Per un “Lavoro di cittadinanza”, secondo Costituzione.
In appendice uno scritto di Piero Calamandrei.
Salvatore Lo Leggio
Leggo Calamandrei, la
paginetta manoscritta e non corretta che "Il Ponte"
pubblicò alla sua morte e che la rivista da lui fondata ripubblica
oggi, più di sessant'anni dopo.
"La nostra
Costituzione è programmatica cioè contenente un vero e proprio
programma di trasformazione sociale della società, i cui capisaldi
sono quelli del diritto al lavoro, della effettiva partecipazione dei
lavoratori al governo, del diritto al salario".
Non è previsto un
diritto al reddito a prescindere dal lavoro; anzi il lavoro, inteso
come attività utile, nell'art.4 è indicato come un dovere per
tutti, perfino per i percettori di rendite.
Dicono i “realisti”
che sono chiacchiere perché il lavoro non c'è e non si può
inventare.
È davvero così?
Non mi pare.
È sotto gli occhi di
tutti, per esempio, il degrado generalizzato nel centro-sud della
viabilità urbana e rurale. Coprire le buche in un paese come
l'Italia, percorso da monti e colline, è attività che non richiede
macchinari avanzati e materiali costosi, ma tanto lavoro umano. Lo
stesso ragionamento vale per tanti altri aspetti della manutenzione
del territorio: penso a piccole frane, ai rischi di alluvione,
all'incuria che circonda spesso i beni paesistici e culturali, alla
messa in sicurezza di scuole ed edifici pubblici. Sono problemi che
spesso non richiedono grandi opere, ma tanti piccoli interventi nei
quali la componente lavoro è l'elemento più importante.
Insieme alla cura del
territorio in tutti i suoi aspetti appare molto carente la cura delle
persone. In una società che si è invecchiata anche per effetto del
positivo allungarsi della vita, sono tanti gli anziani in sofferenza
perché non possono permettere badanti, oppure perché di badanti a
tempo pieno non hanno bisogno, ma necessitano di forme di assistenza
sociale e sanitaria periodica e mirata, non esclusivamente affidata
al volontariato. E, per di più, c'è un sistema sanitario che non
solo con i vecchi ma con tutti quelli che hanno bisogno di cure,
sembra passato dal tempo degli sprechi a quello della micragna. Forse
nell'organizzazione sanitaria basta e avanza il personale dirigente e
impiegatizio che c'è ed è sufficiente il personale medico, ma
chiunque abbia esperienza di ospedali e altre strutture del
Mezzogiorno (e non solo) sa che infermieri e operatori mancano
strutturalmente e che è una favola insensata quella che racconta,
oggi, di personale nullafacente in questi ruoli. Anche per le scuole
mi dicono di locali fatiscenti, di classi affollatissime e di carenze
di insegnanti dovute ai tagli dell'ultimo ventennio.
Di lavoro socialmente
necessario (non solo utile) in verità ce n'è tantissimo. Anche
troppo.
Perché allora si dice
che in Italia non c'è lavoro?
Perché le politiche e i
dogmi del nuovo liberismo considerano lavoro solo quello che produce
merci o servizi mercificati, solo il lavoro al servizio di un
capitale che ne trae profitto. Le attività di cui parlavamo non sono
– al momento – mercificate e non sono tutte in tempi brevi
mercificabili; pertanto non “rendono”, non sono – per
l'ideologia dominante – vero lavoro.
Pare che il “reddito di
cittadinanza” di cui si parla non sia davvero tale, non sia cioè
un reddito minimo garantito ad ogni cittadino maggiorenne, a
prescindere dalla sua condizione lavorativa, dalla sua età, dal suo
reddito. L'idea originaria era di una misura universale, diretta a
ricchi e a poveri, a giovani e vecchi, a chi lavora e a chi non
lavora, anche a chi non lavora perché non ne ha voglia o bisogno, di
un intervento sociale sostitutivo di tutti gli altri interventi sul
reddito (indennità di inoccupazione o disoccupazione, pensione
sociale, integrazione pubblica alle pensioni contributive ecc.).
Dicevano i suoi fautori che non avrebbe tolto l'interesse a lavorare
o ad intraprendere, visto che il reddito garantito avrebbe assicurato
soltanto il minimo per una dignitosa sopravvivenza e verrebbe mantenuto anche per gli occupati. Legavano la
proposta alle strabilianti innovazioni tecnologiche, alla cosiddetta
“fine del lavoro” del celebrato libro di Rifkin. Così concepito
il reddito di cittadinanza che nell'Italia di oggi non ha alcuna
possibilità di attuazione, dato il livello di indebitamento e data
la tendenza prevalente nel ceto politico (che non è solo degli
attuali governanti) a salvaguardare i grandi patrimoni, le rendite
finanziarie e i redditi più alti. La concreta attuazione che il
governo in carica sembra voler dare alla cosa è tutt'altro, in
pratica un allargamento del reddito di inclusione, della cassa
integrazione e dell'indennità di disoccupazione già in vigore; ed è
per di più condizionato ad obblighi e restrizioni vessatori e
autoritari e comunque collegato alla volontà di impegnarsi in un
lavoro retribuito. Leggo di corsi formazione (quasi) obbligatori, di
alcune ore settimanali da dedicare a non meglio precisati “lavori
socialmente utili”: il tutto sembra avere lo scopo - da alcuni
esplicitamente dichiarato - di rendere più complicato per i
percettori del sussidio (perché di questo si tratta) lo svolgimento
di “lavoretti” sottopagati. Il risultato, al di là
dell'ipocrisia delle formulazioni, potrebbe essere di allontanare
ancora di più molte persone dal lavoro vero, di favorirne la
ghettizzazione definitiva.
Per l'opposizione sociale
- quella parlamentare per varie ragioni è troppo screditata per
proporsi come punto di riferimento – non è in ogni caso il tempo
per la richiesta di ammortizzatori, di provvedimenti tampone, di
misure settoriali. Al finto “reddito di cittadinanza”, è
necessario contrapporre una risposta organica all'indigenza che
riguardi complessivamente la platea degli inoccupati, disoccupati,
occupati saltuari e al nero ecc.
Io credo che sia il
momento della Cgil: se vuol rappresentare e attualizzare la
tradizione di lotta del movimento dei lavoratori, bisogna raccolga la
bandiera della Carta Costituzionale, troppo spesso lasciata cadere
dalla politica. Il diritto che essa sancisce non è al reddito, ma al
lavoro. Quello che bisogna istituire è dunque un “lavoro di
cittadinanza” con connesso un salario decente e legato ai bisogni
sociali di cui si è detto. È un lavoro che, se ben organizzato, può
garantire esperienza e curriculum in vista di ingaggi più
impegnativi e remunerati.
È tempo di pensare a un
nuovo “Piano del lavoro”, che muova da principi analoghi a quello
elaborato una settantina di anni fa per impulso di Fernando Santi e
Giuseppe Di Vittorio. Forse in ragione di processi mondiali,
purtroppo trasformati in regole dall'Unione Europea, sarà per ora
impossibile pensare a quegli “imponibili di manodopera” nel
settore privato per cui essi si battevano: dopo la sconfitta del
socialismo operaio novecentesco, sia nella variante comunista che in
quella laburista e socialdemocratica, il padrone è ridiventato
padrone e l'idea che i mezzi di produzione appartengano anche a chi
ci lavora è stata messa in soffitta. I padroni oggi assumono e
licenziano secondo le loro esigenze di profitto e di potere e sarebbe
una fuga in avanti pensare a un ribaltamento improvviso di questa
situazione; ma a partire dal “diritto al lavoro” e dal “lavoro
di cittadinanza” è possibile un inversione di tendenza.
L'importante è non
affidarsi al “federalismo pezzente” che impera. Affidare il
“piano” esclusivamente agli Enti territoriali, quasi tutti
impoveriti dalla crisi nel centro-sud d'Italia, è costruire una
nuova leva di “quasinullafacenti assistiti”. Bisogna partire
dalle cose da fare e non dalle persone da sistemare in qualche modo.
Bisogna chiamare a raccolta intelligenze e competenze a tutti i
livelli, stabilire in un piano complessivo priorità e regole. Se si
comincia da subito a proporre e ad organizzare la lotta, senza
aspettare le scadenze della politica, si può sperare di modificare
gli orientamenti del Parlamento e di ottenere in tempi brevi qualche
vittoria.
Quanto ai vincoli europei
che qualcuno tirerà fuori, non solo tra i governativi, non so dire
se ce ne siano; so, pur non essendo un giurista, che la Costituzione
preesiste ai trattati e li invalida “ab origine” nelle parti che
eventualmente ne contraddicano il dettato, nonostante l'approvazione
del Parlamento. Sull'argomento mi pare ineccepibile la pagina di
Calamandrei che ho citato all'inizio e che riprendo come appendice.
Verso le istituzioni europee nessuna provocazione o guerra santa alla
maniera dei governativi è utile, ma una volta stabiliti – in via
di principio – il carattere di attuazione costituzionale del
“lavoro di cittadinanza” e del connesso “Piano del lavoro”,
una trattativa da parte dell'Italia potrà svolgersi con solide
argomentazioni giuridiche, seppure con quel tanto di flessibilità
che la situazione debitoria richiede.
APPENDICE
IL PARLAMENTO E LA COSTITUZIONE
Piero Calamandrei
Piero Calamandrei morì
nel settembre del 1956. L'ultima cosa che lasciò scritta era una
paginetta sulla Costituzione, cui mancava l'ultima correzione, e che
fu pubblicata sul “Ponte”, la rivista che aveva fondato al tempo
della Liberazione. Marcello Rossi, che oggi dirige “Il Ponte” e
ne è redattore fin dai tempi di Calamandrei, l'ha ripresa nel numero
di luglio 2018, sottolineandone la grande attualità. Il punto chiave
del ragionare di Calamandrei è che anche il Parlamento nella
Costituzione italiana, rigida e programmatica,
finché non la modifica secondo le procedure previste
dall'articolo 138, è soggetto ad essa ed ha il dovere non solo di
rispettarla, ma di attuarla nel processo legislativo. (S.L.L.)
In Francia ogni tanto si
sente riaffiorare, di fronte alla instabilità dei governi, l’idea
della Repubblica presidenziale come una salvezza: e v’è, non
soltanto da destra, chi auspica una riforma costituzionale in tal
senso. Da noi viceversa ogni tanto lo spettro della Repubblica
presidenziale viene agitato come un pericolo da chi rimane attaccato
alla tradizionale onnipotenza del Parlamento, canone della repubblica
parlamentare. In realtà, in materia costituzionale più che in ogni
altra materia omnis definitio periculosa;
quando si è detto che in Italia abbiamo una repubblica parlamentare,
non si è detto nulla di preciso: ogni Costituzione è un unicum,
e nella cornice delle formule generali, ciò che conta sono le norme
specifiche, intese nel proprio clima storico da cui non possono
essere avulse.
Indubbiamente la nostra è
una Repubblica parlamentare, in cui il capo del governo è distinto
dal capo dello Stato, e non può governare senza la fiducia del
Parlamento. Ma forse ancora i cittadini italiani, e i partiti, non
hanno valutato a pieno che cosa voglia dire, e quali essenziali
novità abbia introdotto nei vecchi schemi del sistema parlamentare
l’avere una Costituzione, come dicono i costituzionalisti, rigida
e programmatica. Rigidezza della Costituzione (cioè immutabilità
di essa con leggi ordinarie) vuol dire che è venuta meno la
onnipotenza del Parlamento nel legiferare: il Parlamento (a meno che
si aduni in Costituente) non è più libero di fare le leggi che
crede. Il vecchio detto che il Parlamento può tutto meno che
cambiare l’uomo in donna non è più vero: il Parlamento può tutto
meno che fare leggi in contrasto colla Costituzione. Questo però
significa non solo limitazione del potere legislativo nel fare leggi
in contrasto colla Costituzione, ma limitazione anche dei poteri del
governo, il quale non può proporre leggi in contrasto colla
Costituzione: vi è dunque nell’indirizzo politico del governo una
prima limitazione negativa, che gli deriva dai limiti posti dalla
Costituzione: il governo non può proporre una legge che neghi la
libertà di stampa, la uguaglianza di tutte le opinioni politiche:
[stabilendo cosi] una discriminazione di partiti; se la propone, il
Parlamento non può approvarla; se l’approva, la legge è
inefficace.
Ma altre caratteristiche
tipiche derivano dal fatto che la nostra Costituzione è
programmatica, cioè contenente un vero e proprio programma di
trasformazione sociale della società, i cui capisaldi sono quelli
del diritto al lavoro, della effettiva partecipazione dei lavoratori
al governo, del diritto al salario. Questo programma è un proposito
di riforme: il governo deve seguire l’indirizzo politico che porta
a queste riforme. Vi è dunque una doppia serie di vincoli: non può
fare contro la Costituzione; deve fare secondo la Costituzione: deve
legiferare e governare.
A garanzia di queste
limitazioni ci sono due organi: la Corte costituzionale, che ha il
potere di annullare le leggi contrarie; il presidente che ha il
potere di garantire la continuità costituzionale: in tre modi:
rifiutandosi di firmare i progetti di legge, rimandando le leggi
contrarie, rifiutandosi di promulgarle. Ha inoltre il potere positivo
di ricordare ai governi l’indirizzo programmatico: e di sciogliere
le Camere se il governo si allontanasse da questo programma. Non è
irresponsabile come il re: è responsabile per attentati alla
Costituzione. Per questo deve vigilare a che l’indirizzo politico
del governo non sia contrario alla Costituzione.
Questa è la nostra
Costituzione: la quale non è la traduzione in lingua repubblicana
dello Statuto albertino, dove il re regna ma non governa. Il re era
un potere diverso: ma il presidente della repubblica emana dal
popolo: e quindi è lui il rappresentante di questo potere del popolo
di ricordare agli altri organi l’impegno preso dal popolo nella
Costituzione.
In questo congegno vi è
una garanzia giuridica di continuità di direttive politiche che non
vi è in altre costituzioni: un governo che volesse sottrarsi al
programma di riforme sociali andrebbe contro la Costituzione, che è
garanzia non solo che non si tornerà indietro, ma si anderà avanti.
Chi si vuol fermare è contrario alla Costituzione.
Questo può dispiacere a
qualcuno che vorrebbe restar fermo. Ma questa è la Costituzione: hoc
iure utimur. Questo è il programma su cui i partiti democratici
possono trovarsi d’accordo: questo è lo [spirito?] secondo il
quale la speranza che animò i caduti della Resistenza si è tradotta
in dovere politico.
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