Il rigore etico, il
valore dato al silenzio, il senso della misura e la solitudine
istintiva. Ricordo di Mario Rigoni Stern.
Eraldo Affinati
Mario Rigoni Stern
Una volta andai a trovare
Mario Rigoni Stern nella sua casa di Val Giardini, ad Asiago, in
motocicletta, partendo da Roma insieme a mia moglie. Storie
dall’Altipiano, il Meridiano della Mondadori che ebbi l’onore di
curare nel 2003, era appena uscito: dovevamo festeggiare. Quando
arrivammo nello spiazzo davanti all’entrata, lo vidi scendere i
gradini e avvicinarsi a noi felice come un ragazzino. Dopo averci
salutato, s’informò sulla moto: un’Honda Transalp 600.
Mario non aveva mai preso
la patente. Non gli serviva. Era un esploratore. Durante la Seconda
guerra mondiale, camminando a piedi sulla neve, aveva portato in
salvo gli alpini della sua compagnia. Recava quell’esperienza
incisa per sempre nel cuore. Molti non ce l’avevano fatta a
sopravvivere. Bisognava risarcirli. Come? Raccontando la loro storia.
Era un’altra Italia, ma io credo che noi dovremmo riprenderne i
fili.
Volle provare il mio
casco. Lo indossò come fosse un elmetto, poi non riusciva a
toglierselo. Mentre lo aiutavo a sganciarlo, sfiorai la sua barba
bianca: ebbi l’impressione di sentire il rumore dei cingolati, come
se tutte le guerre del ventesimo secolo tornassero a risuonare. Non
più bombe, ma campane: quelle della nuova Europa che, come sapeva
il vecchio sergente, ci dobbiamo ancora meritare. Dentro di me una
voce fuori campo iniziò a recitare: «Ho ancora nel naso l’odore
che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato».
Era l’inizio del
Sergente nella neve, il suo capolavoro, pubblicato nel 1953. Nella
mia carriera di insegnante, quando voglio andare sul sicuro, presento
questo libro. Gli scolari lo apprezzano sempre. Perfino quelli che
non sono abituati a leggere. Sembra un semplice diario, ma è molto
di più. Ci puoi trovare l’avventura umana del ragazzo che diventa
adulto. La potenza fantasmagorica del paesaggio russo. La dimensione
universale della ritirata che a Italo Calvino fece pensare
all’Anabasi di Senofonte. La fratellanza ungarettiana che scatta
nel momento cruciale. La voce unica di chi scrive. Il cosiddetto
colore della visione. Sempre più raro, soprattutto oggi.
Sono tanti i libri di
Mario; insieme al Sergente, un altro, pubblicato nel 1978, risplende
di luce perfetta: Storia di Tönle. È la vicenda di un
“viaggiatore incantato” tra l’Altipiano e la Valsugana
governata da Francesco Giuseppe. Di là questo perdigiorno alla
Eichendorff portava brocche e vestiti, di qua zucchero e tabacco: il
tutto, se gli andava bene, per guadagnare polenta e stoccafisso. Un
romanzo in terza persona, breve, conciso e diretto, incastonato fra
due pagine, la prima e l’ultima, entro le quali lo scrittore
racconta a un amico malato la vicenda dell’antico personaggio
realmente esistito: triste cornice di un Marlow senza Tamigi.
Un’opera indimenticabile, come il ciliegio cresciuto sul tetto
della casa del protagonista. Lo stile è speciale: selettivo, eppure
tutto cose, con una dizione araldica di grande efficacia che ben
pochi si sarebbero attesi. L’autore di quel testo non poteva essere
un semplice mestierante.
Nove anni dopo la
scomparsa di Mario Rigoni Stern, oltre ai suoi libri, mi resta il
ricordo dell’uomo quando parlava col bastone in mano, in mezzo al
fogliame, all’imbocco dei sentieri del Tönle. Durante le nostre
passeggiate in altura la sua energia, a ottant’anni suonati, pareva
straripante. Andavo da solo sul Monte Cengio, dove aveva combattuto
Carlo Emilio Gadda, nella gloria dei Granatieri di Sardegna. Tornavo
e lui mi accompagnava all’Osservatorio Astronomico del Monte Echar.
Visitavo il Monte Grappa, gli facevo la relazione e subito
ripartivamo verso Monte Zebio, nei luoghi in cui Emilio Lussu
ambientò Un anno sull’altipiano.
Stentavo a tenerlo fermo
al tavolo di lavoro dove gli chiedevo i dati bibliografici relativi
ai suoi scritti. Quando invece gli proponevo di fare un giro si
mostrava sempre disponibile. «Così, senza programmi», diceva,
«andiamo vagabondi». L’ultima sera, prima di salutarlo, anche se
poi ci rivedemmo ancora in molte altre occasioni, pubbliche e
private, elencai dieci elementi del suo carattere che oggi mi limito
a ricopiare dal quaderno di quei giorni: il rigore etico, il pudore
virile, il valore che attribuiva al silenzio, il senso della misura,
la solitudine istintiva, la socievolezza acquisita, la capacità di
concentrarsi senza preparazione, la generosità, la coscienza del
limite, la tensione spirituale custodita in un gheriglio di noce.
Proprio su quest’ultimo
punto ho trovato una risonanza negli archivi del Gabinetto Vieusseux.
Nel 1983 Enzo Siciliano gli aveva chiesto un testo sulla
religiosità. Mario scrisse un paio di cartelle che vennero
pubblicate su Nuovi Argomenti con il titolo: Come un racconto. Una
sigla folgorante del suo mondo interiore attraverso la raffigurazione
di alcune scene chiave: la scomparsa della madre, a cui era molto
legato; la crisi cardiaca che, quindici anni prima, aveva rischiato
di togliere la vita anche a lui; gli istanti di solitudine vissuti in
cima alla montagna, prima dell’alba; le incisioni degli antenati
scoperte sulle pareti di roccia dell’Antico Sasso sull’Altipiano;
L’adorazione dei pastori di Jacopo Bassano, il pittore preferito.
Per troppo tempo questo
scrittore, sulla scia del giudizio non proprio benevolo che gli aveva
riservato Elio Vittorini, il quale tuttavia ebbe il merito di farlo
esordire nei Gettoni Einaudi, venne considerato un fenomeno
eccentrico nella letteratura italiana del Novecento: come se fosse un
alpigiano entrato senza permesso nello studiolo. Chi invece ne
percepì la particolare carica lirico- epica fu Andrea Zanzotto che
lo riteneva dotato di una «sapienza minorenne». A ben riflettere è
questa l’essenza del sottufficiale: uomo di raccordo fra il comando
e la truppa, cioè fra il pensiero e l’azione. Non basta limitarsi
a dettare gli ordini, bisogna saperli eseguire.
Il sergente aveva capito
in Russia lo statuto della letteratura: le parole autentiche non sono
libere come foglie al vento, ma vincolate. A legittimarle è
l’esperienza da cui scaturiscono. Lo affermò Albert Camus nei
Discorsi di Svezia sostenendo di scrivere a nome di chi non può
farlo. Lo ribadì Mario Rigoni Stern quando gli chiesi cosa avrebbe
detto a un adolescente che si è perso. Lui rispose d’istinto più
o meno così: scopri, dentro e fuori di te, una pista in mezzo agli
abeti. Evita quelle troppo battute. Ma anche i percorsi che ti
allontanano dagli uomini. Solo allora ti sarai conquistato il diritto
di ritornare alla baita.
la Repubblica” - 31
marzo 2017
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