L'amica Manuela Busalla mi ha gentilmente segnalato questa sua bella recensione di una Mostra del grande Manet, tuttora in corso nel Palazzo Reale di Milano, che pubblico con piacere in questo spazio:
Manet e la seduzione di una pittura nuova
Nella Parigi di Napoleone III e del barone Haussmann,
il capofila dell’Impressionismo tra il rifiuto degli accademici
che popolano i Salon e il plauso degli intellettuali
il capofila dell’Impressionismo tra il rifiuto degli accademici
che popolano i Salon e il plauso degli intellettuali
Attratto dall’evoluzione di Parigi, la sua musa prediletta, Édouard Manet ne restituisce il cambiamento sulla tela perché la modernità è proprio nei soggetti e nelle tecniche audaci. Non a caso con lui si affacciano sulla scena gli impressionisti e il suo intento è quello di catturare la poesia dell’attimo che passa, la bellezza transitoria o quell’istante sospeso in cui ogni personaggio è isolato nel proprio mondo interiore.
Considerate provocatorie e persino scandalose, molte sue tele suscitarono critiche e il secco rifiuto degli accademici. Eppure Manet – figlio dell’alta borghesia – voleva il plauso dei Salon. Invece non ebbe mai quelle soddisfazioni alle quali ambiva e meritava. Ma a difenderlo furono Zola, Baudelaire e Mallarmé. Degas, suo rivale, dirà: «Era più grande di quanto pensassimo». E Guy Cogeval, curatore di questa mostra, riconosce a Manet «un approccio intellettuale… e la capacità di far scaturire dalla tela un significato immediato».
Uomo di mondo raffinato e brillante, Manet sovverte i codici estetici, dipinge con pennellate esuberanti, si serve di campiture nette. E quando si dedica alla pittura en plein air la sua tavolozza si arricchisce di una nuova luminosità. Ne sono un esempio Chiaro di luna sul porto di Boulogne (1869) e La fuga di Rochefort (1881). L’artista – che da ragazzo aveva solcato l’oceano come mozzo – rende con precisione il moto del mare e la vulnerabilità dei fuggitivi. Perché il suo interesse è rivolto all’interiorità dei personaggi. Quando Manet ritrae gli intellettuali e le sue donne (siano muse o compagne di vita poco importa) dalla tela sembra materializzarsi quella profonda complicità artistica o sentimentale. Lo si nota tanto in Berthe Morisot con un mazzo di violette (1872) quanto nella scena intimista che pervade La lettura (1865-1873). Ma non è ancora tutto, perché proprio nel ritrarre sua moglie Suzanne Leenhoff, l’artista esalta la consistenza dei tessuti: la mussola dell’abito, il pesante rivestimento del divano e le tende svolazzanti. Una sinfonia di bianchi che annuncia le straordinarie capacità pittoriche e il virtuosismo raccontati poi con una palette di tonalità scure. Come testimoniano, tra gli altri, i ritratti a Émile Zola (1868) e Stéphane Mallarmé (1876). Tant’è che Pissarro dirà: «Manet è l’unico in grado di trasformare il nero in luce».
Eppure la sua arte, per quanto di rottura col passato, affonda le radici nella tradizione. Egli conosce bene il tratto di Raffaello e Tiziano, Goya e Velázquez. Lo si nota ammirando Il pifferaio (1866): magistrale trionfo del colore e totale assenza di prospettiva, «fatto di semplicità e armonia», come dirà Zola. Nelle nature morte, invece, Manet enfatizza la vanitas, tema caro alla scuola olandese, e – già malato – riflette sulla caducità della vita. Un accento drammatico sulla morte lo si percepisce in Ramo di peonie bianche e cesoie (1864). In mostra, a fare da controcanto al genio ribelle sono le tele di Boldini, Degas, Cézanne, Renoir, Signac, Monet, Fantin-Latour e tanti altri. Testimoni degli stessi cambiamenti epocali, scivolano come lui nella dimensione del reale e catturano il presente.
Manuela Busalla 2017
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