Memoria dell’oggi: Alexander Langer
“E’ una società di persone sole, di consumatori bulimici, di spettatori assuefatti, dagli orizzonti corti e frammentati”.
“In una società dove tutto è diventato
merce, e dove chi ha soldi può comperare e stare meglio, occorre la
riabilitazione del «gratuito», di ciò che si può usare ma non
comperare”. (da Non per il potere, Chiarelettere Editore, Milano, 2016)
E così Fabrizia Ramondino ricorda Alexander Langer nel libro L’isola riflessa (Einaudi, Torino, 1998):
“All’alba, nell’isola deserta, mi aggiro a
lungo alla ricerca dell’albero al quale si è impiccato Alexander
Langer. Anche le mie amiche, che condividono in questi giorni la mia
casa, hanno provato dolore, e la nostra è stata una cena di lutto. Tutte
e tre abbiamo perso compagni di vita e di lotta a noi più vicini di
Alexander; per una sorta di pudore abbiamo taciuto, ché il nostro comune
compianto per Alexander ci ha avvicinate al destino dei nostri amici
nel regno dei morti.
Mentre loro all’alba sono assopite, più saggiamente di me, io cerco quell’albero.
L’isola è deserta – io stessa lo sono.
Un deserto diverso da quello in cui varie ore prima gli isolani, i turisti, hanno letto fra le varie notizie di cronaca sul giornale quel fatto. Perché per loro Alexander Langer non è stato nessuno, un tale di cui si legge. Per loro ha predicato invano nel deserto. Non così per noi.
Cerco un melo, un arancio, un melograno – alberi ai cui frutti l’umanità, felice o dolente, è sempre ricorsa per simboleggiare il proprio destino. Per fortuna sull’isola non ci sono nemmeno alberi di Giuda né alberi, fruttuosi o infruttuosi, di fico.
Ho misurato anche in diversi alberi altezza e consistenza dei rami.
Finché, seduta di fronte al mare, nemmeno solcato in quest’alba da alberi di nave, penso un pensiero banale: si è impiccato all’albero della vita e della morte. E ricordo le mie ultime letture, Il principio speranza di Ernst Bloch: che quando si muore, muore in noi soltanto quanto non è stato utopia.
Agli altri che verranno Alexander ha affidato il suo piccolo bagaglio di utopia: racchiuso forse soltanto in un piccolo zaino, nella tasca di una giacca a vento, in una scatoletta di severi e sobri appunti, come è sempre stato nel suo stile di abbigliamento e di vita. Tutto depositato ai piedi del suo albero”.
Mentre loro all’alba sono assopite, più saggiamente di me, io cerco quell’albero.
L’isola è deserta – io stessa lo sono.
Un deserto diverso da quello in cui varie ore prima gli isolani, i turisti, hanno letto fra le varie notizie di cronaca sul giornale quel fatto. Perché per loro Alexander Langer non è stato nessuno, un tale di cui si legge. Per loro ha predicato invano nel deserto. Non così per noi.
Cerco un melo, un arancio, un melograno – alberi ai cui frutti l’umanità, felice o dolente, è sempre ricorsa per simboleggiare il proprio destino. Per fortuna sull’isola non ci sono nemmeno alberi di Giuda né alberi, fruttuosi o infruttuosi, di fico.
Ho misurato anche in diversi alberi altezza e consistenza dei rami.
Finché, seduta di fronte al mare, nemmeno solcato in quest’alba da alberi di nave, penso un pensiero banale: si è impiccato all’albero della vita e della morte. E ricordo le mie ultime letture, Il principio speranza di Ernst Bloch: che quando si muore, muore in noi soltanto quanto non è stato utopia.
Agli altri che verranno Alexander ha affidato il suo piccolo bagaglio di utopia: racchiuso forse soltanto in un piccolo zaino, nella tasca di una giacca a vento, in una scatoletta di severi e sobri appunti, come è sempre stato nel suo stile di abbigliamento e di vita. Tutto depositato ai piedi del suo albero”.
Qui il “link” al sito della Fondazione Alexander Langer.
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