Valentino Parlato
(1931-2017) ha chiuso gli occhi per sempre. Come Luigi Pintor, Valentino è stato un
eretico comunista. Tra i fondatori del giornale IL MANIFESTO, ci fa sentire più soli oggi. fv
Norma Rangeri
La nostra storia
Valentino Parlato se ne è
andato, improvvisamente. Per me, per noi, con lui se ne va un
intellettuale di rango, un giornalista brillante, un padre fraterno,
un uomo gentile, un rompiscatole divertente, un comunista di quella
specie rara che rifugge la retorica dei luoghi comuni, le trappole
dell’ideologia.
Valentino ha sempre
preferito di gran lunga l’analisi disincantata della realtà. E,
qualità che lo rendeva caro e vicino, Valentino c’era sempre, con
la telefonata, con le chiacchiere al bar. Anche quando non era
d’accordo, naturalmente.
Quando ho saputo della
sua scomparsa la prima reazione è stata la sorpresa, la seconda il
dolore. Valentino, nonostante gli acciacchi, portava con
determinazione i suoi anni, senza scoraggiarsi di fronte ai malanni.
Desiderava sentirsi impegnato nell’esprimere le sue idee, la sua
visione del mondo.
Poi il dolore. Come
avviene quando se ne va, soprattutto se improvvisamente, una persona
cara alla quale sei legato da più di una vita.
Valentino è stato il mio
direttore per parecchi anni e poi un compagno, fino a ieri, nella
lunga e travagliata esperienza politica del manifesto. Ho avuto
la fortuna di condividere per qualche tempo la stessa stanza in via
Tomacelli e di soffrire per la finestra aperta d’inverno per le sue
cento sigarette. Se eravamo a corto di pubblicità (cioè sempre)
capitava di andarla a chiedere insieme. Fare il giornale gli
piaceva, nessuno era troppo lontano per essere intervistato, nessuno
troppo vicino per essere criticato.
Il suo non essere
ideologico non era semplicemente un tratto del carattere, ma un
connotato fortemente politico. Sempre capace di smussare gli angoli,
sempre intenzionato a non esasperare le tensioni, privilegiava le
aperture. E sapeva essere pragmatico, anche per formazione culturale
perché da esperto di economia era in grado di interpretare e
spiegare i fondamentali. Necessari più che mai in questo «cambio
d’epoca», come abbiamo titolato il suo ultimo articolo.
Quando lo scorso anno
dichiarò di aver votato la pentastellata Raggi a sindaca di Roma
dimostrò appunto una grande elasticità mentale, accompagnata da una
forte critica alla “sinistra” storica (se vogliamo ancora
definire sinistra il Pd). Per un protagonista delle lotte politiche
della sinistra italiana degli ultimi 50 anni, è stata una scelta di
grandissima rottura con il passato, quasi un “colpo di scena”.
Eppure quella decisione, nell’ottica e nella logica di Valentino,
rappresentava il meno peggio.
I tanti che oggi ne
parlano come di un “eretico”, beh, mi danno l’impressione di
rifugiarsi in una definizione di comodo. Come Pintor, Rossanda e
Castellina, Valentino era un comunista. Profondamente, coerentemente,
con i dubbi e le contraddizioni di un intellettuale libero.
Semmai l’eresia è
stata ed è appannaggio di chi, negli anni, ha persino cancellato la
parola dai simboli e dalle bandiere.
E’ stato un uomo al
quale in tanti hanno voluto bene, e lui sapeva farsi voler bene. E’
stato un amico perfino nei momenti difficili che hanno determinato
una traumatica separazione all’interno dello storico collettivo del
giornale. La sua lontananza definitiva dalla vita lascia un vuoto per
tutte queste cose.
Negli ultimi tempi veniva
di rado in redazione, tuttavia il suo contatto con il giornale è
stato frequente. Tranne il periodo in cui si determinò la spaccatura
tra l’attuale redazione e una parte del gruppo fondatore. Eppure
anche durante questa dolorosa e difficile fase del manifesto,
lui in qualche modo cercava di tenere aperti i collegamenti.
Valentino sentiva la
nostra mancanza e noi sentivamo la sua. E questo reciproco sentimento
ci aiutò ad abbattere il muro delle incomprensioni, riportandolo poi
a commentare la politica italiana e internazionale sulle pagine del
nostro giornale. Fino a pochi giorni fa, l’ultima telefonata,
quando, preso da altri impegni, non era riuscito a scrivere
l’articolo per il 25 aprile.
Alla sua compagna Maria
Delfina Bonada e ai figli, Enrico, Matteo e Valentina mancherà una
persona profondamente cara. E a loro va l’abbraccio del manifesto.
Ci mancheranno i suoi suggerimenti, mossi sempre dalla trasparenza,
dalla franchezza di una persona dolce e gentile.
Ciao, caro Vale.
Il manifesto – 3 maggio
2017
I ricordi di un comunista italiano di Libia.
Valentino Parlato
La mia Libia
Sul finire di quella
notte di novembre del 1951 i poliziotti inglesi entrarono in casa
nostra. Erano armati, la perquisirono e mi arrestarono. Io avevo
vent'anni. Non appena li vidi, prima ancora che fossero dentro,
buttai dalla finestra tutte le pubblicazioni visibilmente comuniste
che tenevo in casa. Avevo paura della prigione, e invece quando capii
che l'auto militare mi portava in direzione del porto trassi un
sospiro di sollievo. Espulsione, e non galera.
All'imbarco, sul
piroscafo Celio, trovai Errico Cibelli, Antonio Caruso, Giovanni e
Giuseppe Russo, Bruno Mangani, vecchio anarchico. Quando presi la sua
valigia per aiutarlo, il braccio mi volò per aria: dentro c'erano
solo due cravatte Lavallière. Quelle degli anarchici.
Ma perché arrestati ed
espulsi? In sostanza perché stavamo facendo un buon lavoro politico.
Il Corriere di Tripoli diede la notizia titolando: "Sei persone
rimpatriate per attivismo comunista sovversivo". Il Sunday
Ghibli, più spiccio, annunciò: "One way ticket",
biglietto di sola andata.
Avevamo costruito —
promotore soprattutto Cibelli, il notaio più prestigioso di Tripoli,
nonché il capo della banda — un sindacato italo-libico con il
compagno libico Mohamed Buras che diresse uno straordinario sciopero
del porto, il primo in cui italiani e libici parteciparono insieme.
Per il Primo maggio riuscimmo a realizzare anche un corteo piuttosto
imponente. Del lavoro sindacale si occupavano in particolare i
fratelli Russo e Nino Caruso, che oggi è un protagonista dell'arte
della ceramica (proprio in questi giorni espone alla Galleria
nazionale d'arte moderna). La diffusione del sindacato,
l'infiltrazione del Partito comunista e, cosa forse più importante,
l'Associazione per il progresso della Libia che rivendicava una Libia
indipendente e democratica, trovarono l'opposizione non solo
dell'Autorità militare britannica che occupava il Paese ma anche
della comunità italiana che pensava che la Libia dovesse tornare
all'Italia. Vale la pena ricordare che quasi contemporaneamente alla
nostra cacciata non a caso fu rimandato in Egitto Bashir al Sadawi,
che dirigeva il Comitato di liberazione della Libia e con il quale la
nostra associazione aveva stretti rapporti.
Ci riunivamo
nell'elegante studio notarile di Errico Cibelli. Io ero il più
giovane, dovevo distribuire i volantini nelle buche delle cassette
postali. Ma partecipavo anche attivamente, con Mario Mazzarino, alla
redazione di due giornali successivamente chiusi d'autorità: Il
Pinguino e il Corriere del lunedì per cui curavo la rubrica "Visto
da destra e visto da sinistra" — dove ovviamente gli argomenti
"visti da destra" erano piuttosto stupidi.
Sono passati più di
sessant'anni da allora e sono convinto che questa mia giovanile
esperienza libica è quella che mi ha incamminato prima verso il Pci
e poi verso il manifesto. Ma non è l'unica ragione per cui provo
affetto per questo Paese oggi così drammaticamente devastato — e a
mente fredda è difficile negare che l'intervento militare del 2011
abbia prodotto l'attuale disastro. La tragedia cui assistiamo in tv
ha la capacità di riaccendere la mia memoria anche sugli anni
precedenti quelli del mio impegno politico, gli anni in cui ero
ancora soltanto un bambino nato a Tripoli nel febbraio ‘31 da
giovanissimi genitori italiani.
Uno dei miei primi
ricordi è il giorno in cui Mussolini doveva arrivare a Tripoli per
impugnare la "Spada dell'Islam". Allora era governatore il
maresciallo dell'aria Italo Balbo (poi abbattuto dalla contraerea
italiana nel cielo di Tobruk). Per l'accoglienza del Duce organizzò
serate e serate di prove con marce, sfilate, cavalli, dromedari. Per
noi bambini era una festa. La residenza del governatore, che era
vicina a casa nostra, era una specie di palazzo reale con tre cupole
e un parco. Lì si svolgevano feste sfarzose che noi guardavamo dal
terrazzo come fossimo al cinema. La domenica, altro avvenimento: la
messa ufficiale alla quale Balbo si faceva condurre da una berlina
trainata da quattro cavalli. Entrava nella cattedrale sotto la navata
centrale e sfilava tra due fila di giovani fascisti che presentavano
le armi. Dovevano restare immobili per tutta la durata della messa.
Alcuni svenivano, ed erano prontamente allontanati.
L'Italia entrò in guerra
nel 1940, e noi tutti della quinta elementare venimmo promossi. Ma
insieme con la "promozione di guerra" arrivarono anche le
bombe di guerra sganciate dagli aerei inglesi. Mio padre mandò tutta
la famiglia — mia madre e noi tre figli — dai nonni Giuseppe e
Anna nella campagna di Sorman, un paesino a sessanta chilometri a
ovest di Tripoli e a pochi chilometri da Sabratha, l'antica città
romana, tra i più suggestivi siti archeologici, a picco sul mare. Fu
qui che mi trasformai in contadino agli ordini di mio nonno. Lui mi
insegnò a curare gli animali, a montare a cavallo, a raccogliere le
arachidi. Scopro così che le noccioline americane nascono sotto
terra e imparo anche che gli animali hanno una memoria: una volta un
cammello al quale avevo appiccato un fuocherello sotto la pancia per
farlo alzare, l'indomani mi sferrò un calcio che mi sbatté per
terra.
Tutto il lavoro agricolo
era fatto da braccianti libici, noi li chiamavamo tutti "arabi".
L'uccisione del maiale e la festa del vino, invece, la facevamo noi.
Gli arabi abitavano in capanne di legno, tela e lamiere che si
chiamavano zeribe. Io li frequentavo, e con loro imparai anche
qualche parola di arabo. Appresi che si dividevano in kabile , le
fazioni oggi — credo — protagoniste degli scontri. In campagna
frequentai anche i soldati italiani, prima in avanzata e poi in
ritirata. Accampati nelle zone vicine venivano da mio nonno per
comprare il vino. Si sistemavano sotto gli alberi davanti casa. Ero
io che portavo loro il vino e — curioso — mi fermavo ad
ascoltarli parlare. Parlavano dei loro paesi, della guerra, e più
spesso di donne. Io che avevo tra gli undici e i dodici anni ero
tutt'orecchi. Grazie all'esercito mi feci anche una cultura, seppur
alquanto stravagante. Quando il campo d'aviazione fu smobilitato il
comandante regalò infatti a mio nonno la loro biblioteca. Mi tuffai
nella lettura: lessi Tolstoj, Palazzeschi, romanzi d'amore, ma anche
dizionari e manuali su come si curavano le malattie veneree.
Con la ritirata
arrivarono i tedeschi. Una sera fecero un'esibizione di fuoco
antiaereo, poi uno di loro che parlava italiano disse a mio nonno che
gli ufficiali avrebbero gradito cenare al coperto. Ovviamente mio
nonno accettò. Fu preparata la cena, e mentre eravamo tutti a tavola
— c'erano il comandante del reparto, l'ufficiale medico che mi
sedusse perché aveva due coniglietti in una gabbietta sull'auto, il
sergente Springhorum che parlava italiano — la radio, che avevano
portato, annunciò la sconfitta di Stalingrado. Calò il gelo sulla
tavola, e un cupo silenzio. Poi tutti alzarono i bicchieri e
l'indomani all'alba partirono per la Tunisia.
Bambino con la madre e i nonni
Se i tedeschi se n'erano
andati, gli inglesi ancora non si vedevano e mio nonno, preoccupato
di essere in balìa dei libici, decise di armarci tutti. Mi insegnò
a sparare, ma per fortuna non successe niente: era il ‘43 e per noi
la guerra era finita. Tornammo a Tripoli. Le autorità inglesi
avevano riaperto la pubblica amministrazione e mio padre, che era
funzionario, tornò al lavoro. Io invece non tornai a scuola, studiai
privatamente, saltai le medie e mi iscrissi direttamente all'unico
liceo scientifico di Tripoli. Qui entro nel giro di Cibelli, qui
comincio a interessarmi di politica e sempre qui assisto al tragico
pogrom del 1945. Gli inglesi, ostili alla creazione di uno stato di
Israele, il 4 novembre lasciano partire un ferocissimo pogrom che
dura tre giorni, fa 132 morti e 365 feriti. Per tutta la durata delle
violenze la polizia e le forze armate inglesi restano consegnate in
caserma. Ho ancora il senso di colpa per non aver accompagnato in
quei giorni, insieme agli altri studenti italiani, i nostri compagni
di scuola ebrei a casa.
Paradossalmente è
proprio dal lavoro politico di quei miei primi vent'anni — venni
espulso dalla Libia che Gheddafi ne aveva appena nove — che quasi
cinquant'anni dopo il Raìs mi invitò a Tripoli. Gli avevo fatto
avere i documenti della nostra Associazione per il progresso della
Libia insieme agli articoli sulla mia espulsione. E mentre agli
italiani nati in Libia era proibito tornare, Gheddafi non solo mi
invitò ma mi concesse anche un'intervista per il manifesto. Lo
incontrai altre volte. Era un dittatore, aveva una cultura notevole.
Pubblicammo un suo libro di suggestivi e raffinati racconti. Fuga
all'Inferno. Non poteva immaginare che la Libia si sarebbe
trasformata in un inferno.
La Repubblica – 8 marzo
2015
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