S’è discusso molto, negli scorsi mesi, delle palme a piazza
Duomo di Milano. Botanici e climatologi, esperti di marketing
territoriale e testeduovo di marche planetarie, amministratori locali e
politici nazionali, paesaggisti e giardinieri, fancazzisti su Facebook e
cittadini comuni: tutti a dire la loro, ché sembrava quasi di stare al
bar dello sport durante un mundial prima dei fatidici rigori della
semifinale. In pochi hanno però notato che, per ironia della storia, con
quel curioso impiantamento nelle brume meneghine s’è avverata, alla
lettera, la nota profezia di Leonardo Sciascia. La palma va a Nord,
recitava il titolo d’un suo prezioso libro di trent’anni e passa fa –
chissà perché mai più ristampato. E adesso sappiamo che c’è proprio
arrivata, da quelle parti, sistemandosi benissimo, comodamente e
orgogliosamente, a dispetto dei soliti detrattori sbraitanti in nome di
un etnocentrismo deteriore che, per ulteriore ironia, oggi emana da
tutti i pori tristi vampate di esoticità. Il monito di Sciascia, in
quell’immagine delle palme viaggiatrici, era chiaro: non solo la più
infida meridionalità, quella del malaffare sedicente politico e della
criminalità organizzata, si espande verso il settentrione del Paese, ma
lo fa con grande scaltrezza e celerità, ribaltando di fatto gli ideali
di quel Risorgimento ottocentesco che avrebbero voluto unire il Paese in
nome del migliore illuminismo padano.
È, come al solito, il pensiero strategico dei brand ad aver capito la
sottile comicità della faccenda, affondando, come si dice, il dito
nella piaga. Starbucks, tanto vale fare nomi, è una marca che ha fatto
la sua enorme fortuna esportando nel mondo il modello conviviale dei
caffè italiani: ci si accomoda, si sorseggia una tazza fumante e
odorosa, ci si rilassa, si legge, si chiacchiera, magari si discute.
Insomma: il modello gastronomico-filosofico-politico che, fra l’altro,
ha dato il nome a quel Caffè dei Beccaria e dei Verri che
Sciascia, e Manzoni prima di lui, tanto adoravano. Habermas ci ha ben
spiegato che l’Opinione Pubblica è nata là. E adesso che il mondo l’ha
conquistato per intero, Starbucks ha deciso di fare il doppio salto
mortale e aprire i suoi locali proprio dove era partito, ossia appunto
da noi, e nella piazza più ricca e nota d’Italia. Quel caffè sotto la
Madonnina è insomma uno schiaffo morale e civile, economico e sociale.
Ce lo siamo meritati: sapremo porgere l’altra guancia?
L’immagine sciasciana della linea della palma che sale impietosamente
verso Nord acquista così, passando per la via larga della società dei
consumi, una sua ulteriore verità, senza peraltro perdere quella che già
aveva. Anzi rafforzandola: dovremo farcene una ragione. E in attesa di
rileggere – si spera – il libro da cui tutto ciò che ha preso forma e
sostanza, e soprattutto di darlo in lettura a chi da trent’anni viene
praticamente secretato, possiamo provare a consolarci un po’ grazie alla
ripubblicazione del suo più giovane compare d’anello, A futura memoria (se la memoria ha un futuro),
mandato in libreria da Adelphi per l’amorosa cura di Paolo Squillacioti
(pp. 205, € 24). I due libri infatti, come si ricorda nella
postfazione, si susseguono e in parte si sovrappongono cronologicamente:
la Palma raccoglie testi, articoli e interviste di Sciascia fra il 1977 e il 1980; la Futura Memoria mette insieme quelli dal 1979 al 1988.
È lo Sciascia più schiettamente politico, quello che usa intelligenza
letteraria e sensibilità poetica per leggere, e provare a interpretare,
gli eventi d’attualità, che in quegli anni erano d’estrema importanza e
gravità: il dramma del compromesso storico, l’emergere del terrorismo,
l’ambiguità dei servizi segreti, la lotta alla mafia, le prime diatribe
sull’antimafia. Il tutto condito da quella che lui stesso soleva
chiamare, e in buona compagnia (si legga Settanta di Marco Belpoliti, Einaudi), “retorica nazionale”.
Sta qui, se la memoria ha un presente, il famigerato articolo del 10 gennaio 1987 sul Corriere della sera dove,
recensendo un libro di Christopher Duggan, con prefazione di Denis Mack
Smith, sulla mafia durante il fascismo, viene fuori l’idea epocale dei
cosiddetti professionisti dell’antimafia. Ricordiamo l’analogia che la
genera: così come nel corso del Ventennio “l’antimafia è stata allora
strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il
raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile” (pagina
124), allo stesso modo oggi si usa l’“antimafia come strumento di
potere” (stessa pagina).
E si fa l’esempio di “un sindaco che per sentimento o per calcolo
cominci a esibirsi […] come antimafioso” (pagina 125) e di un magistrato
– che poi era il giovane Paolo Borsellino – che “per specifica e
particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza
organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare”
viene nominato procuratore della Repubblica a Marsala a dispetto di
colleghi più anziani e con altri genere di titoli preferenziali. Solo
che quest’ultima citazione (sempre a pagina 125) è alla seconda: è la
citazione di Sciascia che cita fra virgolette il “Notiziario
straordinario” del Consiglio superiore della magistratura del 10
settembre 1986. L’idea, e la relativa terminologia, di una competenza
professionale nella lotta alla mafia non è dunque di Sciascia ma del più
alto organo della magistratura italiana, che ne fa, come si direbbe
oggi in burocratichese, criterio principale per l’assegnazione di posti
di prestigio nelle Procure dove la lotta alla mafia è pane quotidiano.
Riprendendola, e sottolineandone l’analogia con alcuni fatti accaduti ai
tempi del fascismo (il prefetto Mori che taccia di mafioso chiunque si
opponga al Duce), Sciascia certamente la amplifica, aprendo un
dibattito, per essere eufemistici, che dura ancor oggi, e che ha
esasperato ed esacerbato gli animi di politici e studiosi, opinionisti,
attivisti e, ovviamente, magistrati.
Sarebbe troppo facile (e difatti lo si è fatto) dire che Sciascia
aveva torto perché, fra l’altro, il povero Borsellino ha fatto la fine
che ha fatto. Come si capisce bene rileggendo i successivi articoli
presenti in A futura memoria, che entrano nel vivo della
polemica con illustri giornalisti nazionali, Sciascia usava il caso
Borsellino come puro esempio di una regola astratta e ben più generale. E
sarebbe facile, allo stesso modo ma dalla parte opposta, additare il
gran numero di sedicenti antimafiosi che, usando quest’etichetta
(brand?), hanno fatto il gioco della mafia, direttamente o
indirettamente, replicandone i modi aggressivi, gli obiettivi criminali,
i mezzi delinquenziali. Basta ricordare un pungente libretto dello
scorso anno di Gianpiero Caldarella, Frammenti di un discorso antimafioso (Navarra editore), per mettersi a ridere fino alla lacrime.
Quel che a distanza di trent’anni, senza per questo voler chiudere un
discorso che è ancora – ahinoi – più attuale che mai, possiamo ricavare
da tutto questo è una lezione di metodo. Nel senso più alto e più
urgente del termine. Al di là del fanatismo, della violenza, della
brutalità politica, della disonestà intellettuale, dell’ingiustizia,
quel che Sciascia combatte – qui come altrove – è soprattutto la bestia
nera della stupidità. Da cui una tragica considerazione: se la retorica
antimafiosa, alla fine, riesce a imporsi, a vincere e a dominare, è
perché essa opera in modo solo parzialmente consapevole. Per molti versi
essa è infatti – a rileggere il libro ci accorgiamo che viene ripetuto
ogni due pagine – frutto di cretineria, dell’incapacità di capire, ma
soprattutto della mancata comprensione delle differenze. Giudicare è
distinguere, distinguere è capire, capire è esercitare l’intelligenza.
Così, saper differenziare – come direbbe il sempreverde quadrato
semiotico – tra l’essere antimafioso e l’essere non mafioso è
estremamente difficile per uno stupido. Ma non impossibile. I miei
studenti, e non solo i miei, lo colgono immediatamente. Gli altri, per
usare una nuova immagine di un autore assai caro a Sciascia,
preferiscono andare a coltivare il loro giardino. Magari quello delle
palme a piazza Duomo, sotto la protezione della sirena che sta nel logo
di Starbucks. A fare e disfare quel che resta dell’Opinione pubblica.
Articolo ripreso da http://www.doppiozero.com/materiali/sciascia-politico-fra-le-palme-dellantimafia
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