“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
22 ottobre 2018
TEMPO PRESENTE
“Era una notte buia e tempestosa…” (Snoopy, Peanuts, XX secolo).
Per un incipit sul tempo presente si devono scrivere parole generiche, quelle che poi divennero anche ridicole per merito di Charles Schulz, l’autore dei Peanuts: il tempo presente del XXI secolo è nei fatti una notte buia e tempestosa.
Cosa non si fa per cercare di non cadere in ripetizioni, per uno come me che sviscera quel poco che pensa, rendendolo di dominio pubblico. Eccovi adesso una delle mie iterazioni preferite. Quella su Hanna Arendt. I grandi filosofi presentano la strana caratteristica di essere in qualche modo eterni quando dicono cose giuste, ma anche cose sbagliate. Hanna Arendt, per me, è quella grandissima di On revolution, ma anche quella mediocre delle considerazioni sul processo Eichman. L’unica cosa che mi sta sul gozzo di quel processo è infatti la sentenza di impiccagione: lui, come gli altri indimenticabili criminali nazisti, avrebbe dovuto essere studiato per anni e anni allo scopo di comprendere la malattia che lo affliggeva che non era una malattia sua, che non era una malattia mentale, ma una tara del genere umano.
A quelli che manifestano il proprio stupore, consiglio a sproposito di rileggere il volumetto di Hannah Arendt La banalità del male. È ovvio che il Male nella sua piena apocalissi della metà del secolo scorso, quando la gente non riusciva più a distinguere i contabili dai macellai, poteva essere definito banale solo da una filosofa, ma, all’epoca in cui viveva ancora la sua fase infantile – anni Venti del 1900 – il Mostro faceva persino ridere: il Fascismo si vantava di essere una “rivoluzione”, pensate un po’!, e a Monaco un certo Adolf Hitler era noto in città come il curioso buffone da birreria che sembrava ubriaco solo perché era tutto scemo…
Siamo adesso dunque in un’epoca nella quale il Mostro è ancora un poppante?
Non è mia intenzione rivangare la Storia recente della quale sono ahimè testimone-bambino e neanche di inabissarmi in profondità scientifiche inadatte a me, ma di narrare il brancolare nella caverna alla ricerca di qualche filo di Arianna: dicono che il Minotauro è stato fatto fuori da un bel pezzo, ma dov’è l’uscita dal Labirinto?
Siamo confusi e avviliti e lo è anche gente non ancora minacciata dall’arteriosclerosi: “Sono esasperato dall’establishment. Perciò ho votato Lega per vedere almeno qualcosa di nuovo”. Se penso che negli anni 49-51 del mio liceo classico, i migliori professori ci incoraggiavano nelle nostre quotidiane fatiche ripetendoci: “Voi siete la classe dirigente del futuro”, le gambe mi fanno giacomo giacomo. Oggi la classe dirigente si occupa solo di preservare se stessa, quella del futuro è pentastellata, ex montanara del Nord e autofaga democratica.
Conosco una sola categoria di lavoratori munita di certezze irrevocabili, i tassinari (taxisti, fuori di Roma): “Il fascismo ha fatto anche tante cose buone, altroché”; “ Le armi ai privati sono indispensabili sennò diverremmo preda dei negri che i comunisti fanno entrare a fiumi in Italia per mantenere il potere”; “Gliela dico io, la soluzione: un uomo solo al comando, che faccia filar dritto tutti gli altri”; “No a nuove licenze di taxi, noi difendiamo le nostre famiglie dalla fame, si riducano gli stipendi ai manager piuttosto”; “Regalano agli immigrati i soldi che spettano a noi”.
È il mondo della semplificazione che rispecchia l’incomprensibile realtà.
Esistono certamente altri gruppi meno standardizzati e un po’ più perspicaci, noi ebrei per esempio che in Italia siamo un gruppo delle stesse dimensioni numeriche dei tassinari, ma che presenta al suo interno differenziazioni rilevanti: mestieri, censo, livelli culturali, intelligenze eterogenee, origini etniche, spessori morali, convinzioni politiche...
Eppure anche noi siamo indotti alle semplificazioni. Parliamo ininterrottamente di Israele, della Diaspora, della Memoria, come se davvero sapessimo che cosa sono e come se i nostri interlocutori fossero in grado di comprenderci.
Se si prende tutto questo bailamme giudaico e lo si mette, come sembra che il destino abbia voluto, in fila per uno (dai neonati fino ai centenari), su un tapis roulant che si muove lento ma inesorabile avanti e indietro con moto continuo rispetto al “tempo esterno”, emergono alcuni fenomeni strani che però non risultano nuovi a nessuno di noi.
Tanto per cominciare, i tassinari ci guardano e ci moltiplicano almeno per dieci se non per cento, cosicché da trentamila circa che siamo, diventiamo nella sola Italia trecentomila, se non addirittura tre milioni. Chi è disposto a pensare che i romeni in Italia sono molto più numerosi di noi? Di conseguenza gli chauffeur di auto di piazza reputano che i nostri famosi sei milioni di morti ammazzati in Europa siano un’esagerazione. Quindi la cifra delle vittime varierebbe da zero a cinque milioni scarsi, forse anche meno. Comunque mai e poi mai più numerosi delle innumerevoli vittime civili dei bombardamenti americani!
D’altra parte, la sindrome del tappeto espositivo semovente fa sbarellare anche noi: nel primo dopoguerra ero orgoglioso del mio essere ebreo perché l’ebraismo si trovava, bella forza!, a sinistra del mondo. I tassinari ci vedevano come bolscevichi tutti contenti delle macerie che avevamo seminato. Studiatevi in proposito il maccartismo e il processo dei coniugi Rosenberg e vedrete. Ma il tappeto si muoveva si muoveva, si muoveva, finché diventammo un inceppo del mondo del progresso, come gli “assassini in camice bianco” del compianto Giuseppe Stalin e il processo Slansky di Praga hanno, a chiare lettere!, dimostrato. Adesso invece stiamo andando molto meglio: nell’opinione dei tassinari Israele è un avamposto della civiltà dell’Occidente in difesa dalla barbarie maomettana.
Lasciamo per strada la metafora del tappeto semovente che ci ha già stufato e ricorriamo a un altro astuto espediente narrativo: l’ingrandimento fuori misura di modesti accadimenti giovanili.
Nel 1948, dopo la Dichiarazione d’Indipendenza del 15 maggio, gli Stati Arabi attaccarono a cannonate il neonato Stato d’Israele, e siccome a quell’epoca di settant’anni fa noi risultavamo ancora simpatici, molta gente si presentava alla Comunità Ebraica di Torino per esprimere solidarietà: si installò un tavolino per raccogliere le firme come si fa ai funerali. Per qualche tempo ci trovammo seduti al tavolo Elena Ottolenghi e io, poco più che quindicenni. Si presentarono due giovanotti sconosciuti, alti, pallidi, magri ed eleganti che volevano combattere in difesa di Israele. Ci colse uno spavento preventivo perché con tutta evidenza i due erano ex brigatisti neri, e ora mi tocca raccontare come si individuavano di primo acchito quei “veterani” di allora. Ancora giovanotti. Magri e pallidi, perché neppure nelle Brigate Nere c’era stato il bengodi e soprattutto perché, dopo la guerra, molti di loro erano stati poi schiaffati per lunghi mesi dagli Alleati in qualche campo di concentramento come quello famoso di rieducazione di Coltano (Dario Fo, Giorgio Albertazzi, Walter Chiari e alcuni miei carissimi amici di un futuro allora ancora imprevedibile). Usciti in ritardo dal mondo in divisa, qualche mano pietosa di centrodestra passava la grana ai Repubblichini perché si vestissero a modino con tanto di cravatta chic. Elena trovò il coraggio di chiedere ai due elegantoni: “E perché volete combattere per gli ebrei?”. La risposta “rassicurante” dei mimetizzati fu: “Per difendere la razza bianca”.
Obiettammo con gentilezza untuosa che non ci occupavamo di volontari, e più tardi, confusi e disperati, ci chiedevamo quale sarebbe stato il loro disappunto nel constatare de visu che anche gli arabi sono di razza bianca…
Ci sarebbe molto altro da dire ma nella notte buia e tempestosa del nostro presente attuale mi vengono in mente nuovi incubi da narrarvi.
Il caos nel quale stiamo campando nasce anche dal fatto che la realtà è un garbuglio. Tale complessità può essere intuita riflettendo sul tumultuoso progresso scientifico e tecnologico. Noi che non sappiamo ancora di preciso per quale arcano mistero si accenda il nostro televisore, siamo obbligati a constatare che l’umanità conosce già la mappa dettagliata di ogni Pianeta e ogni Satellite del Sistema Solare salvo quel qualcosa di enorme che si manifesta oltre l’ottavo, il denigrato pianetino Plutone. Ebbi il privilegio di imparare in seconda elementare i nomi in cui si divide la catena montuosa delle Alpi, avendo avuto la fortuna di una maestra che, con minacce orribili, ci fece imparare a memoria la filastrocca delle iniziali: “Ma Con Gran Pena Le Re Ca Giù”. Quando penso ai Pianeti che ci sovrastano con i loro sistemi satellitari, le loro catene montuose, i fiumi e i mari di piombo, i fiumi e i laghi di metano, in giro nei cieli ognuno per i fatti suoi, mi metto a contemplare la rasserenante Menorah che rappresenta i giorni della Creazione, quelli della settimana e forse anche le lucette tremolanti dei Sette Cieli del tempo che fu.
Dice che c‘è la crisi delle democrazie, pare che così sia per la crisi delle Nazioni, dicono che il socialismo è scomparso e qualcuno blatera che anche il capitalismo sta malissimo. Nessuno conosce più il futuro, e il fatto che nessuno mai lo abbia saputo nei tanti millenni di oscurità fino a che lo decifrò un grande filosofo del XIX secolo, Carlo Marx, non ci è di nessun conforto, stante che adesso sembrano svaniti nel nulla il proletariato, la borghesia, la classe media, che sono volati ai Campi Elisi a far compagnia all’aristocrazia e alla classe ecclesiastica. Tutto ciò ci spinge appunto a pericolosissime semplificazioni che ci legano, volenti o nolenti, al semplicistico mondo dei tassinari.
Allarmatissimi, tutti stiamo pensando di ricominciare da zero. Ma da zero che cosa? Pare proprio che il Sommo Pontefice abbia deciso anche lui in tal senso e penso con raccapriccio a quando in Piazza San Pietro, dovrà proclamare Urbi et Orbi che in ascensore si fanno entrare prima le signore, poi ci si toglie il cappello…
Quindi me ne esco in extremis con una nuova proposta: quella di ricominciare dai fatti nostri già irti di complicazioni, premettendo però qualche considerazioncina introduttiva.
È noto che gli uomini e le donne si stanno alzando di statura, ma non se ne conoscono ancora le cause dettagliate. Si suppone che nei tempi beati del passato l’evoluzione privilegiasse i più piccoli: meno necessità di mangiare durante le carestie, profili sottili atti a scansar meglio le sassate degli avversari. Prima dell’evoluzionismo lo scoperse il geniale ma anonimo autore della leggenda di Davide e Golia: il Grande Re d’Israele non sarebbe arrivato con i suoi piedini a toccare i pedali di un’automobile.
Ma la sorpresa più sbalorditiva è l’aumento degli anni di vita media probabile: ho superato di 20 anni e forse più la durata di vita dei miei antenati, almeno di quelli che posso ricordare e tutto mi fa pensare che andando ancora più indietro, possa finire col sentirmi una specie di Matusalemme di ritorno. Comunque all’età della pietra, per non parlar di prima ancora, le ossa che si trovano sotterra sono tutte di gente giovane. Relativamente giovani erano anche le mummie egizie, salvo ben poche eccezioni.
È vero che Antonio Gramsci fece una sua grande scoperta: essere la vita culturale dell’uomo superiore ai cento anni circa, e cioè dall’infanzia dei genitori all’età giovanile dei nipoti. Ma un conto è la vita culturale che può far ricordare perfino del Pelide Achille l’ira funesta, un conto è quella della identificazione fisica della propria persona con gli accadimenti storici, le grandi evoluzioni del genere umano. La mia generazione è ancor più fortunata delle altre perché ci è stata somministrata la potentissima droga del sopravvissuto-testimone. Mi sa che qualche droga di questo genere sarà passata ai nostri figli che hanno visto un mondo senza computer, ma vissuto già le vicende orrende e confuse dei social network, via Zuckerberg andando.
Queste considerazioni estemporanee sulla statura e sulla speranza di vita media probabile sono quasi completamente sbagliate: i dati differiscono da una Nazione all’altra, da una regione all’altra, da un livello di vita all’altro. Semplificazioni.
Debbo interrompere la scrittura per correre fuori a cena con alcuni vecchi amici buontemponi.
Sono tornato, ho riletto quel che avevo scritto fin qui, e mi sono accorto di aver parlato ben poco di Israele e della Diaspora che rappresentano tante cose, talvolta confortevoli, ma anche colpi di vento fra i più sibilanti della notte buia e tempestosa.
Avviso che talvolta mi scapperà di chiamar me stesso “Diaspora” per un insieme aggrovigliato di narcisismo, modestia, egocentrismo, altruismo, carenza di sondaggi disponibili e altro. Una semplificazione da tassinaro.
Israele è una Repubblica democratica del MO (sarebbe forse meglio dire situata nel MO?), ormai con alcuni milioni di abitanti: ebrei, atei, religiosi Ortodossi ma anche parecchi Riformati, immigrati non classificati ebrei, tra i quali alcune migliaia di russi emigrati dalla Unione Sovietica che sono cittadini di pieno diritto anche se non ritenuti sufficientemente ebrei dal Rabbinato locale. Non so come sia finita la vecchia storia degli ebrei etiopi e di quelli neri misteriosi dell’Africa buia che leggono la Torah, ma non conoscono il Talmud, e per questo motivo restano per il Rabbinato Ortodosso fra color che son sospesi. Santo cielo! Non solo mi sono dimenticato di comprare il secondo volume in italiano del Talmud ma mi sfuggiva che quasi due milioni di cittadini israeliani di pieno diritto sono Arabi, musulmani o cristiani che siano. Non so bene se e quanto sia separata la religione ebraica dallo Stato. Che viene chiamato di frequente Stato Ebraico ed è in guerra eterna col mondo Arabo fin da prima che io nascessi nel 1933, ma certamente dal 1948. Ci sono linee armistiziali o di cessate il fuoco, linee cosiddette verdi che non vengono rispettate da nessuno né in teoria né in pratica e sono discusse ripetutamente nelle trattative di pace, periodiche a casaccio, infruttuose, tutte fallite. L’unico confine certo oltre a quello del Sinai è quello della Striscia di Gaza, per la quale lo Stato Ebraico si dichiarò sconfitto e che sgomberò dagli ebrei, militari e civili, all’epoca del Generale Sharon (z.l.) previa sprangatura spietata ma comprensibile. Di conseguenza la Strip dei Gazisti spara periodicamente missili sulla popolazione ebraica circumvicina, compie attentati, rapimenti e ricatti e varie altre allegrie. Le quali sono contraccambiate da Israele con bombardamenti di rappresaglia terroristica condannati sistematicamente dall’ONU. I Gazisti giocano con la sabbia scavando tunnel per balzare all’improvviso in mezzo agli Israeliani, certamente allo scopo di stringere nuove amicizie di spiaggia.
Non è un gran bel vedere e gli israeliani, dopo aver eletto democraticamente i propri governi, ritenuti a torto o a ragione i più adatti, si comportano malino anche in altre occasioni. Ma, se uno Stato è certamente tenuto assieme da sentimenti e valori, spesso lo è anche dagli interessi, scientificamente studiati dal nostro Rinascimento italiano con uomini di genio tipo i Machiavelli e i Guicciardini e applicati da gente più andante e pragmatica come i Borgia. La Diaspora non se ne compiace e ben poco è confortata dal pensiero che queste distopie possano essere corrette solo dai residenti.
Fra i tanti scopi per cui si arrivò alla fondazione dello Stato vorrei, evitando nomi, date e riferimenti storici, ricordare che nel corso del XIX secolo si arrivò a una così impegnativa e discussa decisione per molti motivi fra i quali i principali sono i seguenti: creare un tipo di ebreo nuovo, costituire un rifugio per gli ebrei perseguitati, calmare le spinte antisemite che spesso consideravano gli ebrei dei “senza patria”. Fra l’altro.
Per quanto si riferisce al rifugio dei perseguitati e ancor più al tipo di ebreo nuovo, Israele può proclamare la sua vittoria. Basti pensate che in molto meno di un secolo, gli israeliani sono divenuti per noi della Diaspora una specie di nuovi “yankee”, mentre noi della Diaspora siamo rimasti agli occhi degli israeliani “gente un po’ british”. Disturbati da sgarbi e omicidi, gli ebrei francesi delle banlieue di Parigi cambiano flemmaticamente di quartiere, se possono, oppure quelli proprio poveri se ne partono, sempre flemmaticamente, verso Israele.
Fallimento totale invece della lotta all’antisemitismo e infatti qualsiasi atto compia Israele, o pensiero formuli, o atteggiamento assuma, si riverbera immediatamente sulla Diaspora da destra o da sinistra, ma sempre negativamente.
E parliamo ora della Diaspora che oggi vive in Europa e soprattutto in America, con un numero di esseri umani tendenzialmente uguale a quello degli Israeliani.
Durante la II Guerra mondiale, Moshè Sharret, che poi sarebbe diventato il Presidente del Consiglio più di sinistra di tutta la storia dello Stato di Israele, raccolse al Teatro Adriano in Roma molti soldati della Brigata Ebraica per discutere su una proposta che intendeva avanzare agli Alleati. La sua pensata consisteva nel chiedere l’ammissione all’ONU del Popolo Ebraico tutto intero. Va osservato in proposito che a quell’epoca, 1944, lo Stato di Israele era ben lontano dall’esistere, e comunque Winston Churchill si oppose fermamente alla proposta e per fortuna non se ne fece più nulla. Per fortuna, perché la Diaspora è talmente complessa e multiforme da renderle impossibile il rappresentare compiutamente se stessa, e infatti la Diaspora trova una sua rappresentanza attendibile solo nelle organizzazioni cittadine, mentre difficilmente si riescono a individuare le sue esatte tendenze nelle organizzazioni nazionali, figuriamoci poi in quelle internazionali!
Se si passa a esaminare i rapporti tra Israele e Diaspora, la situazione si complica fino all’inesprimibile. È vero che c’è una forte tendenza autoritaria da parte dei Rabbini Ortodossi di Israele a negare qualsiasi autorità agli altri dovunque essi siano, cosa che agli altri non gliene importa quasi nulla, ma in sostanza l’ebraismo è il massimo della pluralità, ma non è mai stato pluralista (parola di Amos Luzzatto, è lui che me lo ha insegnato).
Ed ecco qui una storia illuminante che spero possa rivelarsi una fake news: è primavera, in piena stagione dei carciofi 2018, e qualche teorico israeliano Ortodosso del cibo kasher avrebbe irresponsabilmente sostenuto che gli ebrei non possono mangiare i carciofi, men che meno i carciofi alla giudìa (sic!). Basta girare per i ristoranti ebraici del Ghetto di Roma per vedere come può essere divorato quel fiore sublime, una delle portate più famose di Roma e orgoglio del popolo ebraico. Comincio a pensare che se c’è uno Stato che debba separare la religione dalla cosa pubblica, dovrebbe essere innanzitutto Israele a causa della potenza invasiva della religione giudaica che ognuno di noi rispetta e ama, s’intende dal proprio punto di vista.
Se il mix di valori e interessi dello Stato di Israele è imbarazzante come per qualsiasi altro Stato moderno democratico, la stessa cosa non si può dire per la Diaspora, perché il mix di valori e interessi per gli ebrei sparpagliati nel mondo comprende senza alcun dubbio più valori che interessi, e questo non perché gli ebrei siano così tanto disinteressati, ma perché la loro cittadinanza, legata ai Paesi che li ospitano, fa sì che i loro interessi siano protetti, finché lo sono, dai Paesi ospitanti: non sottovalutate questa caratteristica. Io la considero fra le componenti di base del mito antisemita della “Doppia Fedeltà” e quello del “Complotto Mondiale Ebraico”.
Per noi ebrei diasporici, che abbiamo un’infinita comprensione per gli uomini randagi è inammissibile la cacciata da Israele dei profughi clandestini neri africani ma anche la cacciata dei profughi da parte di qualsiasi altro Paese del mondo, compreso il nostro in cui abitiamo.
Ciò consegue da un dovere scritto in varie parti della Torah che dice all’incirca: “Rispetta lo Straniero, ricordati che fosti straniero in Terra d’Egitto”.
Articolo ripreso da https://www.doppiozero.com/rubriche/2737/201810/il-tempo-presente
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