22 ottobre 2018

L'UTOPIA PERDUTA DI T. CAMPANELLA






       A 450 anni dalla nascita due libri ripercorrono il percorso umano e intellettuale di Fra Tommaso Campanella, il domenicano prigioniero per trent'anni dell'Inquisizione per le sue idee non ortodosse su cosmo, chiesa e società.


Gregorio De Paola

La misura del Sole contro tirannide, sofismi e ipocrisia

Il 5 settembre 1568 a Stilo, un piccolo paese della Calabria ultra, da Geronimo Campanella, ciabattino analfabeta e Catarinella Martello, nasceva Giovan Domenico, che più tardi, indossato il saio dei domenicani, prenderà il nome di Tommaso. Ricorrono dunque i 450 anni dalla nascita di uno dei «massimi pensatori del tardo Rinascimento» – per dirla con Eugenio Garin – noto soprattutto per un’operetta, capolavoro della letteratura utopistica, destinata (ma solo in tempi relativamente recenti, vale a dire dalla metà dell’Ottocento e sempre di più nel Novecento) a un grande successo, La Città del Sole.
 
 

Molto meno nota è invece la straordinaria ricchezza, nonché la complessità della sua figura e del suo pensiero, che emerge invece nitidamente da un recente saggio di Luca Addante dal titolo Tommaso Campanella. Il filosofo immaginato, interpretato, falsato (Laterza, pp. 256, euro 25).

Ateo o zelante sostenitore dell’ortodossia cattolica, ribelle o fautore della monarchia spagnola o francese, dai suoi scritti sembra poter attingere argomenti per sostenere le posizioni più disparate. Nicola Badaloni, a proposito di Campanella, aveva parlato di magma, in cui convivono «la figura dell’astrologo, del profeta, dell’utopista, del realista politico», che ci restituisce un «caleidoscopio di immagini difficili da ricomporre a unità».

Del resto, a spiegare le ragioni profonde della difficoltà di dare di Campanella una lettura univoca, basta ricordare le drammatiche circostanze in cui furono composte le quasi 30mila pagine dei suoi scritti, tra processi e carcere (dove Campanella trascorse oltre 30 dei suoi 70 anni), sotto il controllo occhiuto e feroce di inquisitori e carcerieri, in un periodo in cui l’arte della dissimulazione era indispensabile alla sopravvivenza di chi osava pensare con la propria testa, nonché i mille ostacoli alla loro circolazione, ostacoli che in molti casi durano tuttora.

Il volumetto che al giovane Campanella dedica Piero Bevilacqua dal titolo Il Sole di Tommaso (Castelvecchi, pp. 76, euro 12) è un dramma storico che tiene presente tutto questo eppure, con un’operazione coraggiosa, sceglie di semplificare la complessità della materia, dandoci un Campanella tanto plasticamente costruito su solide basi storiche e documentali (i testi di Amabile e l’opera poetica, in particolare) quanto capace cogliere il senso profondo della sua ricerca e di restituircene insieme l’attualità: «Come è possibile, come può succedere su questa Terra che così pochi uomini si siano impadroniti della vita di tutti?» si chiede Campanella nel lungo soliloquio conclusivo del V atto, ormai sconfitto e in carcere dopo la scoperta della congiura del 1599 per liberare la Calabria dal giogo spagnolo, e sopravvissuto eroicamente alla tortura al prezzo di fingersi folle, pur consapevole che «il viver sporca chi per viver finge».

Non inganni quindi il titolo del lavoro di Bevilacqua: non siamo di fronte all’ennesima riproposizione del Campanella utopistico, decontestualizzato dalle terribili circostanze della composizione e dal resto della sua opera.

Se il sole rimanda all’opera più nota di C., e quindi al sogno di una società non più lacerata dalle ingiustizie e dalla violenza, il dramma intende ricostruirne semmai l’altra faccia, grandiosa e tragica. Grandiosa per l’ampiezza del progetto: nei 5 atti che compongono il dramma (Nicastro 1585 e 1588, Napoli 1589 e 1591, Roccella Jonica 1599, di nuovo Napoli aprile e ottobre del 1599) assistiamo partecipi al progressivo ampliarsi dell’orizzonte di Campanella: lo sdegno per le odiose sopraffazioni degli umili (come quelle della vecchietta che fatica a procurarsi la legna indispensabile o l’umiliazione del contadino cui il barone del luogo insidia la moglie e la figlia, del I atto – scene che riportano significativamente al giovane Marx e a Manzoni), si dilata a critica radicale della Chiesa, della nobiltà, del dominio spagnolo, della filosofia scolastica, dell’aristotelismo («pensiero unico» di quell’epoca) e appassionata difesa e progettazione, giustificata anche sulla base di calcoli astrologici e profezie, di un nuovo ordine intellettuale e politico: «I contadini sono più filosofi degli aristotelici. Osservano la natura delle cose, la terra e le piante, l’acqua e il vento, con gli occhi e con le mani, non ripetono le formule dei libri».

Decisivo l'incontro con la lezione di Telesio, l’intuizione di trovarsi davanti a un passaggio epocale in cui è essenziale la libertà di pensiero, convinzione che porterà Campanella a farsi coraggioso difensore di Galilei. Tragica per l’esito: il tentativo rivoluzionario, come è noto, sarà stroncato sul nascere, e Campanella condannato al carcere a vita, da cui uscirà solo nel 1626.

Ad alimentare una volontà indomita restava però la convinzione di avere ancora come intellettuale una missione da compiere: «Io nacqui a debellar tre mali estremi/ tirannide, sofismi, ipocrisia», a «diveller l’ignoranza» di quel popolo che ignora la sua stessa forza: «il popolo è una bestia varia e grossa/ ch’ignora le sue forze; e perciò stassi/ a pesi e botte di legni e di sassi/ guidato da un fanciul che non ha possa».

il manifesto – 6 settembre 2018

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