Nel 1906, mentre si compiono lavori per l’ampliamento delle
stanze del Tribunale di Palermo nel Palazzo dello Steri, emergono
disegni e scritte. Subito è avvisato Giuseppe Pitrè, grande studioso del
folclore. Arriva e si mette a scrostare personalmente i muri delle
stanze del primo piano. Vi lavora sei mesi, e man mano affiorano
iscrizioni, versi, disegni. A lavoro finito si trova davanti quattro
pareti intere fino all’altezza delle mani di un uomo “fitte di
manifestazioni grafiche”. Per dieci metri quadrati in ogni parete non
c’è solo un dito di spazio libero, scrive ancora emozionato della
sensazionale scoperta: “linee sovrapposte a linee, disegni a disegni
davano l’idea d’una gara di sfaccendati ed erano sfoghi di sofferenti”.
Li battezza: “palinsesti del carcere”. Dopo due secoli e mezzo
riappaiono così i graffiti dei prigionieri sepolti nelle segrete del
palazzo: “erano uomini che tornavano a parlare in versi e in mozzi
accenti, a rivelarsi con ghirigori, volute ed accartocciature”.
Sono, come recita oggi una dedica, ebrei, luterani, musulmani,
quietisti, rinnegati, negromanti, guaritrici, prostitute, ecclesiastici,
bestemmiatori, eretici. Stavano stipati nelle otto celle del piano
terra e nelle sei del primo piano. Allo Steri c’erano le carceri
dell’Inquisizione, dette Filippine, costruite al tempo di Filippo III,
l’Ostello Magno, costruito da Manfredi Chiaromonte nel XIV secolo. Da
abitazione dei Vicerè, l’edificio con le parti accluse era divenuto
dimora degli inquisitori del tribunale e dell’annesso reclusorio, poi
passato, dopo la cessazione dell’abominevole istituzione, a essere
Tribunale civile, e oggi sede del Rettorato dell’università. Per gli
imputati l’ingresso nelle celle era entrare in un mondo altro, di cui
non si conoscevano né le regole né i protagonisti, implicava perdere la
nozione del tempo e insieme della propria identità, vivere
nell’isolamento e nel buio per anni e anni, come ha raccontato Maria
Sofia Messena. Durata quasi tre secoli, dal 1487 al 1782,
l’Inquisizione, armata di strumenti di tortura, si accaniva su uomini e
donne nutriti “col pane del dolore e l’acqua della tribolazione”, come
asserisce il manuale inquisitorio, al fine di far loro espiare la colpa e
rieducarli all’ortodossia.
Oggi quei palinsesti e altri, apparsi dopo nuove campagne di
restauro, si possono vedere nelle quattordici celle del piano terra e
del primo piano, oltre che nelle Carceri della Sala Terrana. Lasciano
stupefatti, sbalorditi e commossi tanto quanto, se non di più, le
pitture nelle grotte di Altamira, poiché gli autori di questi
straordinari graffiti non erano cacciatori di ritorno o in andata a una
battuta vittoriosa su animali, bensì dei perdenti, degli scomparsi, gli
uomini ridotti a bestie, e che bestie non vollero essere, tanto da
lasciar traccia di sé su queste pareti attraverso pensieri, immagini,
esortazioni, descrizioni, paesaggi, episodi sacri e profani. Bisogna
proprio venir qui per sentire quelle che Leonardo Sciascia, che tanto ha
fatto dal 1964 per riscoprire e conservare i disegni dello Steri, ha
definito le “urla senza suono”. “Averti ca cca si dura la corda/ Statti
in cervellu ca cca dunanu la tortura.”, sta scritto su una parete; poco
più in là, Pitrè legge: “V’avertu ca cca prima donanu corda…/ Statti in
cervellu ca cca dunanu la tortura/ arti infami”. Invocazioni: “O
Rosalea, sicut liberasti a peste Panhormum/ me quoque sic libera carcere
et a tenebris”; e ancora: “Tu celeste Guerrier che la Donzella/
Salvasti, togli me a questa tortura”.
Vergate con punteruoli, primitivi pennelli, utilizzando come pigmento
sangue, piscio, feci, fumo di candela, mattoni d’argilla, latte, albume
d’uovo, succo di limone, cera, i palinsesti ricoprono le pareti da
terra al soffitto, fino a cinque metri. Ci sono scritte in quattro
lingue (siciliano, latino, inglese, arabo-giudaico), graffiti con firme,
date, simboli esoterici, personaggi religiosi, donne, navi, oggetti,
carte geografiche, architetture, piante, animali, motivi decorativi.
Nella cella numero 2 del piano terra è raffigurato il Leviatano, enorme
pesce dalla bocca spalancata. Divora i patriarchi dell’Antico Testamento
e i progenitori inginocchiati che si rivolgono imploranti al Cristo, il
quale regge uno stendardo. Segno del desiderio irrefrenabile di
sfuggire alla propria condizione, speranza posta in un miracoloso
intervento divino, unica possibilità che forse si poteva contemplare dal
fondo della Bestia infernale, che li aveva inghiottiti e lentamente
masticati. Al di sopra dell’Animale biblico c’è una testimonianza in
lingua inglese di un condannato a morte che è stato risparmiato.
La firma sotto al disegno è di Don Leonardvs Germanvs, con
un’iscrizione latina, che poi prosegue in inglese per descrivere la
salvezza dell’umanità intera grazie al sacrificio di Cristo. Lo spazio è
tramato da fittissime annotazioni; dentro il disegno del Leviatano c’è
poi una citazione dantesca, e il mostro, pensato come porta
dell’Inferno, riproduce l’originario ingresso al carcere stesso visibile
dalla cella. Visionari e realisti, i graffitari delle segrete
manifestano una grande nostalgia del mondo esterno, della dolce vita
alla luce del sole: odori, colori, amici, famigliari, casa. Sono perciò
disegnati paesaggi a loro noti, e persino due dettagliate e attendibili
mappe della Sicilia stessa, con i nomi dei paesi. Un cartografo è stato
senza dubbio prigioniero dell' Inquisizione tra il 1637 e il 1647, e ha
raffigurato la terra amata. Sul fondo delle galere c’erano
intellettuali, scrittori, poeti, letterati, oltre a commercianti,
pescatori, ecclesiastici, nobili. Qui fu rinchiuso, da qui evase e poi
tornò in catene per morirvi, Fra Diego La Matina, che Sciascia ha
immortalato in La morte dell’Inquisitore. Come osservano gli
autori di un utilissimo atlante dei disegni e graffiti dello Steri,
nelle parti più alte o luminose delle celle compaiono temi e figure
d’ispirazione religiosa, mentre nelle zone più buie, in basso, vicino al
pavimento, ci sono i segni delle irrefrenabili pulsioni: sberleffi,
insulti, oscenità.
Non è irragionevole pensare che gli inquisitori avessero tollerato le
scritture murarie, i graffi e le pitture edificanti, per verificare
pentimenti, ravvedimenti, abiure; gli studiosi ipotizzano che in alcuni
casi, per le pitture più eleganti, gli aguzzini stessi avessero fornito
istruzioni, oltre tavolati, scale, pennelli e colori. Si può restare per
ore a guardare alla luce dei fari queste lettere, i graffi, le immagini
consegnate a nessuno, se non a se stessi e ai propri compagni di
sventura. Ogni volta che si torna alle camere murate dello Steri, con
quelle piccole e terribili feritoie in alto, si scoprono sempre nuovi
ritratti o dettagli sulle pareti, e non si può non pensare che queste
sono forme di resistenza al destino inclemente, al dolore e alla morte
che minacciavano di continuo i condannati. Sono vite vissute, che ci
sono state consegnate dal lavoro paziente e del Pitrè, poi di Sciascia e
di altri come loro, che hanno salvato dalla damnatio memoriae
un patrimonio straordinario che colpisce per la sua ossessività, la
costanza e per la forza d’animo degli autori. Il repertorio delle
immagini religiose (Santi, Cristo, Crocifissione, Maria, Ecclesiastici) è
spesso inserito in strutture architettoniche, sino a riempirne tutti
gli interstizi tra un edificio e l’altro, in mezzo a nicchie, balaustre,
finestre, androni, tetti.
Ci sono motivi a zig zag, fregi decorativi, che ricordano l’arte
barocca, e senza dubbio provengono da chiese frequentate dai carcerati
nella loro passata vita di uomini liberi. Il motivo delle navi è assai
presente a partire dai graffiti che raffigurano la battaglia di Lepanto
del 1571 contro l’Impero Ottomano. Per i più fortunati la pena da
espiare era infatti a bordo di galeoni, ai remi, come schiavi, sui mari,
in mezzo ai flutti e ai pericoli. Queste parti dipinte trasudano
terrore e sconforto e spesso sono accompagnate dalle figure dei medici
mascherati davanti alle ricorrenti malattie pestilenziali diffuse nei
porti del Mediterraneo. Uscendo da questo mondo sotterraneo, prigione e
tomba, luogo di sofferenza e di espiazione, resta negli occhi una
scritta in maiuscolo: “ANIMO CARCERATO”. La speranza è sempre l’ultima a
morire, anche allo Steri.
Marco Belpoliti
Cosa leggere per saperne di più:
Gli scritti di Pitrè e Sciascia sono raccolti con altri testi nel volume Urla senza suono
(Sellerio 1999); lo studio più importante sull' Inquisizione in Sicilia
è opera di Maria Sofia Messana, scomparsa da pochi anni, Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia Moderna (1500-1782) (Sellerio 2007); a lei è dedicato il recente restauro delle celle del piano terra; nel volume Lo Steri dei Chiaromonte a Palermo, a cura di Antonietta Iolanda Lima (Plumedia Edizioni, 2015) è compreso uno scritto di Gianclaudio Civale, Le testimonianze dei reclusi sulle pareti delle carceri; allegato al volume di Plumedia sullo Steri c’è l’indispensabile: Disegni e graffiti dei prigionieri dell’Inquisizione. Atlante fotografico,
con le riproduzioni delle immagini, la legenda dei disegni e graffiti,
la trascrizione dei testi incisi sui muri; vi figurano testi di C.
Catalano, O. Ferro, A.I. Lima, B. Mazzola, F. Sommantino, O.
Tuttolomondo; si tratta della più approfondita indagine su questo
incredibile patrimonio espressivo del dolore.
Questo articolo è comparso in forma più breve in “Robinson” il supplemento culturale de “La Repubblica”. Noi l' abbiamo ripreso da http://www.doppiozero.com/materiali/graffiti-dellinquisizione che ringraziamo.
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