei giardini del Tempio secondo cui il candelabro
sarebbe stato visto, all'inizio del V secolo, in fondo al Tevere a
sud dell'Isola Tiberina. Un falso del XIX secolo, ha scoperto
l'allora direttrice del Museo Ebraico, la scomparsa Daniela di
Castro, creato forse per dar lustro alla già illustre storia degli
ebrei a Roma. Il candelabro del Tempio continua ad restare
inafferrabile.
Avvenire – 13 maggio
2017
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