08 ottobre 2018

LAVORO E CITTADINANZA



Per un “Lavoro di cittadinanza”, secondo Costituzione. 

In appendice uno scritto di Piero Calamandrei. 

Salvatore Lo Leggio 

Leggo Calamandrei, la paginetta manoscritta e non corretta che "Il Ponte" pubblicò alla sua morte e che la rivista da lui fondata ripubblica oggi, più di sessant'anni dopo.
"La nostra Costituzione è programmatica cioè contenente un vero e proprio programma di trasformazione sociale della società, i cui capisaldi sono quelli del diritto al lavoro, della effettiva partecipazione dei lavoratori al governo, del diritto al salario".
Non è previsto un diritto al reddito a prescindere dal lavoro; anzi il lavoro, inteso come attività utile, nell'art.4 è indicato come un dovere per tutti, perfino per i percettori di rendite.
Dicono i “realisti” che sono chiacchiere perché il lavoro non c'è e non si può inventare.
È davvero così?
Non mi pare.
È sotto gli occhi di tutti, per esempio, il degrado generalizzato nel centro-sud della viabilità urbana e rurale. Coprire le buche in un paese come l'Italia, percorso da monti e colline, è attività che non richiede macchinari avanzati e materiali costosi, ma tanto lavoro umano. Lo stesso ragionamento vale per tanti altri aspetti della manutenzione del territorio: penso a piccole frane, ai rischi di alluvione, all'incuria che circonda spesso i beni paesistici e culturali, alla messa in sicurezza di scuole ed edifici pubblici. Sono problemi che spesso non richiedono grandi opere, ma tanti piccoli interventi nei quali la componente lavoro è l'elemento più importante.
Insieme alla cura del territorio in tutti i suoi aspetti appare molto carente la cura delle persone. In una società che si è invecchiata anche per effetto del positivo allungarsi della vita, sono tanti gli anziani in sofferenza perché non possono permettere badanti, oppure perché di badanti a tempo pieno non hanno bisogno, ma necessitano di forme di assistenza sociale e sanitaria periodica e mirata, non esclusivamente affidata al volontariato. E, per di più, c'è un sistema sanitario che non solo con i vecchi ma con tutti quelli che hanno bisogno di cure, sembra passato dal tempo degli sprechi a quello della micragna. Forse nell'organizzazione sanitaria basta e avanza il personale dirigente e impiegatizio che c'è ed è sufficiente il personale medico, ma chiunque abbia esperienza di ospedali e altre strutture del Mezzogiorno (e non solo) sa che infermieri e operatori mancano strutturalmente e che è una favola insensata quella che racconta, oggi, di personale nullafacente in questi ruoli. Anche per le scuole mi dicono di locali fatiscenti, di classi affollatissime e di carenze di insegnanti dovute ai tagli dell'ultimo ventennio.
Di lavoro socialmente necessario (non solo utile) in verità ce n'è tantissimo. Anche troppo.
Perché allora si dice che in Italia non c'è lavoro?
Perché le politiche e i dogmi del nuovo liberismo considerano lavoro solo quello che produce merci o servizi mercificati, solo il lavoro al servizio di un capitale che ne trae profitto. Le attività di cui parlavamo non sono – al momento – mercificate e non sono tutte in tempi brevi mercificabili; pertanto non “rendono”, non sono – per l'ideologia dominante – vero lavoro.
Pare che il “reddito di cittadinanza” di cui si parla non sia davvero tale, non sia cioè un reddito minimo garantito ad ogni cittadino maggiorenne, a prescindere dalla sua condizione lavorativa, dalla sua età, dal suo reddito. L'idea originaria era di una misura universale, diretta a ricchi e a poveri, a giovani e vecchi, a chi lavora e a chi non lavora, anche a chi non lavora perché non ne ha voglia o bisogno, di un intervento sociale sostitutivo di tutti gli altri interventi sul reddito (indennità di inoccupazione o disoccupazione, pensione sociale, integrazione pubblica alle pensioni contributive ecc.). Dicevano i suoi fautori che non avrebbe tolto l'interesse a lavorare o ad intraprendere, visto che il reddito garantito avrebbe assicurato soltanto il minimo per una dignitosa sopravvivenza e verrebbe mantenuto anche per gli occupati. Legavano la proposta alle strabilianti innovazioni tecnologiche, alla cosiddetta “fine del lavoro” del celebrato libro di Rifkin. Così concepito il reddito di cittadinanza che nell'Italia di oggi non ha alcuna possibilità di attuazione, dato il livello di indebitamento e data la tendenza prevalente nel ceto politico (che non è solo degli attuali governanti) a salvaguardare i grandi patrimoni, le rendite finanziarie e i redditi più alti. La concreta attuazione che il governo in carica sembra voler dare alla cosa è tutt'altro, in pratica un allargamento del reddito di inclusione, della cassa integrazione e dell'indennità di disoccupazione già in vigore; ed è per di più condizionato ad obblighi e restrizioni vessatori e autoritari e comunque collegato alla volontà di impegnarsi in un lavoro retribuito. Leggo di corsi formazione (quasi) obbligatori, di alcune ore settimanali da dedicare a non meglio precisati “lavori socialmente utili”: il tutto sembra avere lo scopo - da alcuni esplicitamente dichiarato - di rendere più complicato per i percettori del sussidio (perché di questo si tratta) lo svolgimento di “lavoretti” sottopagati. Il risultato, al di là dell'ipocrisia delle formulazioni, potrebbe essere di allontanare ancora di più molte persone dal lavoro vero, di favorirne la ghettizzazione definitiva.
Per l'opposizione sociale - quella parlamentare per varie ragioni è troppo screditata per proporsi come punto di riferimento – non è in ogni caso il tempo per la richiesta di ammortizzatori, di provvedimenti tampone, di misure settoriali. Al finto “reddito di cittadinanza”, è necessario contrapporre una risposta organica all'indigenza che riguardi complessivamente la platea degli inoccupati, disoccupati, occupati saltuari e al nero ecc.
Io credo che sia il momento della Cgil: se vuol rappresentare e attualizzare la tradizione di lotta del movimento dei lavoratori, bisogna raccolga la bandiera della Carta Costituzionale, troppo spesso lasciata cadere dalla politica. Il diritto che essa sancisce non è al reddito, ma al lavoro. Quello che bisogna istituire è dunque un “lavoro di cittadinanza” con connesso un salario decente e legato ai bisogni sociali di cui si è detto. È un lavoro che, se ben organizzato, può garantire esperienza e curriculum in vista di ingaggi più impegnativi e remunerati.
È tempo di pensare a un nuovo “Piano del lavoro”, che muova da principi analoghi a quello elaborato una settantina di anni fa per impulso di Fernando Santi e Giuseppe Di Vittorio. Forse in ragione di processi mondiali, purtroppo trasformati in regole dall'Unione Europea, sarà per ora impossibile pensare a quegli “imponibili di manodopera” nel settore privato per cui essi si battevano: dopo la sconfitta del socialismo operaio novecentesco, sia nella variante comunista che in quella laburista e socialdemocratica, il padrone è ridiventato padrone e l'idea che i mezzi di produzione appartengano anche a chi ci lavora è stata messa in soffitta. I padroni oggi assumono e licenziano secondo le loro esigenze di profitto e di potere e sarebbe una fuga in avanti pensare a un ribaltamento improvviso di questa situazione; ma a partire dal “diritto al lavoro” e dal “lavoro di cittadinanza” è possibile un inversione di tendenza.
L'importante è non affidarsi al “federalismo pezzente” che impera. Affidare il “piano” esclusivamente agli Enti territoriali, quasi tutti impoveriti dalla crisi nel centro-sud d'Italia, è costruire una nuova leva di “quasinullafacenti assistiti”. Bisogna partire dalle cose da fare e non dalle persone da sistemare in qualche modo. Bisogna chiamare a raccolta intelligenze e competenze a tutti i livelli, stabilire in un piano complessivo priorità e regole. Se si comincia da subito a proporre e ad organizzare la lotta, senza aspettare le scadenze della politica, si può sperare di modificare gli orientamenti del Parlamento e di ottenere in tempi brevi qualche vittoria.
Quanto ai vincoli europei che qualcuno tirerà fuori, non solo tra i governativi, non so dire se ce ne siano; so, pur non essendo un giurista, che la Costituzione preesiste ai trattati e li invalida “ab origine” nelle parti che eventualmente ne contraddicano il dettato, nonostante l'approvazione del Parlamento. Sull'argomento mi pare ineccepibile la pagina di Calamandrei che ho citato all'inizio e che riprendo come appendice. Verso le istituzioni europee nessuna provocazione o guerra santa alla maniera dei governativi è utile, ma una volta stabiliti – in via di principio – il carattere di attuazione costituzionale del “lavoro di cittadinanza” e del connesso “Piano del lavoro”, una trattativa da parte dell'Italia potrà svolgersi con solide argomentazioni giuridiche, seppure con quel tanto di flessibilità che la situazione debitoria richiede.


APPENDICE

IL PARLAMENTO E LA COSTITUZIONE 
Piero Calamandrei
Piero Calamandrei morì nel settembre del 1956. L'ultima cosa che lasciò scritta era una paginetta sulla Costituzione, cui mancava l'ultima correzione, e che fu pubblicata sul “Ponte”, la rivista che aveva fondato al tempo della Liberazione. Marcello Rossi, che oggi dirige “Il Ponte” e ne è redattore fin dai tempi di Calamandrei, l'ha ripresa nel numero di luglio 2018, sottolineandone la grande attualità. Il punto chiave del ragionare di Calamandrei è che anche il Parlamento nella Costituzione italiana, rigida e programmatica, finché non la modifica secondo le procedure previste dall'articolo 138, è soggetto ad essa ed ha il dovere non solo di rispettarla, ma di attuarla nel processo legislativo. (S.L.L.)

In Francia ogni tanto si sente riaffiorare, di fronte alla instabilità dei governi, l’idea della Repubblica presidenziale come una salvezza: e v’è, non soltanto da destra, chi auspica una riforma costituzionale in tal senso. Da noi viceversa ogni tanto lo spettro della Repubblica presidenziale viene agitato come un pericolo da chi rimane attaccato alla tradizionale onnipotenza del Parlamento, canone della repubblica parlamentare. In realtà, in materia costituzionale più che in ogni altra materia omnis definitio periculosa; quando si è detto che in Italia abbiamo una repubblica parlamentare, non si è detto nulla di preciso: ogni Costituzione è un unicum, e nella cornice delle formule generali, ciò che conta sono le norme specifiche, intese nel proprio clima storico da cui non possono essere avulse.
Indubbiamente la nostra è una Repubblica parlamentare, in cui il capo del governo è distinto dal capo dello Stato, e non può governare senza la fiducia del Parlamento. Ma forse ancora i cittadini italiani, e i partiti, non hanno valutato a pieno che cosa voglia dire, e quali essenziali novità abbia introdotto nei vecchi schemi del sistema parlamentare l’avere una Costituzione, come dicono i costituzionalisti, rigida e programmatica. Rigidezza della Costituzione (cioè immutabilità di essa con leggi ordinarie) vuol dire che è venuta meno la onnipotenza del Parlamento nel legiferare: il Parlamento (a meno che si aduni in Costituente) non è più libero di fare le leggi che crede. Il vecchio detto che il Parlamento può tutto meno che cambiare l’uomo in donna non è più vero: il Parlamento può tutto meno che fare leggi in contrasto colla Costituzione. Questo però significa non solo limitazione del potere legislativo nel fare leggi in contrasto colla Costituzione, ma limitazione anche dei poteri del governo, il quale non può proporre leggi in contrasto colla Costituzione: vi è dunque nell’indirizzo politico del governo una prima limitazione negativa, che gli deriva dai limiti posti dalla Costituzione: il governo non può proporre una legge che neghi la libertà di stampa, la uguaglianza di tutte le opinioni politiche: [stabilendo cosi] una discriminazione di partiti; se la propone, il Parlamento non può approvarla; se l’approva, la legge è inefficace.
Ma altre caratteristiche tipiche derivano dal fatto che la nostra Costituzione è programmatica, cioè contenente un vero e proprio programma di trasformazione sociale della società, i cui capisaldi sono quelli del diritto al lavoro, della effettiva partecipazione dei lavoratori al governo, del diritto al salario. Questo programma è un proposito di riforme: il governo deve seguire l’indirizzo politico che porta a queste riforme. Vi è dunque una doppia serie di vincoli: non può fare contro la Costituzione; deve fare secondo la Costituzione: deve legiferare e governare.
A garanzia di queste limitazioni ci sono due organi: la Corte costituzionale, che ha il potere di annullare le leggi contrarie; il presidente che ha il potere di garantire la continuità costituzionale: in tre modi: rifiutandosi di firmare i progetti di legge, rimandando le leggi contrarie, rifiutandosi di promulgarle. Ha inoltre il potere positivo di ricordare ai governi l’indirizzo programmatico: e di sciogliere le Camere se il governo si allontanasse da questo programma. Non è irresponsabile come il re: è responsabile per attentati alla Costituzione. Per questo deve vigilare a che l’indirizzo politico del governo non sia contrario alla Costituzione.
Questa è la nostra Costituzione: la quale non è la traduzione in lingua repubblicana dello Statuto albertino, dove il re regna ma non governa. Il re era un potere diverso: ma il presidente della repubblica emana dal popolo: e quindi è lui il rappresentante di questo potere del popolo di ricordare agli altri organi l’impegno preso dal popolo nella Costituzione.
In questo congegno vi è una garanzia giuridica di continuità di direttive politiche che non vi è in altre costituzioni: un governo che volesse sottrarsi al programma di riforme sociali andrebbe contro la Costituzione, che è garanzia non solo che non si tornerà indietro, ma si anderà avanti. Chi si vuol fermare è contrario alla Costituzione.
Questo può dispiacere a qualcuno che vorrebbe restar fermo. Ma questa è la Costituzione: hoc iure utimur. Questo è il programma su cui i partiti democratici possono trovarsi d’accordo: questo è lo [spirito?] secondo il quale la speranza che animò i caduti della Resistenza si è tradotta in dovere politico.
 

 


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