Come non perdere
umanità e mantenere viva la
speranza.
Massimo Recalcati
L'infanzia perduta del
mondo
L'obiettivo tragicamente
chiaro: uccidere nel mucchio le vite dei nostri figli in un luogo di
festa. Lo strumento terribilmente noto: una bomba cieca costruita per
fare a pezzi i loro giovani corpi offrendoli al Dio pazzo e
sanguinario che vuole la morte degli infedeli. E noi? Noi che
restiamo attoniti di fronte a questa orrida malvagità? Non siamo
solo esposti allo sgomento della nostra vulnerabilità impossibile da
proteggere, al fatto semplice e brutale che niente può garantirci
una sicurezza adeguata se il “nemico” ci colpisce in questo modo
moltiplicando infinitamente i nostri punti sensibili. Siamo anche
investiti di una responsabilità enorme.
Cosa fare, cosa dire di
fronte all’angoscia dei nostri figli? Quale responsabilità hanno
gli adulti che osservano impotenti lo scempio compiuto sulle vite
innocenti? Cosa possiamo fare per aiutare quelle vite che non sono
state spezzate dalla violenza assurda della morte?
L’obiettivo del
narcisismo folle del terrorista islamico è quello di generare
angoscia. Colpire l’innocente è colpire tutto il mondo. In gioco
non è solo la punizione dell’Occidente corrotto, ma la chiusura,
l’annientamento dell’orizzonte stesso del mondo. Dopo ogni
attentato dove i nostri figli muoiono, muore con loro anche un pezzo
di mondo. Dopo ogni attentato l’orizzonte del mondo si restringe,
la libertà si riduce, si contrae, non è più libera. Siamo tutti, a
causa della follia terrorista, nella condizione paradossale di vivere
in una sorta di libertà prigioniera. È questo il vero messaggio di
morte che il terrorismo ogni volta rinnova soprattutto quando stronca
la vita nel pieno della sua giovinezza.
La nostra prima
responsabilità è fare in modo che questo lutto possa diventare
davvero collettivo. Ma cosa significa? Condividere il lutto —
renderlo collettivo — significa condividere un dolore sordo che
vorrebbe separarsi e allontanarsi da tutto, significa continuare a
scegliere l’apertura del mondo alla tentazione della sua chiusura.
È il terrorismo che
vuole il muro, la guerra, lo scontro, il conflitto senza tregua. È
il terrorismo che vuole che il mondo si chiuda, che perda la sua
apertura. Condividere il lutto significa allora preservare il mondo
come un luogo aperto del quale non si deve avere paura. Come accade
in quel noto esperimento di psicologia evolutiva dove si invita un
bambino piccolo a gattonare verso un precipizio illusorio.
Se il volto della madre
che lo osserva reagisce con un’espressione di spavento, il bambino
si blocca e si mette a piangere disperatamente. Se, invece, la madre
risponde con un sorriso il bambino, dopo un attimo di esitazione,
riprende a gattonare attraversando felice e sicuro il precipizio. La
paura è dissolta. Ecco la responsabilità che ci investe: dare prova
di saper resistere, di fronte allo sguardo impaurito dei nostri
figli, alla tentazione della chiusura.
Nella vita dei nostri
figli — nella vita dell’innocente — è custodito il segreto del
mondo. La vita dei nostri figli coincide con l’avvenire, con il
dono, con la vita stessa del mondo. Sopprimerla è voler sopprimere
la vita del mondo. Tenere aperto il mondo è, dunque, la sola
possibilità di continuare a fare vivere i nostri figli. Solo se non
tutto è morte, la vita può avere ancora un senso.
Questo non significa
sottovalutare il delirio teologico che ispira questi assassini. Il
loro mondo vorrebbe sopprimere il mondo in quanto tale. È la
manifestazione più odiosa del fondamentalismo. Essi ci dicono: «Il
tuo mondo non vale nulla, è fatto di concerti e cose frivole, è
fatto solo di polvere; il solo mondo che conta è il mondo al di là
del mondo dove i martiri saranno ricompensati illimitatamente del
loro sacrificio». Ecco, noi siamo, invece, quelli che abitano il
mondo. È questa la prova che dobbiamo sostenere per amore dei nostri
figli: mostrare loro che questo mondo fatto di polvere è in realtà
anche ricco di luce, che non tutto è morte.
Si tratta di testimoniare
più che spiegare. Testimoniare cosa? Testimoniare l’apertura e non
la chiusura del mondo. Come? Non avendo paura, rifiutando l’angoscia,
respingendo la rassegnazione. Mostrare che la morte non è l’ultima
parola sulla vita. Non lasciare che l’illusione teologica dei
terroristi trasformi il nostro mondo in un luogo di polvere e di
paura.
Di fronte al flagello
inesorabile dell’epidemia che trascinava con sé le vite di bambini
innocenti, il padre gesuita Paneloux, uno dei protagonisti del
romanzo “La Peste” di Camus, distingueva gli uomini in due tipi:
quelli che fuggono dal dolore e dalla malattia e quelli che restano.
Condividere il lutto — fare del lutto un evento collettivo —
significa mettersi, di fronte agli occhi smarriti dei nostri figli,
dalla parte di quelli che sanno restare, che sanno, appunto,
mantenere sempre aperto l’orizzonte del mondo.
La repubblica – 24 maggio 2017
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