31 ottobre 2018

L' ULTIMO VERLAINE



La miseria nera dell’ultimo Verlaine

Come molti grandi autori, Paul Verlaine è rimasto prigioniero, nella percezione pubblica, dei cliché da lui stesso creati.
Difficile leggere i suoi versi in maniera criticamente neutra, affrancati dai vincoli del mito de I poeti maledetti; com’è ben noto, una formula inventata proprio dal poeta francese nel suo omonimo saggio antologico del 1884, in cui includeva le migliori opere di Corbière, Rimbaud, Mallarmé e, in una successiva versione, anche di Desbordes-Valmore, Villiers de l’Isle-Adam e di sé stesso, sotto lo pseudonimo, anagramma del suo nome, di Pauvre Lelian.
Difficile non sovrapporre alla lettura i fieri proclami dei Parnassiani, le istantanee delle ubriacature d’assenzio al Café Procope, le leggendarie scorribande vagabonde col giovane Rimbaud, i loro ritratti idealizzanti nel quadro di Henri Fantin-Latour, lo sparo al polso dell’amante irrequieto, la drammatica separazione, la condanna per sodomia e la successiva dolente conversione al cattolicesimo, la ricaduta nell’alcol e la solitudine che emerge nelle sue finali cronache ospedaliere.
E proprio queste pagine finali, pervase da uno spirito più che mai saturnino (come nella sua celebre raccolta poetica, Poèmes saturniens), che si può scoprire un Verlaine diverso, spiazzante, non vorremmo dire definitivo, ma per molti aspetti, pur se coerente con la sua costante ispirazione, inedito.
Sicuramente, inedito per il pubblico italiano: Miseria Nera (Edizioni della Sera) offre finalmente la possibilità di leggere nella nostra lingua (nella traduzione e di Michela Landi, autrice anche della preziosa introduzione) Mes hôpitaux (1891) e Quinze jours en Hollande (1893): il primo è resoconto della sua travagliata fase di ricovero presso l’ospedale Broussais e in seguito presso Vincennes (Saint Maurice) e Tenon; il secondo racconta il ritorno, in visita ad alcuni amici, nella città di Mons, dove era stato incarcerato vent’anni prima dopo la fine della scandalosa relazione con Rimbaud.
Come scrive Michela Landi, in più punti della sua introduzione: “Il ricovero è, per Verlaine, una zona franca del male di esistere: esso rappresenta, al contempo, un riparo e una riparazione. Camera di compensazione per gli errori del corpo e dello spirito, questo luogo purgatoriale è luogo di anamnesi e purificazione, dove si stempera ogni dialettica e dove vige la sola logica felicemente irresponsabile del sogno, o dell’inconscio…(…) Il ricovero può dunque essere eletto a metafora del pensiero di Verlaine come anche del fin-de-siècle tutto: sollevandoci dall’esercizio delle funzioni che è proprio della vita attiva – ed a fortiori in un paese che ha fatto della responsabilità civile la sua insegna – esso, meritevole prodotto di quella stessa responsabilità, ci esenta dall’angoscia della scelta e ci trattiene, per riprendere la prosa dei Souvenirs, «lontano dal mondo e dalla preoccupazione di essere o di apparire» (…) Il ricovero, luogo neutro di pura transizione ma anche luogo di riparazione e espiazione del male storico e metafisico è, allora, tanto limbo che accoglie color che son sospesi, quanto purgatorio dove si emenda e si ravvede colui che ha disobbedito alla Legge umana e divina.
In preda alla buona e giusta malattia che esemplarmente incarna e quasi cristicamente espia, Verlaine fa del ricovero il luogo ideale della sua scrittura, e scrive aletto, delirando: intendendosi propriamente, con questo ultimo verbo, certa salvifica aberrazione di pensiero e di parola spesso frettolosamente consegnata ai margini del codice linguistico: invenzione o fantasia, capriccio o vagheggiamento, seguendo il flusso associativo dei ricordi o delle impressioni”.
In questo contesto paradossalmente ideale per la sua ispirazione, nella pur triste condizione, lo stile di Verlaine si accende proprio nella mestizia, si tende nervosamente nell’inazione, si esalta nella depressione: è straordinario vedere come il raffinatissimo poeta decadente, ammiratore di Baudelaire, autore di versi di elegante suggestione orientale, anticipi la prosa vulcanica e oltraggiosa di Céline (come nei suoi sonetti osceni si ritrovavano antichi echi di Villon) e, a tratti, addirittura i deliri illuminanti dell’ultimo Artaud.
Non stiamo affrontando le opere più riuscite di Verlaine, ma queste versioni inedite destano un profondo interesse, proprio per la luce nuova che gettano, a posteriori, sull’opera di una delle figure più carismatiche della letteratura europea dell’800.
Come scrisse con grande equilibrio Anatole France (fautore del più severo classicismo e non certo gentile con i Parnassiani) in una recensione poi raccolta nella Vie littéraire: “Ho detto sopra che Paul Verlaine è un cinico; avrei potuto dire: è un mistico. Non c’è molta differenza tra le due cose. La somiglianza tra filosofi quali Antistene o Diogene e i frati mendicanti dell’Italia cristiana è tale che ha colpito anche coloro che non volevano riconoscerla. Cinico e mistico, Paul Verlaine è tra coloro per i quali il regno non è di questo mondo; appartiene alla grande famiglia degli amanti della povertà. San Francesco lo avrebbe riconosciuto di certo come uno dei suoi figli spirituali, e forse avrebbe fatto di lui il suo discepolo prediletto. E chissà se Paul Verlaine, sotto il saio, non sarebbe diventato un gran santo, come è diventato per noi un gran poeta […]. Vizioso e candido, è sempre veritiero; nell’inimitabile accento della verità è il fascino di questo libriccino, Mes hôpitaux, scritto in una sintassi assurda e ridicola, con una musica meravigliosa, che strazia il cuore”.


articolo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/

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