10 maggio 2017

I SOLILOQUI DI S. AGOSTINO



Benozzo Gozzoli, Donna e fanciullino (1463)


Fabio Gasti

Discorso con se stesso in campagna

Nella vita di sant’Agostino c’è un momento cruciale che impegna la sua riflessione sia dal punto di vista esistenziale sia da quello speculativo e soprattutto letterario, la svolta che conduce un giovane retore di successo, proveniente dalla grande scuola cartaginese e apprezzatissimo alla corte imperiale di Milano, a lasciare la professione di maestro, la visibilità e il successo anche economico per dedicarsi esclusivamente a Dio e al ripiegamento interiore. Ciò significava assicurare uno scopo alla ricerca esistenziale e filosofica che lo aveva impegnato negli anni precedenti, un percorso che negli anni Settanta è stato percepito come un’evoluzione tutta emotiva e interiore, da descrivere alla luce di contemporanee esperienze di quello che chiamiamo esistenzialismo novecentesco, ma che oggi piuttosto vediamo fortemente radicato sulla letteratura: Agostino infatti, nel raccontarci con stile personalissimo il proprio cammino, accoglie suggestioni dalla produzione pagana e cristiana che conosce bene e che nello stesso tempo sa innovare, finendo per costituire a sua volta un punto di riferimento, un modello per le generazioni future di scrittori e di cristiani.

Alla fine dell’estate del 386 si colloca la cosiddetta conversione, il culmine di un percorso di riflessione narrato con indimenticabile potenza e indubbia capacità di rappresentazione nel libro VIII delle Confessioni. Qui lo scrittore fra l’altro inscena con indimenticabile efficacia il partecipato conflitto all’interno della propria coscienza fra tensione a Dio – che gli studi filosofici e segnatamente il neoplatonismo avvicinano sempre più – e attrattive terrene, icasticamente rappresentate dalla ricerca di successo professionale e dall’amore per le donne: alcune pagine sono certamente indimenticabili e hanno alimentato nei secoli l’immagine di un Agostino alla ricerca della verità in interiore homine, che pur con molti correttivi rappresenta comunque la cifra più duratura del pensiero agostiniano.

Classicismo e spiritualità

Ebbene, dopo la famosa scena del giardino milanese, in cui Agostino «si converte» (etimologicamente, «imbocca una strada diversa»), prende cioè coscienza della svolta ormai inevitabile, e in attesa del battesimo, ricevuto la vigilia di Pasqua dell’anno successivo dalle mani di sant’Ambrogio, la vita del futuro vescovo di Ippona si sposta per qualche tempo in campagna, nella villa di un facoltoso amico a Cassiciacum, una località di identificazione non sicura, capace di riproporre l’idea antica di otium, di riflessione e serena discussione con amici su argomenti filosofici. In questo contesto, denso di echi classicistici come di spiritualità «moderna», matura la composizione delle prime quattro opere dell’ex retore, i cosiddetti dialoghi – poco importa se reali o immaginari – fra cui appunto i Soliloqui, che ora rileggiamo nell’edizione curata da Manlio Simonetti per l’elegante collana della Fondazione Lorenzo Valla (Mondadori, pp. 216, € 35,00).

L’opera, insieme alle Confessioni, è il testo agostiniano più espressivo di quello che chiamerei l’«agostinismo assoluto», cioè la tendenza allo scandaglio interiore, l’attenzione ai movimenti della coscienza, la cura nel rappresentare le pulsioni dell’animo, che manifesta senz’altro il carattere più intimo della riflessione di Agostino, pur senza esaurirla, ed è anche quello percepito come il più vicino alla sensibilità dell’uomo moderno nelle sue incertezze e nella sua ricerca di risposte definitive. E se le Confessioni contengono un potente affresco della vita dell’autore, dagli eventi anche marginali della sua esistenza fino alle certezze rinvenibili grazie all’esegesi biblica (questo il senso degli ultimi libri dell’opera, apparentemente scollegati dall’autobiografia), i Soliloqui presentano per così dire un approfondimento in senso spirituale e «monografico», dato che il tema del dialogo è la conoscenza di Dio e dell’anima, «vale a dire – annota Simonetti – gli argomenti fondamentali della ricerca filosofica, e non solo di allora» (p. XXIII).

Siamo dunque di fronte a un’opera consapevolmente legata alla tradizione antica, sia in senso filosofico che in senso letterario, e, anche per questo, si tratta di un testo nuovo nel panorama letterario fino ad allora, a partire dalla situazione rappresentata e dal titolo.
Infatti anzitutto la forma riproduce quella classica del dialogo di tipo platonico o aristotelico, già presente a Roma grazie a Cicerone ma originalmente innovata da Agostino, che la trasforma in un ampio e profondo, anche severo, colloquio con se stesso sdoppiato in due «personaggi», appunto Agostino e la Ragione (Ratio). Questo escamotage, squisitamente letterario, «ha permesso ad Agostino di fondere in uno due generi letterari: le riflessioni dell’autore tra sé e sé, del tipo dell’opera di Marco Aurelio, e l’effettivo dialogo a due interlocutori, creando così un nuovo genere letterario, che avrebbe avuto fortuna» (p. XXVII), basti pensare al De consolatione philosophiae di Boezio e soprattutto al Secretum di Petrarca, dove Agostino torna a essere personaggio.

Quindi il titolo – Soliloquia piuttosto che Colloquia –, un neologismo agostiniano di cui lo stesso autore, nelle vesti della Ragione, offre l’interpretazione autentica ad Agostino in 2,7,14: «sono discorsi che facciamo soltanto fra noi e che voglio abbiano per titolo Soliloqui, con nome nuovo e forse poco gradevole ma quanto mai adatto alla dimostrazione dell’argomento». Non dobbiamo stupirci della libertà dello scrittore di manipolare il lessico: lo stesso titolo di Confessiones (che l’italiano Confessioni non rende affatto) rappresenta d’altra parte una potente innovazione linguistica, che unisce la solennità del tema del verbo fateor («affermare») al prefisso cum, che indica condivisione (con Dio e con i fratelli) e partecipazione (di tutte le facoltà, spirituali e corporali).


Con violenza sulla lingua

Il retore convertito prende continuamente le distanze dallo scrupolo linguistico fine a se stesso ma è sempre attento alla cura stilistica e agisce anche con violenza sulla lingua avendo in mente l’efficacia della comunicazione, come dichiara in un celebre passo delle Ennarrationes in Psalmos (138,20), che ha l’immediatezza di uno slogan: «meglio essere rimproverati dai grammatici che non essere capiti dalla gente» (melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi). Eppure i Soliloqui non sono un’opera per il grande pubblico, e va detto che Simonetti, sia nell’introduzione che nelle note di commento, insiste su questo aspetto, che costituisce il modo più corretto di interpretare la fine letterarietà dell’opera, e ciò avviene particolarmente attraverso due osservazioni senza dubbio basilari.

Anzitutto infatti ci aiuta a valorizzare in tal senso l’articolata preghiera inziale con cui Agostino chiede a Dio sostegno e soccorso continuo, un pezzo «di evidente fortissimo impegno stilistico, il cui effetto viene moltiplicato dalle inusitate dimensioni della performance retorica» (p. XXVI) e che, nonostante il contenuto dogmatico in senso trinitario, lo scrittore sa connotare secondo stilemi classici, prima che cristiani. E poi identifica il destinatario dell’opera nei lettori colti e capaci di interpretare correttamente stile e allusioni: in questi infatti vanno riconosciuti i misteriosi «pochi concittadini» cui la Ragione invita Agostino a rivolgersi (1,1,1) e che non dobbiamo ricercare negli abitanti di Tagaste, suo paese natale, o di Cartagine, o di Milano, e nemmeno nei cristiani, suoi compagni di fede, bensì in «quanti, sia cristiani sia pagani, sono filosoficamente [e, aggiungo, anche letterariamente] in sintonia con lui e quindi in grado di apprezzarne i Soliloqui» (p. XXVIII).

Rileggendo dunque questo dialogo con se stesso ma paradossalmente a due, troviamo un Agostino maturo cristiano ma anche maturo letterato, che dimostra come la grande letteratura cristiana, anche quando apparentemente si mostra basata sull’effusione del sentimento e sulla professione di fede, in realtà è radicata in una profonda institutio classica degli autori. Si tratta, com’è evidente grazie a studi come il presente, di uno dei nodi critici fondamentali per apprezzare in tutto il suo valore storico-culturale la produzione dei Padri della Chiesa.
  
Il Manifesto/Alias – 7 maggio 2017

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