Rossana Rossanda
scopre a 94 anni che Fortini aveva ragione. Nel 1956 alle critiche
dell'intellettuale socialista sulle connivenze del PCI togliattiano
con i crimini di Stalin aveva risposto a nome del partito di non
sentire ”la propria coscienza morale investita da problemi che non
avevamo il mezzo di controllare”. Che dire? Meglio tardi che mai.
Quanto alla visione “eroica” dei comunisti perseguitati (alla
Rossanda fu negato il passaporto), ci viene da pensare ai militanti
operai antistalinisti (anarchici, bordighisti, trotskisti) come
Arrigo Cervetto (tanto per citare un nome) che, oltre alle
intimidazioni padronali e poliziesche (che andavano ben oltre la non
concessione di un documento) dovettero subire le calunnie e spesso le
aggressioni fisiche degli stalinisti del PCI perchè loro il “mezzo
[e il coraggio] per controllare” i crimini di Stalin lo avevano
comunque avuto. Sappiamo che per molti la Rossanda è un'icona, ma a
noi questi orfani del togliattismo, che pensano di aver avuto ragione
anche quando ammettono di aver avuto torto, paiono patetici.
Rossana Rossanda
Franco Fortini e i
nostri «dieci inverni»
Bene ha fatto Quodlibet a ripubblicare Dieci Inverni di Franco Fortini, anche se è lontano il tempo in cui egli li ripubblicò per la prima volta. Sono interventi che ruotano tutti intorno a un tema: il silenzio, o peggio, la complicità dei partiti comunisti occidentali, dunque anche nostra, sulla repressione che infuria in quegli anni sui dissenzienti nei paesi di «socialismo reale». La storia ne è stata fatta soltanto parzialmente, volta a volta sopravanzata dagli eventi e dall’uso che ne fecero gli avversari di classe, basti ricordare la campagna democristiana del ’48 e le «forche di Praga».
Ammesso che oggi io conti qualcosa, allora non ero nessuno, un modestissimo “apparatcik” della Federazione comunista milanese, addetta al «lavoro culturale» (qualcuno ricorderà il libro di Luciano Bianciardi) e quindi in una posizione che mi permetteva, anzi mi obbligava, di osservare dappresso il conflitto tra il mio partito e Franco Fortini.
Noi comunisti avevamo una visione eroica di noi stessi, per essere la forza politica più attaccata dal governo e dalle destre in quanto rappresentanti della classe operaia. In questo c’era una verità, gli amici stentano a credere se dico che per diversi anni a me, che appunto non ero nessuno, fu tolto senza spiegazione alcuna il passaporto, per cui essere contemporaneamente attaccati anche da un compagno socialista, tanto più in quanto egli aveva ragione, ci bruciava assai, come la nostra sordità bruciava a lui, che ci rimproverava incessantemente di tacere sugli incredibili processi e le intollerabili esecuzioni che avvenivano nelle «democrazie popolari».
Ero stata incaricata tra l’altro di rimettere in piedi la Casa della cultura di Milano, la cui prima forma era stata disastrata dalle elezioni del ’48; avevo chiesto a Fortini di farne parte, egli aveva accettato ma non per tacere nei confronti di quello che gli pareva un vero disastro sul piano politico e morale.
Per cui quando uscivano le sue rampogne e seguiva il contrattacco su Società o su Rinascita, mi trovavo giusto sulla linea del fuoco incrociato: Franco mi telefonava esulcerato di prima mattina e non era facile calmarlo, Roma (Rinascita) era lontana, Firenze (Società) anche e non si poteva contare su un intervento della Federazione socialista di Milano, allora diretta da Rodolfo Morandi, più che silenziosa nei confronti del Pci, tanto più che era in corso la vertenza sui consigli di gestione in fabbrica.
Il mio rapporto con Fortini per anni fu permanente ma difficile, per sfociare soltanto alla fine degli anni Cinquanta in un’amicizia che non sarebbe più cessata malgrado le sfuriate reciproche.
Oggi è più facile vedere quanto Fortini avesse ragione.
Il Pci non attaccò l’Unione sovietica mai, neppure con una prudente discussione fino a che Berlinguer non cominciò la sua critica nel ’69 alla conferenza dei partiti comunisti e operai a Mosca, né si fece mai su questo un’autocritica; nel dopoguerra la sua linea contro l’imperversare di Zdanov consisté nel dare alle stampe, tramite Einaudi, i Quaderni dal carcere di Gramsci, definito da Togliatti fondatore del Pci nonché martire del fascismo e perciò inattaccabile.
Per cui Franco Fortini non rinunciava a imputargli una viltà se non una copertura delle pratiche orrende delle democrazie popolari, che pesavano su noi tutti, anche quando il problema, dopo il 1956, si fece bruciante: 1947-1957 sono appunto i dieci inverni, le gelate ideologiche che ricostituiscono le tappe di un percorso per noi in pura perdita (Politecnico, i primi sciagurati interventi di Togliatti sulle arti figurative, in cui si trovò contraddetto prudentemente anche da Guttuso, la difesa dei modestissimi ma ben intenzionati romanzi neorealisti come L’Agnese va a morire o il Metello – ricordo che Muscetta li rimproverava di passare più tempo in camera da letto che alla camera del lavoro – e dei film neorealisti non senza passare sulle braci ardenti delle scienze, Aloisi e il caso Lyssenko, fino alla contesa con i critici cinematografici «sciolti dal giuramento»).
Non so valutare quanto questi interventi abbiano pesato sul percorso della letteratura, delle arti e delle scienze, ma sono persuasa che ebbero una conseguenza fatale per la disfatta attuale dei partiti comunisti: da allora fummo segnati per sempre dal marchio di essere un partito dittatoriale. Anche se è facile, ma non ci assolve, confrontarci con altri partiti come quello francese che espelleva a destra e a manca, mentre il Pci è meno violento. Per cui nella cerchia degli 81 partiti comunisti ci facemmo la fama di essere il più intelligente e tollerante.
Certo mi impressionò,
quando due o tre anni fa mi sono imbattuta per caso sui verbali
stenografici del processo in cui fu coinvolto, finendo poi fucilato,
anche Bucharin, accorgendomi che quel materiale era stato pubblicato
formalmente dall’Urss mentre neppure i più illustri compagni di
strada come Romain Rolland o Jean Pierre Vernant (che non erano
neppure legati dalla milizia comunista) hanno voluto o non si sono
sentiti di alzare la voce contro le nefandezze indirizzate dal
procuratore Viscinski appunto a Bucharin. Ammesso che noi possiamo
scrollarci di dosso la medesima responsabilità: io me ne vergogno
ancora.
Alcuni fra di essi
avanzano una giustificazione: «Perché mi schierai con la posizione
dell’Urss? Ma per battere il fascismo». Come se sarebbe stato più
difficile batterlo prendendo le difese di Slanskj.
In verità questi scritti di Fortini vanno riletti oggi perché la sua analisi va ben oltre il rifiuto di tollerare quello scandalo, anzi di tollerarlo tantomeno in quanto veniva dalla sua parte politica, riguardano il rapporto fra rivoluzione e cultura, indicando anche la debolezza di posizioni non perseguitate o almeno non messe a morte.
L’intransigenza di Fortini non è mai unidimensionale, è stato più che mai attento a non dimenticare il nemico – come invece i comunisti hanno scordato di fare nel 1989, fin dal primo scambio fra Occhetto e Craxi.
Del resto non è semplice distinguere volta a volta il crinale ideologico su cui passa lo scontro di classe. Non è semplice ma proprio per questo Dieci inverni è un testo prezioso per la riflessione ancora oggi (penso anche al modo in cui Fortini giudica le ragioni non solo nei disaccordi ma anche negli accordi come su Ladri di biciclette, o sulla posizione di Vittorini, del quale è stato sempre amico e sodale, dopo la chiusura di Politecnico).
il manifesto 28.10.18
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