Nel Complesso Monumentale di Astino (Bergamo), fino al 31 luglio, è visitabile la mostra “Mario Giacomelli. Terre scritte”, a cura di Corrado Benigni e Mauro Zanchi. Il testo che segue fa parte del catalogo della mostra, pubblicato da Silvana Editoriale.
Le terre scritte di Mario Giacomelli
Mario Giacomelli (1925-2000) è stato il
più visionario e insieme il più visivo dei fotografi italiani degli
ultimi decenni. Grazie a un sorprendente virtuosismo immaginativo, non
contaminato da sovrastrutture culturali e ideologiche, egli è riuscito a
vedere e a mostrare ciò che agli altri era impossibile scorgere. La sua
fotografia ci conduce dove non siamo mai stati, suggerendoci
corrispondenze inesplorate: volti e figure di corpi umani nei tronchi di
un albero o linee astratte dentro un campo arato visto dall’alto.
Questo perché l’opera di Giacomelli è prima di tutto il risultato di una
forma di pensiero e di sguardo puramente analogica che percepisce
somiglianze che nessun altro avrebbe saputo trovare. L’analogia è una
forma di conoscenza che la nostra cultura ha respinto sempre più ai
margini, ma che Giacomelli − con il suo temperamento da irregolare e
“incongregabile” (per usare un’espressione cara ad Alberto Savinio) − ha
fatto propria: una sorta di istinto fisiognomico che gli ha permesso di
ridisegnare ogni volta la geografia del sapere fotografico. Ha
immortalato l’apparentemente invisibile prediligendo i lapsus
stilistici, le pieghe segrete, gli aspetti imprevisti, i barlumi visivi,
in un’ostinata ricerca del non-finito, dell’irrisolto, dell’incompiuto.
Anche per questo il suo stile è personalissimo e inconfondibile. «La
mia è una mediazione tra realtà e fantasia. Immagini volute, create,
come pensiero, come segno di un movimento interiore (…). Non vorrei
ripetere le cose visibili, ma renderle visibili, interiorizzate, vorrei
poter scivolare sotto la pelle delle cose, poter mostrare l’energia che
passa tra l’anima mia e le cose che mi sono attorno», ha detto.
L’immagine dunque è stata la sua vera ossessione: il visibile nella sua
dimensione perturbante e misteriosa. L’opera di Giacomelli conferma nel
modo più concreto le parole di San Paolo: vediamo come in uno specchio e
per enigmi. A pensarci bene, infatti, la fotografia è anche
un’illazione che facciamo sugli enigmi di noi stessi e degli altri,
senza raggiungere certezze. Forse per questo c’è nel linguaggio
fotografico una vocazione all’incompiuto.
Tutto il lavoro di Giacomelli è
attraversato da echi che rimandano e rimbalzano dal verso all’immagine.
In lui, poesia e immagine appaiono come la declinazione di una fonte
comune dalla quale possono generarsi vicendevolmente e appartenersi. In
fondo ogni gesto espressivo, verbale o iconografico, è il luogo in cui
impera la forma, il luogo in cui si celebra il baudelairiano culte des images.
Quasi fossero un unico poema, le fotografie di Mario Giacomelli si
rincorrono e a volte addirittura tornano da una serie all’altra, da una
stanza all’altra. Come la sequenza dei Paesaggi proposti in questo volume.
Il paesaggio di Giacomelli è insieme
reale e inventato, così come il suo sguardo è visionario e visivo al
contempo. È il pretesto per rappresentare una situazione altra. «Odio le
immagini che rimangono così come la macchina le vede. Riprendere un
soggetto senza però modificare niente è come aver sprecato tempo», ha
detto. Le sue sono ‘terre scritte’, dove l’orizzonte è quasi del tutto
eliminato: un incastro di tempo e non-tempo, che può forse esistere solo
in un mondo contadino, il più epico e il più oscuro, triste e
invivibile, riluttante alla civiltà e all’umano o forse ignaro di essi,
nodosa e scorzata radice della vita che spacca la terra per crescere e
poi marcire.
Le fotografie qui presentate sono
soprattutto quelle scattate a partire dagli anni Ottanta, dove la sua
scrittura si fa più incisiva, a tratti violenta, come se gli elementi
della terra, alberi ed erba, affiorassero quasi alla superficie del
foglio, come se improvvisamente tutte le componenti del sistema
venissero sul medesimo piano per poi affondare di nuovo. I paesaggi
sembrano aerei anche quando si tratta di pendii di colline. È capitato
che chiedesse ai contadini di arare e mietere secondo una certa forma.
In questo ciclo il rapporto tra campagna e memoria, tra Giacomelli e una
terra-madre negata e accettata si fa più drammatico, traducendosi in
un’asciutta e grande rappresentazione, dove la presenza umana è quasi
del tutto assente. Della terra egli coglie i segni, la materia, i
solchi, tuttavia trovando in essi corrispondenze con i corpi dell’uomo,
perché la terra, nella sua poetica, è la carne stessa dell’uomo.
Giacomelli è stato un fotografo sempre in fieri: ogni fotografia contiene già in pectore quelle successive. Così la serie del paesaggio è profondamente legata a un altro importante capitolo della sua opera: Motivo suggerito dal taglio dell’albero. Entrambe
queste ricerche sono le più dimostrative del suo modo di procedere e
del suo modo di costruire. Nel complesso la sua opera è caratterizzata
dalla ricchezza di rimandi interni e di sviluppi che la rendono
inconfondibile, nelle parti come nell’insieme.
In questa serie di scatti, in particolare, partendo dai piccoli dettagli della natura, che veicolano in sé un respiro umano, come un alchimista dello sguardo egli trasforma l’immagine in un ‘doppio visivo’. Il taglio dell’albero suggerisce a Giacomelli lo spunto per indagare – attraverso forme reali – immagini scaturite dalla sua fantasia: volti di persone, facce urlanti, nudi di donna e maternità. È come se percepisse un intimo legame fra quelle superfici rugose e i contadini che ha fotografato fin lì. «Nella sezione dell’albero – ha spiegato lo stesso Giacomelli – ho cercato quei volti che pensavo di trovare tra i contadini, le loro espressioni che non sapevo fermare altrimenti; sono nodi, spacchi; in una sezione si vedono delle palme, in altri volti umani, in certi vedi un ciglio non reale, troppo alto ma a me piace ancora di più perché mi dà l’idea del volto con tre segni». Le sue fotografie presentano un mondo in cui il legame con la terra – e con la quotidiana esperienza di chi la abita e lavora – sprigiona un senso di complessa autenticità vitale.
In questa serie di scatti, in particolare, partendo dai piccoli dettagli della natura, che veicolano in sé un respiro umano, come un alchimista dello sguardo egli trasforma l’immagine in un ‘doppio visivo’. Il taglio dell’albero suggerisce a Giacomelli lo spunto per indagare – attraverso forme reali – immagini scaturite dalla sua fantasia: volti di persone, facce urlanti, nudi di donna e maternità. È come se percepisse un intimo legame fra quelle superfici rugose e i contadini che ha fotografato fin lì. «Nella sezione dell’albero – ha spiegato lo stesso Giacomelli – ho cercato quei volti che pensavo di trovare tra i contadini, le loro espressioni che non sapevo fermare altrimenti; sono nodi, spacchi; in una sezione si vedono delle palme, in altri volti umani, in certi vedi un ciglio non reale, troppo alto ma a me piace ancora di più perché mi dà l’idea del volto con tre segni». Le sue fotografie presentano un mondo in cui il legame con la terra – e con la quotidiana esperienza di chi la abita e lavora – sprigiona un senso di complessa autenticità vitale.
Attraverso gli alberi è come se la
natura parlasse all’uomo, mostrasse la propria anima, tramite un proprio
‘paesaggio in codice’, che solo uno sguardo sensibile, allenato a
osservare il mondo oltre le apparenze, riesce a cogliere. La serie
dell’albero tagliato, in particolare, mette in luce la scrittura
nettamente metaforica di Giacomelli, che non legge la realtà nei termini
della tradizione e in modo oggettivo, ma concependo il visibile come
spazio poetico simbolico, all’interno del quale si esercita liberamente
il pensiero fotografico. In questo modo partendo dall’immagine ripresa
dalla camera, dall’insieme delle linee dei tronchi, è riuscito a
ritrovare dentro di essi dei volti e delle figure antropomorfe. Questo è
stato possibile anche grazie alla tecnica con cui il fotografo
marchigiano ha stampato le sue foto, concentrandosi sul contrasto dei
bianchi abbacinati e dei neri. Anche in questo modo in ogni sua
fotografia si avverte il senso di un piccolo atto drammatico
(nell’accezione greca del termine): la consapevolezza cioè di fissare
‘materialmente’ su carta qualcosa che è latente e destinato a
scomparire.
Il suo è un linguaggio interiore, che
esprime un discorso assai più emozionale che analitico. Per Giacomelli,
infatti, fare esperienza della fotografia è tentare – con forte libertà
inventiva, ma non gridata – di dare corpo e respiro a quel che
l’astrazione o il ‘pensiero concettuale’ hanno privato di singolarità,
di senso corporeo e desiderio e pulsazione. Sottrarre il visibile ai
sistemi di definizione e alle recinzioni dei saperi sovrapposti.
L’opera di Giacomelli è dunque una
bussola antropologica, che ha a che vedere con la consapevolezza di sé,
come se la nostra immagine, ciò che davvero siamo, ci venisse ogni volta
restituita. E questo forse, a ben vedere, è il dono più grande che il
maestro marchigiano ci ha lasciato.
17 maggio 2017
[Immagine: foto di Mario Giacomelli]
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