GOVERNO GIALLOVERDE, UN NUOVO MODO DI FARE I CONTI CON LA STORIA: IGNORARLA
Siamo abituati, ahinoi, agi svarioni culturali della classe politica, a cominciare da quella governativa, ieri come oggi. Non starò a rievocare le topiche di quella macchietta che è Luigi Di Maio, limitandomi a un cenno fuggevole al “presidente del Consiglio”, brillante docente universitario giunto in cattedra in una età del tutto incomparabile con il resto del mondo accademico, ossia prima dei 40 anni: ricordiamo la sua gaffe quando, parlando a Bari, all’inaugurazione della Fiera del Levante ha confuso niente meno che il Venticinque Aprile (1945, liberazione dal nazifascismo) con l’Otto Settembre (1943, armistizio con gli Alleati, e passaggio di campo dalla loro parte contro i tedeschi).
Ma si dirà in fondo che il prof. Conte, è un giurista, mica deve saperne di storia! In effetti, il governo da lui “guidato” ha appena deciso di cancellare il tema di storia dalle prove scritte della Maturità, con la brillante motivazione che sono pochi a richiederla. Come dire, dato che sono pochi a recarsi a vedere la Pietà Rondanini di Michelangelo, collocata al Castello Sforzesco di Milano, possiamo chiuderla in un deposito. Ma si tratterebbe di paragone improprio, perché la storia non è un ambito di conoscenza tra gli altri, la storia è il faro che illumina ogni nostra conoscenza (la frase è di Karl Marx, che di storia un po’ se ne intendeva), e senza la storia non soltanto ogni nostro sapere è mutilo, ma inerte, per così dire; senza storia anche la politica, appiattita sul presente, perde il suo significato di scienza del potere, di cui ognuno di noi dovrebbe essere non mero oggetto, ma pienamente soggetto. Soltanto la storia restituisce all’agire politico la sua dignità, e alla riflessione politica, il suo significato più profondo: solo la conoscenza storica ci consente di superare la condizione di suddito e ci consente di diventare cittadino.
Ovviamente se invece si concepisce la politica come mera ricerca di consenso elettorale, fondato su annunci-choc, sul look del “capo”, sugli slogan degli spin doctors, in cui il popolo è guardato come una folla di individui da imbonire, la storia non soltanto non serve, ma rischia di costituire un ostacolo. Dunque, eliminiamola, se non possiamo proprio addomesticarla. E qui se vi fosse qualche acculturato nell’Esecutivo, potrebbe, per giustificare l’attacco alla storia, tirare in ballo addirittura il giovane Nietzsche, che aveva sentenziato, con fulminante aforisma, sul “danno della storia”…
Ma lasciando da parte i paradossi nietzscheani, chi insegna, non importa in quale ordine scolastico, dalle Elementari all’Università, è collezionista di una infinita serie di errori madornali dei suoi studenti, e non di rado persino di qualche collega, come diverse inchieste giornalistiche hanno a più riprese mostrato, generando profondo sconforto in chi fa della storia la propria disciplina professionale, e, di più, la propria insegna intellettuale. Orbene, un’ultima inchiesta, i cui esiti sono stati resi noti ieri, ha in parte confermato questo panorama deprimente, ma lo ha aggravato nello specifico dello spinoso tema delle leggi razziali del 1938, quest’anno opportunamente evocate a vari livelli, di ricerca, studio, divulgazione (con qualche vergognoso “errore” purtroppo non casuale, come quello commesso dal signor Angela jr., in tv, che ha fatto una grottesca chiamata di correità a danno della Unione Sovietica nella shoah). Dunque l’Arci Servizio Civile ha lodevolmente intervistato un migliaio di giovani tra i 18 e i 25 anni proprio sulle infamissime leggi del ’38. Ne è emerso, al di là degli errori e delle inesattezze, una riproposizione dell’antico, ingannevole adagio circa gli “Italiani brava gente” (a cui Angelo Del Boca dedicò qualche anno fa un illuminante libro di denuncia degli orrori di cui tale brava gente è stata capace nel corso del XX secolo). Le leggi razziali costituiscono soltanto un capitolo di una storia troppo sovente taciuta, in nome di una facile autoassoluzione di massa, che, in fondo, però, a ben vedere, è figlia del revisionismo che ha finito per derubricare le colpe del fascismo, anche facendo ricorso alla contrapposizione tra un fascismo tutto sommato accettabile, guidato da quel “buonuomo” di Mussolini (per riprendere un famoso titolo di Montanelli), e il nazismo, a cui si attribuivano tutte le responsabilità da cui veniva sgravato il regime mussoliniano. Per cui, quelle macchie su di esso, venivano se non cancellate, sminuite vigorosamente dal confronto con il nazionalsocialismo e il duce di Predappio risultava un buon padre di famiglia al cospetto col truce, paranoico con baffetto Adolf Hitler. È di ieri l’esilarante quanto inquietante notizia di un tweet della nipote del duce, la signora Alessandra Mussolini, che minaccia querele a quanti dovessero postare immagini e/o frasi offensive verso l’illustre nonno (suscitando fortunatamente una vigorosa risposta dell’Anpi) ; prova ulteriore che il recupero politico-culturale del fascismo procede. E anche tanti giovani più o meno ignari del lavorio revisionistico degli scorsi decenni, appaiono vittime di questa smemoratezza, che è però anche e soprattutto, rovesciamento della verità storica.
Gli intervistati sulle leggi razziali e in generale sulla guerra mondiale e il Ventennio fascista, hanno in maggioranza (52%) scagionato Mussolini (e in fondo l’Italia) sulle leggi del ’38, attribuendone la responsabilità al Führer: insomma, siamo stati costretti a fare come quello là comandava. E del resto come non ricordare la generazione dei nonni e dei padri che era convinta, ossia voleva autoconvincersi, che Mussolini aveva commesso solo l’errore di fidarsi di cattivi consiglieri e di dar credito a Hitler. Una idea da caminetto nelle sere invernali, tra fumi della legna e quelli dell’alcol, che, purtroppo, era stata nobilitata e “scientificizzata” da Renzo De Felice, il quale nel suo monumentale lavoro su Mussolini lo ha sempre presentato, come notò fin dal primo volume (1965) Delio Cantimori, “più actus che agens”, più agito da altri, insomma, che agente in proprio. E che in definitiva quando decideva da sé decideva il meglio, mentre incappava in “errori” quando ascoltava i consigli altrui.
Ecco, anche da questo piccolo test sulle leggi del ’38 possiamo constatare il danno recato dal revisionismo alla coscienza civile del Paese.
Pezzo ripreso da https://www.alganews.it/2018/10/19/
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