Da tempo penso che
l'attualità di Marx stia soprattutto nella teoria
dell'alienazione e che il cuore del suo pensiero siano i Manoscritti
economici-filosofici del 1844. (fv)
Paul Mason
Il messaggio dimenticato di Karl Marx
La foto, un po’ sfocata, sembra cogliere Lev Trotskij a metà di una frase. Siamo a casa di Frida Kahlo nel 1937. A sinistra c’è Natalia Sedova, la moglie di Trotskij. A destra ci sono Kahlo e, seminascosta dietro di lei, una giovane donna che ascolta attentamente: è Raja Dunaevskaja, la segretaria di Trotskij. Non sappiamo quale sia l’argomento della conversazione, ma non abbiamo dubbi sulle sue premesse: tutte le persone presenti nella fotografia sono marxiste. Le loro idee sulla politica, l’economia, l’etica e l’arte sono state influenzate dagli scritti di un uomo nato in Germania duecento anni fa.
Trotskij sarà
assassinato nel 1940, e da quel momento Sedova riverserà tutta la
sua rabbia contro il potere sovietico. Kahlo diventerà una delle
artiste più straordinarie del novecento. Ma è Dunaevskaja a
costituire il collegamento tra il marxismo classico e l’unica forma
in cui la teoria elaborata dal filosofo tedesco può avere senso
oggi. “Il marxismo”, sosteneva Dunaevskaja, è una forma di
“umanesimo radicale”.
Il 5 maggio si è
celebrato il duecentesimo anniversario della nascita di Marx, ma il
dibattito sulle sue idee non accenna a finire. La scorsa estate
l’estrema destra statunitense ha manifestato a Charlottesville, in
Virginia, accusando la città di essere schiava del “marxismo
culturale”. Il governatore della Banca d’Inghilterra, Mark
Carney, avverte che il marxismo potrebbe tornare d’attualità a
causa della disoccupazione legata all’automazione e delle
disuguaglianze. In Cina, intanto, è stata risuscitata una forma di
marxismo che è diventata la nuova dottrina di stato. Per capire
quello che può e non può sopravvivere del marxismo, dobbiamo
chiederci che senso hanno i suoi insegnamenti nelle condizioni
profondamente diverse di oggi.
Oltre l’ortodossia
Nel luglio del 1850 Karl
Marx era già un teorico della sconfitta. Nel Manifesto del partito
comunista (1848) aveva scritto che la missione della classe operaia
era abolire la proprietà privata e introdurre il comunismo. Ma aveva
capito subito che ci sarebbe voluto un po’ di tempo. Dopo aver
cercato per due anni di spingere le rivoluzioni democratiche in corso
in Francia e Germania nella direzione della giustizia sociale, aveva
ammesso il suo fallimento e si era rifugiato a Londra. Tuttavia,
nella stanza sopra a un pub di Soho, davanti a una pinta di birra,
Marx continuava a rassicurare il suo compagno d’esilio, Wilhelm
Liebknecht, sul fatto che la speranza non era ancora morta. Aveva
appena visto il prototipo di un treno a trazione elettrica in mostra
a Regent street: l’era del vapore sarebbe finita presto e sarebbe
cominciata quella dell’energia elettrica. Liebknecht scrisse:
“Marx, tutto entusiasta e rosso in viso, mi disse: ‘Adesso il
problema è risolto, e le conseguenze sono imprevedibili. Alla
rivoluzione economica deve necessariamente seguire quella politica,
perché la seconda è solo l’espressione della prima”. Tra i fumi
del tabacco, Marx aveva delineato una versione semplificata della
concezione materialistica della storia. A quella ne sarebbe seguita
una più complicata.
Nella prefazione al
saggio Per la critica dell’economia politica (1859) Marx spiega che
il cambiamento sociale nasce dal conflitto tra due realtà create
dagli esseri umani: le forze produttive – cioè la tecnologia e le
competenze necessarie per usarla – e i rapporti di produzione, il
modello economico necessario per dar vita alla tecnologia. Insieme,
sostiene Marx, la tecnologia e il modello economico costituiscono la
“struttura” su cui in ogni sistema si fondano le
“sovrastrutture”, cioè le leggi, le istituzioni politiche, le
culture e le ideologie. Le rivoluzioni scoppiano quando il sistema
economico ritarda il progresso tecnologico.
Dopo il fallimento delle
rivoluzioni del 1848, Marx dedicò la sua vita a due progetti
complementari: la creazione di partiti della classe operaia che
difendessero gli interessi dei lavoratori e li preparassero a
conquistare il potere, e l’analisi delle dinamiche del capitalismo
industriale. Solo una volta, in un quaderno rimasto inedito per più
di cent’anni, Marx azzardò un’ipotesi sulla forma che la
rivoluzione tecno-economica avrebbe potuto assumere. Nel Frammento
sulle macchine, scritto nel 1858, Marx immagina un’epoca in cui le
macchine fanno la maggior parte del lavoro e in cui la conoscenza,
diventata “sociale”, si incarna in quello che il filosofo chiama
“intelletto generale”. Dato che il capitalismo si basa sui
profitti generati dai lavoratori, non può sopravvivere a un livello
di progresso tecnologico che elimini la necessità del lavoro. Il
conflitto tra proprietà privata e conoscenza sociale condivisa, dice
Marx, farà “saltare in aria” le fondamenta del capitalismo.
Questa profezia, così palesemente anticipatrice della nostra epoca
di robot e conoscenza condivisa, è rimasta negli archivi fino agli
anni sessanta.
Nei cinquant’anni
successivi alla morte di Marx, nel 1883, le sue idee subirono tre
reinterpretazioni. All’inizio il suo collaboratore Friedrich Engels
cercò di sistematizzare il pensiero di Marx in una teoria
onnicomprensiva, che non si fermava alla storia ma teneva insieme
perfino la fisica, l’astronomia e l’etnografia. Questo era il
marxismo che studiarono i leader dei primi partiti socialisti, i
quali ne fecero una seconda revisione, sostenendo che le teorie di
Marx conducevano a un socialismo parlamentare pacifico, non alla
rivoluzione.
Infine, a partire dal
1899, emerse un marxismo basato sulla lotta di classe, che metteva la
forza di volontà dell’essere umano e il suo slancio organizzativo
al di sopra dell’ineluttabilità dello sviluppo storico. Questo era
il marxismo che Trotskij e Sedova avevano imparato nei movimenti
clandestini in Russia, e che nel 1902 li aveva costretti all’esilio
a Parigi. Secondo questa teoria, la Russia sarebbe potuta diventare
democratica solo sotto la guida della classe operaia. Per questo
bisognava organizzare i lavoratori in partiti agguerriti e
gerarchizzati proprio come gli stati governati dagli zar e dai kaiser
che i lavoratori stessi volevano abbattere. Le loro armi dovevano
essere gli scioperi e le barricate, non le elezioni e l’attivismo
culturale.
Ma il marxismo dei primi
del novecento conteneva anche una teoria della classe operaia opposta
a quella di Marx. Per il filosofo tedesco le rivoluzioni del 1848
erano fallite perché il capitalismo non era ancora maturo per essere
abbattuto. Per Lenin, nel 1902, erano i lavoratori a non essere
pronti. E non lo sarebbero mai stati senza la guida di un’élite,
senza l’avanguardia di un partito clandestino che li spingesse
all’azione. Lenin sosteneva che l’intera classe operaia
specializzata del mondo sviluppato ormai era stata comprata dai
guadagni dell’imperialismo: fare la rivoluzione era compito dei
lavoratori non specializzati in occidente e dei popoli dei paesi meno
sviluppati.
Più o meno a partire dal
1910 le rivolte nazionaliste e le guerre per la terra scoppiate in
Messico, Cina, Irlanda e infine in Russia sembrarono confermare
questa teoria. Trotskij e Sedova avevano assistito alla nascita di
questo nuovo marxismo rivoluzionario. La generazione di Kahlo e
Dunaevskaja conosceva invece solo questa versione. Dunaevskaja era
nata nel 1910 da genitori ebrei nell’odierna Ucraina ed era
emigrata a Chicago con loro nel 1922. Era entrata nel Partito
comunista a 14 anni, durante uno sciopero scolastico. Avrebbe
lasciato il partito quattro anni dopo, quando fu gettata giù dalle
scale per aver criticato l’espulsione di Trotskij dal Comintern e
dal Partito comunista sovietico.
Raya Dunayevskaja
Trotskij era stato uno
dei leader della rivoluzione del 1917. Poi aveva partecipato
all’abolizione del controllo delle fabbriche da parte dei
lavoratori e alla repressione delle opposizioni di sinistra. Ma a
partire dal 1923, davanti alla nascita di una nuova élite di
burocrati, aveva lanciato un suo movimento di opposizione. Negli anni
trenta era ormai arrivato alla conclusione che lo stalinismo e il
fascismo erano “gemelli”, separati esclusivamente dalle teorie
economiche su cui si basavano.
Nel movimento trotskista
Dunaevskaja aveva il compito di curare, da un ufficio di New York, un
giornale in lingua russa distribuito nell’Unione Sovietica. Era
arrivata in Messico nel luglio del 1937 per lavorare come stenografa
e traduttrice di Trotskij, mentre le grandi purghe cominciavano a
decimare le loro reti clandestine.
Kahlo era entrata a far
parte del movimento dei giovani comunisti messicani nel 1928, a 21
anni. “Sono comunista per natura”, avrebbe scritto in seguito.
Per la generazione dei giovani intellettuali messicani attratti dal
comunismo, quest’identità politica implicava non solo la
sperimentazione sessuale e artistica, ma anche un profondo impegno
nei confronti delle culture indigene e un grande entusiasmo per le
rivolte dei contadini guidate da Emiliano Zapata. Le persone ritratte
nella fotografia condividevano una serie di idee di fondo che
potremmo riassumere così: le rivoluzioni di solito scoppiano nei
paesi arretrati; richiedono una guerriglia mobile, l’occupazione di
terre e una lotta spietata contro i ricchi; un partito marxista deve
guardarsi dal conservatorismo della classe operaia occidentale e
difendere piuttosto i popoli indigeni e quelli oppressi; la classe
operaia è il “soggetto rivoluzionario” intrinsecamente nemico
del capitalismo, anche se momentaneamente fuorviato.
Erano tutte persone
pronte al sacrificio e disposte a usare la manipolazione e la
violenza per raggiungere il loro obiettivo. Ma ognuna si sforzava, a
modo suo, di preservare un marxismo dal volto umano, di resistere
alle menzogne, agli omicidi di massa e alla repressione della libertà
innescata dallo stalinismo. La tragedia è che nessuno di loro aveva
compreso quanto profondamente umanista fosse il marxismo quando era
stato concepito. Solo Dunaevskaja un giorno lo avrebbe capito.
Marx non amava la
filosofia: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo, quello che
conta è cambiarlo”, scrisse. I Manoscritti economico-filosofici –
scritti nel 1844 a Parigi, ma pubblicati a Mosca solo nel 1932 –
dimostrano come arrivò a quella conclusione: attraverso una critica
alla filosofia dell’illuminismo, profondamente imbevuta di
umanesimo, e che discende direttamente da un concetto di natura umana
riconducibile ad Aristotele attraverso sant’Agostino e Hegel. Lo
scopo degli esseri umani, dice Marx nel 1844, è liberarsi. Sono
schiavi non solo del capitalismo e di uno specifico tipo di società
basata sulle classi, ma di un problema che nasce dalla loro stessa
natura sociale, che li obbliga a lavorare in gruppo e a collaborare
tra loro usando il linguaggio e non solo l’istinto. Quando noi
esseri umani produciamo un oggetto, o scopriamo una nuova
idea, tendiamo a proiettare il nostro concetto di “io”
in quest’oggetto o idea: è il processo che Marx chiama
alienazione, o estraniazione. Poi consentiamo ai nostri prodotti,
mentali e materiali, di esercitare un potere su di noi, sotto forma
di religioni o superstizioni, idolatrando i beni di consumo o
rispettando insensatamente routine e forme di disciplina che ci siamo
imposti da soli.
Per superare
l’alienazione, Marx sostiene che l’umanità deve liberarsi di
tutte le gerarchie e le divisioni di classe, il che significa abolire
sia la proprietà privata sia lo stato. I manoscritti del 1844
contengono un’idea che nel marxismo è andata perduta: il concetto
di comunismo come “umanesimo radicale”. Il comunismo, diceva
Marx, non è semplicemente l’abolizione della proprietà privata,
ma la “riappropriazione dell’essenza umana da parte dell’uomo e
per l’uomo… Il totale ritorno dell’uomo a se stesso come essere
sociale (cioè umano)”. Quindi, sostiene Marx, il comunismo non è
l’obiettivo finale della storia umana. È solo la forma che la
società assumerà dopo quarantamila anni di organizzazione
gerarchica. Il vero obiettivo della storia umana è la libertà, la
realizzazione personale di ogni singolo individuo.
Nel 1932, quando
pubblicarono questi quaderni, gli accademici sovietici li trattarono
come un errore imbarazzante dell’autore. Accettare quelle idee
avrebbe significato ammettere che alla base dell’intera concezione
materialistica della storia – fatta di classi, rapporti di
produzione, tecnologia contrapposta all’economia – c’era un
profondo umanesimo con una serie di implicazioni morali. Dunaevskaja,
che riuscì a mettere le mani su una versione russa dei Manoscritti
negli anni quaranta, passò quasi dieci anni a cercare di venderne la
sua traduzione inglese, fino a quando non decise di pubblicarla da
sola a metà degli anni cinquanta. Aveva capito che i Manoscritti
mettevano in discussione tutte le precedenti interpretazioni di Marx.
Per i burocrati
sovietici, il contrasto tra l’idea marxiana di libertà e la loro
squallida e opprimente realtà era evidente. Per il marxismo
occidentale, che ormai era ossessionato dallo studio delle strutture
permanenti, ecco che Marx non parlava più di forze impersonali ma di
un concetto chiaro e quasi aristotelico di natura umana, di autonomia
e benessere. Era forse possibile, si chiedeva Dunaevskaja, che tutte
le disgrazie capitate alla sinistra marxista fossero dovute alle
rigide teorie divulgate da Engels? Era possibile che la spietatezza
del bolscevismo, sempre giustificata dall’obiettivo di dare il
potere alla classe operaia, fosse inconciliabile con il comunismo
immaginato da Marx? Era possibile che, dopotutto, il comunismo non
costituisse una rottura con l’umanesimo filosofico
dell’illuminismo, ma ne fosse invece l’espressione più compiuta?
Queste furono le domande
che Dunaevskaja si fece, sulla base delle quali stabilì nuove
priorità pratiche. In futuro la sinistra avrebbe dovuto costruire le
sue politiche partendo dall’esperienza dei singoli esseri umani e
dalla loro ricerca della libertà. Negli Stati Uniti degli anni
cinquanta questo significava non solo appoggiare la lotta degli
operai nelle fabbriche, ma anche sostenere il femminismo, i diritti
civili dei neri, i diritti dei popoli indigeni e le lotte
antimperialiste del sud del mondo. E significava anche sostenere
inequivocabilmente le rivolte contro lo stalinismo che esplosero in
Germania nel 1953 e in Ungheria nel 1956.
Quando i ricercatori alla
fine degli anni sessanta scoprirono e pubblicarono il Frammento sulle
macchine, Dunaevskaja capì che era l’ultima tessera del puzzle:
non era una teoria sul crollo economico del capitalismo dovuto al
calo dei profitti, ma una teoria della liberazione tecnologica. Marx
aveva previsto che, liberato dal peso del lavoro grazie ai progressi
dell’automazione, il genere umano avrebbe usato le sue energie “per
il libero sviluppo dell’individuo”, non per realizzare un’utopia
collettivistica.
Frida Kahlo prese invece
una strada diversa. Il suo ultimo quadro la mostra seduta sotto un
ritratto di Stalin. Aveva avuto una storia d’amore con Trotskij e
lo aveva visto mentre veniva ucciso in casa sua. E aveva praticato un
tipo di pittura surrealista che Trotskij apprezzava ma che Mosca
considerava degenerata. Perché aveva deciso di celebrare l’uomo
che aveva ordinato l’uccisione di Trotskij? Anche se Frida Kahlo
non poteva saperlo, il tema centrale della sua arte era sempre stato
il concetto marxista di alienazione. La pittrice considerava l’io
il luogo in cui sarebbe stata raggiunta la liberazione umana; nei
suoi quadri aveva esplorato l’alienazione del suo sesso, della
sessualità, della disabilità e dell’etnicità.
Le sue efficaci
rappresentazioni dell’infelicità e dell’isolamento l’hanno
fatta diventare, a partire dagli anni settanta, una specie di santa
patrona del femminismo. Ma è chiaro che l’artista considerava non
marxisti e antipolitici i suoi quadri oggi più famosi. Una volta li
definì “piccoli e poco importanti, pieni di temi personali che
interessano solo a me e a nessun altro”. I veri quadri politici
erano quelli di suo marito Diego Rivera. L’idea che anche il
personale è politico non apparteneva alla sua generazione.
Durante la guerra fredda,
mentre tutto il mondo si schierava con l’occidente o con l’Unione
Sovietica, Kahlo fece la stessa scelta di molte altre persone di
sinistra: si iscrisse al Partito comunista messicano e rinnegò
Trotskij. Anche i suoi quadri cambiarono. Cominciò a dipingere
grandi allegorie sociali, come Il marxismo guarirà gli infermi
(1954), in cui non comparivano più gli aspetti mistici e metaforici
delle sue prime opere. Non fu una scelta da dilettante della
politica. Nel 1952 aveva scritto sul suo diario: “Non sono mai
stata trotskista. Capisco perfettamente la dialettica materialista di
Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao Tse. Li amo e li considero i
pilastri del nuovo mondo comunista”.
La traiettoria politica
di Kahlo è un chiaro esempio di quello che succede al marxismo
quando si allontana dall’umanesimo. La pittrice doveva tenere il
suo interesse artistico per i traumi psicologici e per la libertà
sessuale nettamente separato dall’ideologia del materialismo
dialettico. Il suo accento sull’io indifeso, sulla bellezza della
persona oppressa, sull’ineludibile potere della natura, era frutto
della stessa idea di libertà che Marx aveva espresso nel 1844. Ma
Kahlo non riusciva a conciliarlo con il marxismo della propaganda
sovietica. E alla fine ebbe la meglio la propaganda.
Di fronte al dilemma
Cosa rimane del
marxismo nella nostra era di euforia tecnologica e di catastrofi
ambientali? Di certo non la sua idea di classe: nonostante la forza
lavoro del pianeta sia raddoppiata, gli operai dei paesi in via di
sviluppo sono intrappolati nella società borghese quanto lo erano i
loro colleghi bianchi del novecento. Le agitazioni sul lavoro
continueranno, ma il capitalismo ha imparato a evitare che si
trasformino in rivoluzioni. Tutto questo sembra tragico solo se non
si sono mai letti i Manoscritti economico-filosofici. Il Marx del
1844 teorizzava prima il comunismo e poi il ruolo dei lavoratori nel
realizzarlo. Il comunismo non era il punto finale della storia ma,
come disse una volta usando un’immagine quasi poetica, la fine
della preistoria. Per il Marx di quei primi scritti, i lavoratori
avrebbero realizzato il comunismo grazie al loro desiderio di
autoeducarsi e di formare associazioni cooperative, non comportandosi
come automi, spinti solo dai propri interessi materiali.
All’inizio degli anni
sessanta il filosofo francese Louis Althusser “risolse” il
problema dei Manoscritti dichiarandoli antimarxisti. A suo avviso,
rappresentavano il “Marx più lontano da Marx”, una filosofia
umanistica che sarebbe dovuta “tornare nell’ombra”. Eppure
Althusser riconobbe che la loro pubblicazione era stata un “evento
importante per la teoria”. In effetti ancora oggi chi si definisce
di sinistra deve farci i conti. Una volta che i Manoscritti furono
portati alla luce, il dilemma apparve chiaro: o il marxismo è una
questione di liberazione dei singoli esseri umani o è una questione
di forze impersonali e di strutture che possono essere studiate ma a
cui raramente si può sfuggire. o esiste una “essenza umana” che
possiamo riscoprire abolendo la proprietà e le classi o siamo solo
un mucchietto di ossa condizionato dall’ambiente che ci circonda e
dal nostro dna. o sono gli esseri umani a fare la storia, come aveva
detto Marx, o è la storia a fare la storia.
Negli ultimi
cinquant’anni il pensiero accademico di sinistra ha seguito in
buona parte la strada antiumanista tracciata da Althusser.
Dunaevskaja, come gli altri che dopo la guerra e il genocidio avevano
abbracciato l’umanesimo, fu molto apprezzata ma anche considerata
fuori dagli schemi. Tuttavia, il Marx che contribuì a riscoprire è
tutt’altro che irrilevante per il nostro futuro. Se vogliamo
difendere i diritti umani dal populismo autoritario e se pensiamo che
gli esseri umani debbano poter limitare e tenere a freno le attività
delle macchine pensanti, dobbiamo avere un preciso concetto di
umanità da difendere.
Il soggetto rivoluzionario
Se il Marx del 1844
ha ragione, l’ideale della liberazione umana e del comunismo può
sopravvivere all’atomizzazione e alla dispersione della classe
operaia che avrebbe dovuto realizzarlo. Come hanno dimostrato le
primavere arabe del 2011, le grandi masse umane oggi hanno la stessa
capacità di agire autonomamente, di educarsi e di collaborare che
Marx ammirava nella classe operaia parigina degli anni quaranta
dell’ottocento.
Come aveva ben capito Dunaevskaja, a far scattare
l’impulso verso la libertà non è solo lo sfruttamento, ma anche
l’alienazione, la repressione del desiderio, le sistematiche
umiliazioni subite dalle vittime del razzismo, del sessismo e
dell’omofobia. Dovunque persegue obiettivi che calpestano l’umanità
delle persone, il capitalismo suscita rivolte. Lo vediamo ogni giorno
intorno a noi. Nel prossimo secolo, come aveva previsto Marx, è
probabile che l’automazione combinata con la socializzazione della
conoscenza ci offra l’opportunità di liberarci dal lavoro. Questo
fenomeno farà “saltare in aria” il capitalismo. E il sistema
economico che lo sostituirà dovrà avere come obiettivo quello
delineato dal filosofo tedesco nel 1844: la fine dell’alienazione e
la liberazione dell’individuo.
Se potessi dialogare con le persone
ritratte in quella fotografia del 1937, dopo essermi congratulato per
la loro magnifica vita di resistenza e sofferenza, gli direi: “Il
desiderio di un marxismo umanista che state reprimendo, l’impulso
verso la liberazione individuale, in realtà sono già in Marx e
aspettano solo di essere scoperti. Perciò dipingete quello che
volete, amate chi volete. Al diavolo il partito. Il vero soggetto
rivoluzionario è l’io!”.
Internazionale – 8
giugno 2018
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