Un ritorno alle
origini per cogliere il mistero dell'uomo, questo il senso dell'arte
di Picasso.Una grande mostra a Parigi racconta l'incontro del pittore con l'arte africana.
Marino Niola
Così Picasso diventò
primitivo
Senza l’art nègre
Picasso non sarebbe diventato primitivo. E forse le Demoiselles
d’Avignon non sarebbero mai nate. Ma, per fortuna, Pablo incontrò
le maschere africane. E fu tutta un’altra storia. Una storia
avvincente raccontata dettagliatamente dalla mostra “Picasso
Primitif”, che il museo parigino del Quai Branly-Jacques Chirac, in
collaborazione con il Musée national Picasso-Paris, dedica al
rapporto tra il padre del cubismo e l’arte primitiva (fino al 23
luglio).
Il curatore Yves Le Fur,
cui si deve anche il bellissimo catalogo edito da Flammarion, con
felice scelta espositiva, ricostruisce stanza dopo stanza, passo dopo
passo, gli alti e bassi di quest’attrazione fatale, che inizia nel
1907 con una visita al Museo etnografico del Trocadéro. E non è
amore a prima vista. Anzi, è uno choc. L’odore di muffa e di
abbandono che regnano in quelle sale deserte, quel sentore ostile di
alterità, quelle forme oniriche che sussurrano formule oscure lo
spaesano. Ma decide di restare. Perché i segnali di quel mondo
perturbante, fatto di oggetti misteriosi e paurosi, lentamente gli
svelano il senso stesso della pittura. Che è magico e non estetico.
“Il giorno che ho capito questo, ho capito anche perché sono
pittore. Le Demoiselles si sono realizzate proprio allora,
ma non per una questione di forme, perché in realtà era la mia
prima tela d’esorcismo”.
Da quel momento
Picasso comincia a collezionare compulsivamente questi souvenirs
d’exotisme che antropologi come Michel Leiris e Marcel
Griaule, poeti come Guillaume Apollinaire, colleghi come Henri
Matisse e la scrittrice Gertrude Stein, gli fanno arrivare da ogni
parte del mondo. Li chiamano semplicemente negri, sia che si tratti
di una statuina nigeriana, che di un palo totemico amerindiano.
L’artista li porta con sé a ogni trasloco, piazzandoli un po’
dovunque, nei suoi atelier, nelle case parigine e soprattutto nella
sua sontuosa villa di Cannes, La Californie, dove vive dal 1955
al 1961. I negri diventano la cifra nel tappeto della sua poetica.
Perché questi idoli, trofei, scudi, tamburi, sonagli, diademi,
non sono semplici objets d’art, ma le grandi matrici di un
immaginario sommerso. Un continente ritrovato dei sensi.
Adesso sono tutti esposti nella mostra. Fra i più impressionanti un Nevimbumbao, fantoccio rituale delle isole Vanuatu, nel Pacifico occidentale, usato per spaventare i bambini durante le iniziazioni. Occhi esorbitati, ghigno inumano. Una marionetta infera, un emissario dell’Ade. “Quel coso della Nuova Guinea mi fa paura e deve farne anche a Matisse. Per questo vuole regalarmelo a tutti i costi”. Picasso rifiuta a lungo quel convitato d’argilla, ma alla fine non può opporsi alle ultime volontà di Matisse, che gli scarica l’inquietante eredità. Il merito di questa splendida esposizione è di materializzare l’officina creativa dell’artista, di rendere visibile la stratigrafia della sua ispirazione.
Perché se il rapporto
tra l’autore di Guernica e le arti primitive è uno dei
mantra più ripetuti dalla storia dell’arte moderna, nelle sale del
Quai Branly questo rapporto diventa corrispondenza concreta di
immagini. Un faccia a faccia tra Pablo e i primitivi fatto di
accostamenti rivelatori. Per esempio tra la sacra allucinazione del
Torero del 1970 e una maschera bicolore del Gabon. La
civettuola Donna con cappello di paglia e foglie blu e un
copricapo di piume e bambù dell’isola della Pentecoste. L’acume
smarrito dell’Uomo che scrive e una maschera anamorfica della
Nuova Guinea. La Testa di fauno barbuto con le corna a
spirale del 1961 e la barba caprina di un satiro messicano di
Tututepec.
Folgorante l’associazione
tra un capolavoro come Doraeil Minotauro e una pittura
degli aborigeni australiani che raffigura un coito mitologico, una
cosmogonia sessualizzata. O la giustapposizione del piccolo Nudo
con le braccia alzate, preparatorio delle Demoiselles, con un
disegno su corteccia della Terra di Arnhem, in Australia, dove il
femminile diventa un labirinto sospeso sull’abisso. In queste
corrispondenze si coglie come l’incontro con l’arte primitiva sia
la precondizione indispensabile alla nascita del cubismo e del
surrealismo.
Che non sono
un’invenzione individuale, dice il grande malagueño, né il
semplice parto della fantasia di un artista, ma il riconoscimento
improvviso di una somiglianza inattesa tra forme e colori lontani.
Per calarsi nelle profondità dell’essere e ridurlo all’essenziale,
Picasso è tornato alle origini.
La Repubblica – 30
aprile 2017
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