19 maggio 2017

JUNG VISTO DA R. MADERA



Lea Melandri
La visione luminosa dell’inconscio

L’ultimo libro di Romano Màdera, Carl Gustav Jung (Feltrinelli, pp. 160, euro 14) è difficile da districare nei suoi molteplici annodamenti e al contempo affascinante per il sapere a cui vorrebbe aprire la strada: «fortemente individualizzato, autobiografico e biografico, immaginativo, emozionale, onirizzato e relazionale».

Una «clinica dell’individuazione», intenta a riportare la dimensione inconscia collettiva al momento storico-biografico delle persone è, del resto, l’assunto principale di Philo e Sabot, le scuole a orientamento filosofico di cui Màdera è stato ideatore.

La ricerca di nessi tra individuo e collettivo, tra i mutamenti storici, sociali, culturali e il riflesso che hanno nel vissuto dei singoli, è stata al centro dei movimenti antiautoritari degli anni Settanta, del femminismo in particolare, e la psicoanalisi, sia pure per un tempo breve, è sembrata indispensabile per interrogare l’agire politico.

La «sfinge analitica» – scriveva Elvio Fachinelli – aspetta al varco il viandante e il quesito che gli pone è «che cosa è l’uomo». Ma per incontrare Edipo bisogna essere sulla strada di Tebe, bisogna che l’analista porti in altri luoghi condizioni, possibilità, linguaggio dell’interrogazione analitica.

Ma si può dire – come fa notare Màdera – che la stessa psicoanalisi aveva rappresentato, agli inizi del Novecento, il «sintomo» di un profondo rivolgimento della ragione e della cultura occidentale, la crisi del patriarcato e l’inizio di quella che Jung, identificando sesso e genere, chiama la rinascita attraverso il «principio femminile», l’ingresso nel «dominio vero e proprio della donna, la sua psicologia basata sul privilegio dell’Eros», cioè sessualità, corporeità, istinti, maternità creativa.

È su questi inizi e sul Libro rosso di Jung del 1916 che si ferma l’attenzione di chi, come Màdera, ha conosciuto le delusioni della sua militanza politica e l’analisi che gli avrebbe «cambiato la vita». Con un libro che fa della «immaginazione attiva» – sogni, visioni, metafore, simboli – la «via regia per il viaggio nell’inconscio», Jung si fa interprete di una svolta che coinvolge, al medesimo tempo, la sua vita personale, la separazione da Freud, padre, maestro, e il contesto storico culturale che ha fatto da sfondo alla Grande Guerra.

Dallo smottamento di una storia che si era basata fino ad allora sulla tradizione e l’imitazione, così come dalla presa di distanza dal successo, dalla maschera professionale e accademica, avrebbe preso avvio la psicoterapia vista come «processo di sviluppo della personalità», la via dell’individuazione capace di portare gli umani a sentire la comunanza delle loro vite.

Per quanto ancora legato, come Freud, all’idea che sia da cercare nella psiche la «sorgente segreta della storia», Jung sembra tuttavia voler riportare la malattia al di là del singolo, il nevrotico visto come un «sistema di relazioni sociali ammalato».

A fare da ponte, da mediazione, tra il vissuto del singolo e il segno che lasciano su di esso l’eredità storica e il presente, sono le immagini dominanti nell’inconscio collettivo rielaborate dalla psiche individuale. Per unirsi a se stessi – precisa Màdera – bisogna sapere di poter crescere sul terreno della comune umanità. Il viaggio per il mare notturno dell’inconscio collettivo e personale è imprescindibile se si vuole rimanere in contatto con ciò che ci costituisce, ci nutre, ci sfida a trovare «la nostra personalissima equazione di risposta all’enigma che la vita è».

Ma perché la clinica della individuazione diventi in qualche modo anche «clinica del mondo», una via per interrogare la nevrosi comune di un determinato tempo storico culturale, è necessario una «rinascita della psiche» come riunificazione degli opposti ereditati dalla visione maschile del mondo: inclusione del male, della corporeità, degli istinti, del «pantano e delle rovine che ogni secolo ha lasciato in noi».

È in questo appello alla totalità dell’uomo, alla ricerca di un senso che può venire solo dalla cooperazione della coscienza con l’inconscio, che Màdera vede la «modernità» del Libro Rosso di Jung. La figura più rappresentativa della nostra cultura e della nostra psiche, individuale e collettiva, è il «caos», frutto di una globalità che è accumulazione fine a se stessa, iperstimolazione di bisogni e desideri, licitazionismo, orrore e diseguaglianza in crescita.
Tra gli aspetti rimossi della vita psichica c’è il «non-potere», l’interdipendenza degli umani, la guerra con l’ «ombra» che ci portiamo dentro e che, proiettata all’esterno va alla ricerca ogni volta di un capro espiatorio: il nemico, lo straniero, il diverso.

Màdera ricorda l’esplosione della Jugoslavia, dieci anni di atrocità che mostrano che il nuovo ordine mondiale «non solo è inesistente ma volge al caos; che la globalizzazione non salva, neppure in Europa dallo sterminio di massa come mezzo per affrontare i conflitti».

Il libro si chiude con quello che Màdera chiama un «astuto paradosso»: la via della individuazione spinge ad assumersi la responsabilità della propria vita e quindi anche ad abbandonare Jung per «rilanciare il futuro del suo insegnamento», prendersi la responsabilità del distacco solitario come via per una «autorealizzazione consapevole e solidale» nel concepirsi dentro l’«interdipendenza» di ciascuno da tutto e da tutti.
il manifesto – 17 maggio 2017

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