Simbolismo indiano. Il
loto o l’albero che germoglia, cresce fiorisce e fruttifica è
l’immagine scelta da Frederik D. Kan Bosch per rappresentare il
cosmo: «Il germe d’oro», da Adelphi.
Stefano Beggiora
L’India degli
archetipi calati in forme di arte viva
Distante dai canoni
artistici occidentali, l’estetica indiana appare stravagante ai
nostri occhi quando non decisamente astrusa, grazie al suo
arroccamento in un intrinseco simbolismo, apparentemente
indecifrabile: se è infatti storicamente vero che la componente
religiosa ha avuto un ruolo fondamentale in entrambi i mondi,
altrettanto vero è che nella tradizione indiana la ricerca
spirituale della felicità funziona da movente di ogni realizzazione
artistica.
Molteplici infatti sono i miti che raccontano, per fare un esempio, l’origine del teatro e della danza, una sorta di vero e proprio «dono degli dei», che quasi in un gioco di specchi racchiude in sé non solo i canoni di ogni altra forma d’arte figurativa e architettonica, ma che è in grado di indurre nell’artista e nel suo pubblico una tensione emotiva finalizzata alla realizzazione spirituale: questa l’idea che nella classicità indiana si traduce in una risposta a criteri iconografici ben precisi, in cui non trova spazio – almeno fino a un certo punto – l’individualità, la personalità di un singolo artista, la cui fama sarà ricordata nei secoli, come avviene in Occidente.
Attraverso colori,
situazioni, posture, gestualità, rappresentazioni di piante,
animali, creature fantastiche, motivi architettonici, l’artista
risponde a un linguaggio simbolico di proporzioni e regole riportate
in molti shastra, i trattati della scienza sacra indiana. Dunque,
l’arte diventa un mezzo per raggiungere la trascendenza, la ricerca
del sé, la sperimentazione di quell’Assoluto che nell’induismo è
chiamato Moksha, e che i Buddhisti chiamano Nirvana.
Da questi presupposti
parte Frederik David Kan Bosch per il suo Il germe
d’oro Un’introduzione al simbolismo indiano (Adelphi,
pp. 320, euro 40,00): citando l’orientalista francese Paul
Mus, l’archeologo e indologo olandese sostiene che «le opere della
nostra produzione artistica ne sono lo scopo e si pongono sullo
stesso piano dell’artista. Tutt’altra cosa è l’oggetto
dell’arte asiatica, la quale non è un’arte se non nel senso in
cui la magia è un’arte. Le sue realizzazioni tangibili –
simboli, monumenti – non sono che il punto d’appoggio per creare,
evocare, su un piano diverso, una sorta di archetipo trascendente,
nel quale risiede il suo scopo vero e proprio».
Secondo Bosch, nell’opera
d’arte visibile si riflette dunque, in modo misterioso, l’archetipo
intellettuale stesso, ma evidentemente non nella sua realtà
informale. L’artista per riprodurne la verità, cala l’archetipo
dapprima in una forma sottile intessendone un’immagine mentale e
infine plasmandone una forma corporea visibile anche agli altri
esseri umani. Così, l’opera diventa qualcosa di vivente che sarà
in grado di trasmettere a chiunque la contempli una forma tangibile
in grado di piacere, spaventare, rasserenare, divertire – per cui i
sensi sono indotti a provare attrazione o repulsione – ma anche un
simbolismo universale e profondo.
In un certo senso,
Bosch eredita la lezione di Ananda Ketish Coomaraswamy, espressa per
esempio in Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, una pietra
miliare dello studio del simbolismo indiano (anch’esso pubblicato
da Adelphi nella collana Il ramo d’oro) dove vengono evidenziati
alcuni punti di unità fra pensiero classico d’Oriente e
d’Occidente, che nelle loro diverse espressioni intendono comunque
l’estetica e la metafisica come entità non separate. È infatti
accorata la dedica che Bosh scrive nei confronti del più grande
storico dell’arte indiana, considerato come un maestro, scomparso
proprio durante la prima stesura olandese dell’opera del 1948,
dedica che resta nell’edizione inglese ampliata e rivista del 1961
di cui la attuale versione italiana è la traduzione.
Nei primi tre capitoli, che costituiscono il nucleo fondante della visione di Bosch, traendo spunto dall’iconografia indiana, egli fa convergere la molteplicità delle forme simboliche in una forma centrale, la Forma Base, che racchiude in sé cosmogonia e palingenesi dell’universo, qui rappresentata da un organismo vivente, il loto o l’albero, che germoglia, cresce, fiorisce e fruttifica. Per Bosch questa immagine rappresenta il modo d’intendere microcosmo e macrocosmo in India, ma soprattutto in quanto tale diventa la chiave di tutti i tipi di raffigurazione che da essa derivano.
Già nel primo capitolo
l’autore tesse una fitta trama di relazioni e corrispondenze fra
rappresentazioni animali e vegetali in templi e stupa (in particolare
la chimera ofidica del makara e il fiore di loto, entrambi legati
all’elemento acqueo).
Il secondo capitolo è invece dedicato all’hiranyagarbha, ovvero il germe d’oro del titolo, da cui secondo l’antica filosofia dei Veda la manifestazione universale sarebbe emanata procedendo da una dualità primordiale costituita dall’elemento magmatico e da quello acqueo (Agni e Soma). Ma è nel terzo capitolo che si concreta, sviluppandosi, la forma di base della rappresentazione visiva dell’albero cosmico. Nella sua struttura completa è doppio, costituito da due piante che s’incontrano contrapposte lungo un asse verticale: in basso il loto, pianta acquatica, estende dal suo stelo centrale una profusione di vegetazione; in alto, un albero celeste, dalla corolla ardente, prende la forma del ficus.
Dalla nota simbologia dei
due alberi, o dell’albero cosmico, o ancora dell’axis mundi, si
dipanano le dimensioni che compongono il cosmo in tutta la loro
articolata molteplicità. È questa complessa griglia di elementi a
costituire l’ordito della seconda sezione del libro, che con
incedere quasi analitico propone uno spaccato di forme e motivi
dell’arte figurativa indiana, a loro volta simboli sintetici di
quella Forma, o suoi parziali attributi.
Dunque, l’opera d’arte in India consiste di una potenza emotiva, che da essa si irradia così da toccare la sensibilità del pubblico: in sanscrito viene definita rasa, termine che significa sapore, gusto, ma anche succo, linfa, essenza vitale (Soma). Non c’è dubbio che la scelta dell’albero come tema chiave sia stata da parte di Bosch particolarmente felice, non solo dal punto di vista della rappresentazione visiva, ma proprio perché entità viva. Sono modelli, questi, che si sono imposti del resto dalla cultura indiana a tutto il Sud-Asia in primis, e in Oriente in generale. Non a caso, Bosch comincia la sua indagine con l’arte di Giava e dell’Indonesia – la cosiddetta India al di fuori dell’India – con cui il Subcontinente aveva rapporti culturali fin dall’antichità.
La materia del libro
assai densa, l’argomentare ricco di rimandi a testi diversi
appartenenti a epoche differenti giustificano forse il suo punto
debole (come del resto di molti studi sul simbolismo): il pericolo di
una eccessiva generalizzazione, e di quella suggestione che si genera
dalle molte possibili similitudini e analogie interculturali. E
questa criticità è aggravata dall’assenza di una bibliografia
finale, laddove traduzioni e citazioni in testo, soprattutto in
riferimento alla letteratura sanscrita, mancano di riferimenti
precisi, rimandi a edizioni critiche o sono di seconda mano.
L’intrinseca fragilità dell’impianto scientifico è a stento mitigata dal fatto che Bosch ammette di volersi limitare, pur tramite dotte argomentazioni, a un prolegomenon: una introduzione al tema. È una attitudine che molti hanno considerato imprudente, ma solo dall’osare nascono intuizioni geniali.
Il Manifesto/Alias – 7
maggio 2017
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