Caravaggio, Giordano
Bruno e l'Inquisizione in un romanzo inedito di Ermanno Rea.
Giuseppe Lupo
Sullo sfondo di una Roma ancora intossicata dal fuoco che ha bruciato
vivo Giordano Bruno sulla piazza di Campo dei Fiori, Ermanno Rea
immagina Caravaggio costretto ad ascoltare, suo malgrado, le parole
di un Inquisitore ormai vecchio e malato, che gli parla di ordine, di
sottomissione, di organizzazione verticale del sapere, di visione
unilaterale del mondo. In dubbio non ci sono soltanto le sorti della
pittura o la fortuna dei suoi dipinti, ma il rischio della libertà,
che poi è una maniera assai sottile per alludere alla propria
incolumità.
Caravaggio - a parere di
questo Inquisitore - ascolta troppo convintamente le voci sinistre
del monaco di Nola, ha una maniera tutta sua di rappresentare Dio e
il suo mistero, diverge dalla norma in nome di una modernità che nel
suo caso si manifesta nei criteri di una religione inquieta e
irriverente, fatta di poche verità e soprattutto percorsa da uno
spirito di ribellione a qualsiasi concetto di autorità. Di questi
ingredienti forti si compone il breve monologo che Rea aveva
inizialmente pensato come spettacolo teatrale, poi come video, salvo
più tardi abbandonare entrambi i progetti e destinare tutto alla
forma di pagine stampate per essere lette.
La parola del padre non
è soltanto un’opera inedita, dunque, ma l’ultimo lascito di un
autore che ha cercato nelle storie da narrare le ragioni per cui
credere nell’umano, credere nella sua vocazione originaria, che è
quella del combattere contro i demoni della propria epoca e contro il
buco nero del tempo. Testamento morale? Può darsi. Di sicuro è un
testo dalla natura enigmatica, ricco di silenzi e di ellissi
(addirittura il personaggio di Caravaggio non interviene mai, se non
con gesti e atteggiamenti), che poi il lettore, ragionando per
paradossi, scopre essere la parte dotata di maggior fascino
evocativo, perché sono quei silenzi appunto i luoghi di più
pronunciata suggestione, i momenti in cui il non-dire diventa più
eloquente del dire.
Se ci fermassimo ai
preliminari, il pensiero correrebbe subito a un romanzo quasi omonimo
di Raffaele Crovi, il cui titolo - Le parole del padre (1991)
- ricalca perfettamente questo di Rea. Nel caso di Crovi, però, a
manovrare il discorso non era il cardine di obbedienza/disobbedienza,
ma il dialogo tra un genitore di sangue (Virginio Crovi) e un
genitore letterario (Elio Vittorini). È chiaro che Crovi e Rea
indagano in direzione diversa, soprattutto destinano alla dimensione
autoriale un ruolo che attiene alla sfera formativa o alla funzione
di controllo del sapere.
Nell’arringa che
l’inquisitore pronuncia dinanzi a uno spaesato Caravaggio, infatti,
i padri sono addirittura tre: il Dio supremo, il Papa, Cesare, un
pantheon di auctoritates, a cui inchinarsi sempre. Più che
essere una tormentata mistificazione dei doveri di una generazione
verso l’altra, Rea trasforma le angosce di un’epoca in risorse di
civiltà. Non è tanto importante ciò che avrebbe risposto
Caravaggio (a cui peraltro, per esprimersi, basta la voce dei suoi
dipinti), quanto il presagio di una condizione umana che continua a
sfuggire ai richiami dell’obbedienza, continua a nascondersi in
quella zona franca che è il tacere prima di assumere le vesti del
dubbio.
In quel territorio di
verità frammiste, in quell’area di confine dove rifugiarsi quando
il rifiuto di obbedire diventa necessità di conservazione, sta il
segreto di Caravaggio e Rea ne approfitta per compiere un discorso
sull’artificio del dissenso, sul segreto del non allinearsi che
risuona un po’ come una sorta di sfida lanciata ai paradigmi del
potere nelle sue forme più ottuse e sterili. Rea parla di ieri ma
con un occhio sull’oggi ed è così che la sua scrittura si fa
recitativo morale, forse presagio di tempi tristi, i nostri, dove
altre, più subdole funzioni di controllo esercitano il proprio
potere lasciando aperta e indisturbata la porta di una finta libertà.
il sole 24 ore – 21
maggio 2017
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