07 ottobre 2018

SCIAMANI DI IERI E D'OGGI



"Tutto ciò che esiste vive, il piccolo uccello grigio dal piccolo petto azzurro canta nella cavità di un ramo canta la Danza dei suoi spiriti canta i suoi Canti Sciamanici, il picchio sull’albero batte il tamburo con il suo becco aguzzo e l’albero trema geme come un tamburo quando la scure colpisce il suo fianco, tutte queste cose rispondono al mio richiamo. Tutto ciò che esiste vive.” 
(Canto sciamanico).

Antonio Gnoli

La donna che rubò i segreti agli sciamani

Ci fu un tempo in cui la vita sociale – nel suo aspetto religioso e protettivo – era regolata da una sorta di patto sciamanico. La figura che ne garantiva l’esercizio, cioè lo sciamano, conteneva in sé qualcosa di bizzarro. Poteva comportarsi in modo strano: urlare, danzare o rivolgersi al cielo e alla terra con una lingua incomprensibile o magari segreta e prossima a quella degli animali.
A volte percuoteva uno strumento – in molti casi un tamburo – il cui suono non aveva nulla di frivolo, ma favoriva l’estasi, consentendogli perfino di volare.

Nel suo costume pittoresco, lo sciamano era considerato il solo autentico contatto tra il visibile e l’invisibile; tra il rito e il sacrificio; tra la vita e la morte; tra l’animale e l’uomo. Non c’è civiltà ai suoi albori che non abbia goduto dei suoi poteri. Lo sciamano era un eletto. La sua iniziazione poteva essere un dono del cielo o trasmessa da un altro sciamano.

Perfino certe patologie – il grande viaggiatore Karl Rasmussen parlò, a proposito della labilità nervosa degli eschimesi, di «isteria artica» – contribuivano ad accrescerne la forza. Ma nel concreto quale era la sua funzione? Un libro di sorprendente bellezza, precisione e sapere, ora ne narra l’avventura.

Éveline Lot-Falck ha dedicato larga parte della sua vita di etnologa e studiosa di religioni euroasiatiche al mondo degli sciamani. La storia di questa donna straordinaria è tratteggiata da Claudio Rugafiori nella postfazione a I riti di caccia dei popoli siberiani (ed. Adelphi). Figlia di padre francese e di madre russa, vissuta a Parigi, dove a lungo ha insegnato alla École pratique des hautes études, scomparsa nel 1974, Lot-Falck ha ricostruito e svelato la fittissima trama sciamanica che, come una seconda pelle, ha rivestito il mondo siberiano.

Un paio d’anni fa Roberto Calasso ne Il Cacciatore celeste esplorò con grande suggestione quel pantheon antropologico dove uomini e déi potevano combattersi ma altresì fondersi. Nel raccontare il Paese del freddo, la Terra dell’oscurità, dove la Tundra e la Taiga offrivano allo sguardo del cacciatore la medesima monotonia di paesaggio, Lot-Falck aprì la sua mente a quei mondi estremi e inospitali nei quali era arduo ma altresì fondamentale poter decifrare il rapporto dell’uomo con gli animali.

Quel nesso si rafforzava sotto il segno dell’imitazione e della metamorfosi. Sicché qualunque cosa, perfino una pietra, era animata. Questo pensava Lot-Falk convinta che orsi, trichechi, pesci, cervi, balene prima ancora di essere animali erano spiriti in grado di proteggere o tormentare, a seconda del modo in cui il cacciatore si disponeva davanti alla "preda". Per ucciderlo l’animale doveva dare il suo assenso, rendersi complice della sua uccisione. Sicché l’orso andava dal cacciatore quando era giunta la sua ora. Un detto siberiano recita che se la renna non ama il cacciatore, costui non sarà in grado di ucciderla.
Una tale partecipazione alla propria morte è inconcepibile solo per chi, come noi, è del tutto estraneo alla struttura segreta del cosmo, alla sua ineffabile e fluida armonia in cui gli spiriti-signori (quelli animali) sono per così dire i guardiani. Qual era dunque il ruolo che vi svolgeva lo sciamano? All’inizio delle stagioni di caccia o in caso di carestia toccava a lui visitare i signori, i guardiani, gli spiriti sotterranei per ottenere la promessa di una selvaggina abbondante. La sua intermediazione tra il mondo terrestre e quello degli spiriti garantiva la difesa del benessere del suo popolo.

Non sempre, tuttavia, lo sciamano contrastava le forze ostili. Nel suo potere si nascondeva il limite di una arroganza capricciosa, di una competizione violenta che lo spingeva a duellare con altri sciamani. Il violento antagonismo trasformava i signori della foresta, dell’acqua e del focolare in avversari che non avrebbero mai deposto le armi. Un mondo tutt’altro che pacificato sembrò dunque camminare con quelle popolazioni di cacciatori pescatori e pastori nomadi che dai ghiacci artici, dalle foreste siberiane, dalle steppe euroasiatiche si spostarono lentamente verso Occidente.

Si è molto discusso dell’influenza che la mitologia caucasica ed euroasiatica ha avuto sulla Grecia antica; è un fatto che alcune divinità e certe fisionomie sciamaniche si rincorrano nel tempo e nello spazio.

Ci ricorda Carlo Ginzburg nel suo bellissimo Storia notturna che nel santuario di Brauron Artemide, signora degli animali, era venerata da fanciulle vestite da orse. Il culto estatico di tipo sciamanico che ritroviamo in molti luoghi della Grecia antica deriva dalle divinità euroasiatiche protettrici della caccia e della foresta. Ma la caccia nella mente divina di Artemide non ebbe più nessuna vitale utilità. Si ridusse soltanto a un gioco. Fu così che per la prima volta venne scoperta la gratuità della violenza.

"Sciamanico" è oggi diventato un aggettivo di pronto impiego. Qualunque reazione quella parola susciti sembra prevalere la destituzione del senso, ha perso la sua pregnanza sociale e religiosa. Somiglia al rombo di una metropolitana che si allontana. C’è il mondo sotterraneo, c’è il rumore inquietante e c’è il buio della galleria. Ma è un viaggio senza iniziazione, senza enigmi da sciogliere o demoni da affrontare. Solo stazioni da cui scendere o salire.

La Repubblica – 27 settembre 2018

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