Il silenzio è cosa viva
di Giorgio Morale
La prosa dei poeti: Il libro Il silenzio è cosa viva di Chandra Livia Candiani (Einaudi 2018, € 12) ha come sottotitolo L’arte della meditazione, con un chiaro riferimento alla pratica del Buddhismo da parte dell’autrice. Esso però si può definire con un’espressione nietzschiana “un libro per tutti e per nessuno”. I libri per tutti e per nessuno sono libri che sfuggono alle etichette e che proprio per questo spingono un po’ più in là la nostra percezione della realtà, e perciò la coscienza individuale e il livello di libertà e di scelta. Per spiegarlo farò due premesse. Per la prima ci soccorrono alcune frasi di Roman Jakobson. “Le suddivisioni operate dai libri scolastici sono di una semplicità rassicurante” scrive Roman Jakobson (Poetica e poesia), “da una parte la prosa, dall’altra la poesia. C’è invece una differenza sorprendente fra la prosa di un poeta e la prosa di un prosatore”. Leggendo la prosa dei poeti, continua Jakobson, “proviamo un senso di involontario stupore per la loro padronanza dei mezzi dell’altro linguaggio, mentre avvertiamo al tempo stesso, inevitabilmente, come un’intonazione straniera nell’accento e nella forma interna della lingua: sono splendide irruzioni dalle vette della poesia alla prosa della pianura”.
La lingua delle schegge e dei frammenti: Il libro di Chandra Candiani è un magnifico esempio della prosa di un poeta. Lo fanno essere tale la cura della parola, la struttura della sintassi, il ritmo del discorso, il ricorso a procedimenti poetici come la similitudine, la ripetizione, gli elenchi, l’aneddoto e la citazione, l’inserimento di testi poetici prodotti dai bambini nei corsi di poesia tenuti da Chandra Candiani nelle scuole. E ancora: il tono entusiasta con cui si realizza la mescolanza di andamento narrativo e immediatezza di intuizione, gli inserti autobiografici – memorie e percezioni, gioie e paure, ferite e mancanze – che sono la materia viva di cui è fatto il discorso e costruiscono lo sguardo sul mondo che abbiamo amato nelle raccolte poetiche La bambina pugile (Einaudi 2015) e Fatti vivo (Einaudi 2017). A compiere un’analisi intertestuale, troveremmo molte ricorrenze tra Il silenzio è cosa viva e i volumi di poesia di Chandra Candiani. Ci sono brani, ne Il silenzio è cosa viva, ad esempio quello intitolato Imparare a tremare, come quello intitolato Frantumi, che per intensità e modalità di scrittura sono vera prosa e vera poesia. Anche per dire la pratica della meditazione viene infatti usata la lingua della poesia, “la lingua delle schegge, dei frammenti”, così come nei volumi di poesia ci sono brani “didattici”: ricordiamo fra tutti la serie delle Mappe ne La bambina pugile.
Buddhismo anonimo: Per quanto riguarda il contenuto, una premessa doverosa parte dal concetto di “cristianesimo anonimo” coniato da Karl Rahner. Con questa espressione il teologo tedesco intende dire che anche gli appartenenti a fedi diverse dalla cristiana – come i non appartenenti a nessuna fede – possono essere portatori di Verità non meno dei cristiani. “Cristianesimo anonimo”, spiega Rahner, significa che “chiunque segue la propria coscienza, sia che ritenga di dover essere cristiano oppure non-cristiano, sia che ritenga di dover essere ateo oppure credente, è accetto e accettato da Dio e può conseguire quella vita eterna che nella nostra fede cristiana noi confessiamo come fine di tutti gli uomini” (La fatica di credere). Negli anni attorno al Concilio Vaticano II questo concetto contribuì a rinnovare la Chiesa e a favorire un dialogo tra Chiesa cattolica e movimenti di liberazione. Ho preso le mosse da Rahner perché leggendo Il silenzio è cosa viva, per associazione, è nata in me la formula “Buddhismo anonimo”. Chandra Livia Candiani, per esperienze e scelta, ha maturato una vera e propria adesione al Buddhismo, ed è di Buddhismo che lei parla in questo libro, ma a me che leggo e non sono buddista il libro comunica una dimensione che fa parte della condizione umana in quanto tale, a prescindere dalla fede.
Quando si comincia a meditare? Contribuisce a ciò una prefazione assolutamente personale, in cui appare la domanda: “Quando si inizia ad avvertire qualcosa di più grande di noi? Quando ho iniziato io a ‘meditare’? Forse intorno ai nove anni, chiusa in bagno in ginocchio, mentre fuori gli adulti si stanno massacrando?”. Anche nell’esperienza di chi scrive, quindi, il Buddhismo viene prima dell’adesione adulta al Buddhismo, la pratica della meditazione prima della consapevolezza della sua pratica, tanto che si perde nei ricordi dell’infanzia. Si riconosce la pratica della meditazione, dice Chandra Candiani, per il suo essere “un movimento di ritorno a un luogo dimenticato” dove si sta bene, “così vuotamente bene”. E tra i guadagni della pratica troviamo scoperte umane che ognuno di noi vorrebbe fare: “a me ha dato il corpo. Ho scoperto di respirare. Mi ha insegnato a sentire. Mi ha fatto percepire il momento e il luogo. Mi ha insegnato ad assaporare qualsiasi cosa stessi vivendo, senza esclusione. Mi ha messo al mondo”. Una nuova nascita, insomma, la nascita consapevole, che prosegue giorno dopo giorno anche quando diventa insegnamento: “L’insegnamento non è una cosa esterna, è il mio stesso vivere”.
Qui e ora: Anche l’incipit del libro, il primo capitolo, non solo ha un carattere personale, ma anzi, come la poesia lirica, parte nel qui e ora e non nell’atemporalità dei trattati. Il tempo è quello della biografia di Chandra Candiani, con le sue occorrenze imprevedibili e inevitabili: “Tre giorni fa è morta mia sorella. L’ultima rimasta. Non ho ancora cancellato il suo numero dal cellulare”. Come nella lirica moderna, il testo sembra farsi in tempo presente, nel mentre chi scrive vive ciò di cui parla, tanto da essere persino in dubbio di riuscire a completare la sua opera: “Forse non scriverò questo libro”. Il luogo è precisato nel primo capitolo del libro, è la stanza della meditazione. Con un andamento leggermente narrativo, Chandra Candiani ci accoglie alla soglia del libro come un’ospite sulla soglia di casa e ci introduce nella stanza della meditazione. Con un’avvertenza: “non si tratta di chiudere fuori il mondo”, ma di “Essere tutti lì dove siamo”. Ci descrive la stanza e dai dettagli concreti ha inizio inavvertitamente quel viaggio che lei compie da trent’anni per “imparare a essere qui”. Soltanto “Ci vuole del tempo e qualche indicazione perché ci si risvegli a dove è il corpo”. E “man mano che ci apriamo a essere dove è il corpo e a sentire come stiamo in quel momento, il qui si dilata, diventa immenso,… fino a farci assaporare la spaziosità fondamentale in cui abitiamo, non solo la spaziosità della coscienza ma quella dell’universo stesso”. Chi scrive svolge davanti a noi questo suo viaggio, ci porta dentro la sua interiorità, e così facendo induce un percorso simile anche in noi.
Tutto è meditazione: “Una stanza vuota insegna a essere contenitore vuoto, ma pronto, capace, accogliente”. È il punto di partenza per un’apertura all’universo che da poeta Chandra Livia Candiani ha cantato ne La bambina pugile e in Fatti vivo. Gesti che ci liberano sono “inchinarsi” e “chiedere rifugio”, accogliere l’irrequietezza, assumere una postura che radichi e apra, partire dal respiro e dal corpo, “senza identificazione e insieme senza scissione”, evitando le narrazioni e le autonarrazioni della mente. Chandra Candiani descrive le sensazioni fisiche, ne narra l’evoluzione, insieme a lei avvertiamo via via l’aderire alla terra e il fluire del respiro, il contatto con il corpo e l’attenzione a ciò che ci circonda, l’ascolto e l’attesa, fino al sorgere del sentimento di essere e di una conoscenza altra rispetto a quella concettuale, che, con un’espressione presa da Emmanuel Levinas, possiamo dire che assomiglia piuttosto a una carezza, “qualcosa che viene afferrato,… che sfiora senza prendere, qualcosa che scorre. La carezza è ‘marcia verso l’invisibile’, perché la carezza ‘non sa cosa cerca’.”. Scopriamo che l’approdo non è una pace priva di scosse ma la consapevolezza che la sofferenza c’è, che la ricerca non è rivolta a uscire dalla vita quotidiana, ma a entrarci consapevolmente, cosicché la meditazione è non un anestetico, ma una Via per entrare più in intimità con quello che ci accade. Da questo punto di vista “tutto è meditazione” e come nell’insegnamento buddista il libro ci chiede “di allargare il nostro orizzonte di pratica, la nostra visuale spirituale a tutta la nostra vita”.
Meditazione e poesia: Il silenzio è cosa viva si può leggere anche come un libro di poetica. Lo fanno essere tale innanzitutto affermazioni esplicite che accomunano meditazione e poesia nella biografia di Chandra Candiani. “Le misteriose vie della vita mi hanno regalato due metodi, due alleati per avvicinare e arrivare ad accogliere la paura: la poesia e la pratica del Buddhismo”. Le due pratiche sono accomunate anche dall’essere un’arte: “Meditare non è nemmeno una tecnica, ma un’arte. Dell’arte quindi ha il rischio, l’improvvisazione, lo studio e la dimenticanza dello studio, la dedizione, la leggera e misurata follia, la precarietà, la vocazione, l’invasione nella vita quotidiana, la spellatura”. Parole che possono riferirsi anche alla poesia. E c’è molto altro disseminato nel libro. La stanza della meditazione ricorda da vicino Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf. Come quella rivendicava non solo “una stanza tutta per sé per poter scrivere” ma al contempo decostruiva secoli di cultura patriarcale in cui il femminile non trovava posto, così questa stanza della meditazione non solo “è molto simile allo spazio del cuore”, ma si spinge oltre i limiti della cultura occidentale per trovare in altre culture le parole per dire la possibilità di un superamento delle nostre separatezze: “Si tratta di coltivare la mente-cuore. In pali, sono una parola sola: citta. E già questo fa avvertire la portata della differenza tra la nostra cultura occidentale di pensiero dissezionante e separativo e una cultura della non separatezza, del nesso”.
La vita è viva: I lettori di Chandra Livia Candiani potranno trovare in questo libro l’atteggiamento di ascolto e apertura al mondo che abbiamo incontrato ne La bambina pugile, reso possibile da un io leggero che si discosta da quello della cultura occidentale: “Il rischio della solidificazione è ovunque, anche sul sentiero interiore, ed è quello di creare un io ideale, un io meditante, saggio, imperturbabile, che snocciola insegnamenti a piè sospinto”. Vi può trovare, come risultato di questa apertura, l’approdo alla realtà, alla sua bellezza e alla sua terribilità, che costituisce la trama di Fatti vivo: “Sono cosa della realtà. Briciola di misteriosi legami, ogni nodo di realtà rispecchia tutti gli altri e la rete non ha fine”. Come Fatti vivo reclamava che “Di guerrieri indifesi / ha bisogno il mondo, / di sacra ira / di occhi spalancati”, così Il silenzio è cosa viva insiste che “la vita è viva e… ci si può abbandonare a essa, senza diventare passivi, ma anzi collaborando al suo svolgimento”. La meditazione, come la poesia, è un gesto etico e politico, che sostituisce un’esperienza a una convenzione, che rifiuta una consapevolezza intesa come pacificazione in favore di una piena assunzione di responsabilità che si esplichi in risposte che vadano dalla compassione alla gioia per la gioia dell’altro e all’azione responsabile.
Recensione ripresa da https://www.nazioneindiana.com/2018/10/20/il-silenzio-e-cosa-viva/
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