Reddito di cittadinanza e spese immorali
di Remo Bassetti
Di fronte a un provvedimento
politico presentato in modo stravagante, un buon esercizio costruttivo consiste
nell’assumere un atteggiamento di questo tipo: “Va bene, queste sono un cumulo
di sciocchezze. Ma c’è qualcosa di buono che può essere sviluppato partendo dai
principi che ci sono dietro?”.
È il caso del reddito di
cittadinanza: non interessa qui discuterne la validità intrinseca né la
sostenibilità economica e neppure la sua reale natura (che non si tratti tecnicamente di un reddito di cittadinanza
lo avevo già spiegato qui),
e tanto meno si vuole sparare sulla croce rossa soffermandosi sulla sua
attitudine ad “abrogare la povertà”. Concentriamoci invece sulla volontà di
escludere le “spese immorali”, di farlo spendere per beni essenziali e sul
territorio, e di farlo spendere in ogni caso (non di accantonarlo per il
risparmio). Mettiamo quindi da parte le uscite più surreali: è ovvio,
fantasticare che la finanza abbia il tempo di controllare gli scontrini di
Unieuro è come immaginare che la polizia abbia il tempo e l’intento di
rastrellare i teppistelli che suonano i citofoni la notte e dopo scappano via;
s’intende che se chi “imbroglia” (questo sì che è parlare da giuristi!) sul
reddito di cittadinanza si fa “sei anni di galera” (beh, anche questo), cioè la
stessa pena che sconta di solito un rapinatore, poi – tra una cosa e l’altra –
andrebbe data una risistemata a tutto il codice penale. È difficile
sottrarsi alla tentazione di fare dell’ironia sul concetto di “spesa immorale”
(sul quale però alla fine di quest’articolo dirò qualcosa di meno tranchant)
e soprattutto sulla capacità di categorizzarlo, che a giudicare dall’esempio
di Unieuro non promette benissimo. È inevitabile constatare che questo
linguaggio è indice di un’approssimazione culturale e progettuale mica da
ridere. Eppure gli spunti sottostanti non sono così banali: in parte
perché rivelano che quel che si proclama rivoluzionario non è altro che
l’allargamento di corretti strumenti esistenti, in parte ed all’opposto, perché
vengono messi in discussione schemi mentali che forse diamo per scontati con
troppa facilità.
Il funzionamento del reddito di
cittadinanza, riassumendo parrebbe così articolato:
- Lo spendi solo per i beni essenziali
- Lo spendi in aziende italiane
- Lo spendi e non te lo conservi
I beni essenziali. Anche qui partiamo dal lato meno convincente. Nello stesso
momento in cui si celebra il popolo lo si sospetta incapace, dissoluto e
irresponsabile. In realtà gli esperimenti di reddito minimo garantito non
occasionale in Africa hanno dimostrato che le persone bisognose se ne servono
per mandare i figli a scuola e riducono il consumo di alcool o di tabacco.
L’altra difficoltà è sindacare
l’individualizzazione del bisogno. Il telefono portatile, che rappresenta
di sicuro la voce di spesa più incongruamente sbilanciata nei bilanci
personali, pure è a volte il presupposto per tenere contatti che fanno accedere
ad altri beni. Se poi vogliamo planare su beni retoricamente condivisi e
tuonare “pane per tutti!” pure ci dovremo aspettare la risposta del singolo che
mette i puntini sulle i: “va bene, ma quale pane? Di segale, con lievito madre
o farina doppio zero?” (e non è detto che sia per vizio, è che gli effetti
sulla salute sono diversi. Anzi secondo i nutrizionisti la farina doppio zero è
immorale, quasi quanto le spese cui allude Di Maio). Non parliamo dei servizi.
Il trasporto pubblico, chi può negare che sia essenziale? Ma è solo uno
strumento. Se lo adopero per andare a fumare al parco, invece che per andare al
lavoro o ad assistere i genitori, tanti saluti all’essenzialità.
Detto questo, che lo stato decida di
erogare o finanziare solo alcuni beni e servizi ritenendoli essenziali non è
certo una novità. È quanto già accade con la social
card, esistente dal 2009, ma è anche la struttura di funzionamento del ticket
farmaceutico. È persino alla base dei meccanismi di deduzione fiscale: il costo
che restringe l’imponibile fiscale è parzialmente sostenuto dallo stato
(mediante la parallela riduzione d’imposta), che quindi riconosce alla spesa un
valore personale (simile all’essenzialità) differente da quello della spesa non
deducibile. Insomma, niente di nuovo sotto il sole. Qualcosa di interessante
può tuttavia emergere dalla identificazione finale di beni essenziali dentro
questo provvedimento (ammesso che mai ci si arrivi). Se in concreto, un
giorno potremmo dire “lo stato ha deciso che tutti i cittadini abbiano diritto
a comprare i libri scolastici per i figli” potremo anche ricavarne che i beni
essenziali, riconosciuti e sovvenzionati, si sono estesi in un modo che
migliora l’eguaglianza e la qualità della democrazia.
Lo spendi in aziende italiane. Il famoso moltiplicatore keynesiano mostra come
l’immissione di denaro generi potenzialmente un effetto a catena: se quelli che
producono scarpe ricevono 100 euro e li spendono per comprare abiti e questi
ultimi per fare la spesa alimentare, e così via, il reddito gira, e produce
persino imposte per lo stato. Geniale, elementare sul piano teorico ma
ovviamente assai più spinoso nella pratica in quanto sottoposto a multipli
fattori, uno dei quali è la dispersione dei redditi in questione. Perché si
registri effettivamente un beneficio sull’economia è plausibile che lo stato si
impegni per impedire la dispersione. Più rilevante della italianità
dell’azienda (che sarebbe anche incompatibile con i limiti alla concorrenza nei
confini comunitari) mi sembra la permanenza nel territorio: in altra
occasione avevo ipotizzato una sorta di voucher locali. Se il reddito, al
contrario, non viene erogato mediante moneta, si trovano tagliate fuori realtà
come i mercatini locali, che del territorio possono costituire il cuore
pulsante. Rimane sempre la possibilità di generalizzare l’eliminazione del
contante ma, a prescindere dal fatto che la Lega pensava alla soluzione inversa
di eliminare la tracciabilità, è evidente che questi cambiamenti esigono una
ristrutturazione amministrativa pianificata con competenza.
Lo spendi e non te lo conservi. Se lo sottraiamo all’area morale (alla quale, peraltro, il
risparmio viene di solito più apparentato del consumo), l’obbligo di consumo
esprime una scelta di politica economica del governo. Tornando al
moltiplicatore, uno dei fattori chiave è la quantità di risparmio: se il denaro
immesso nell’economia non viene speso a sufficienza l’incremento della moneta
circolante non sortisce gli effetti sperati. Il consumo “forzoso”, se
proprio deve essere incluso in una branca etica, invoca un patto di solidarietà.
Il beneficio erogato con le casse dello stato torma in parte anche a favore di
chi lo ha sovvenzionato con la sua contribuzione fiscale.
Ultima nota sulla immoralità. Il
più recente antefatto in materia di controllo morale dei consumi privati sono
stati i provvedimenti del sindaco di New York, Bloomberg (tra il 2010 e il
2012), essenzialmente volti a combattere le cattive abitudini alimentari:
dapprima provò a vietare l’acquisto di bevande gassate con i buoni pasto
pubblici; seguì il divieto di vendere confezioni macro di bevande gassate.
Quest’ultima delibera fu criticata, sulla scorta dell’obiezione che il sindaco
non è una “tata”, e cassata dalla giurisprudenza in nome della libertà
personale. In realtà, non era mica vietato di comprarsi sedici lattine di
bevande gassate. Era soltanto meno conveniente. Si rientrava cioè in quella
nozione di “spinta gentile” (ne ho scritto qui) che è un metodo molto evoluto e trasparente di
condizionamento sociale a fin di bene. Qui ripartiremmo da capo: lo stato
deve agire neutralmente o scegliere un concetto di bene? E la domanda è
ingenua: lo stato non è mai neutrale, e quando mostra di esserlo sta in realtà
favorendo un equilibrio che si è formato all’interno di rapporti sbilanciati di
forza, come è stato per l’abdicazione al liberismo selvaggio. Certo, alcune
concezioni del bene sono più opinabili, preoccupanti e invasive di altre. Anche
alcune che vanno piuttosto di moda. Però questo è un altro discorso.
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