Caro Pier Paolo,
dopo quarant’anni posso dirti finalmente cosa mi indusse, circa dieci
anni dopo la tua morte violenta (la violenza pura, sadica, ritualizzata
del branco anonimo e sicuro della sua impunità, scatenata su chi dava
solo “scandalo di mitezza”, e per questo ancora più assurda), ad
incontrarti e a non staccarmi più da te. A divorare, in quell’estate di
trent’anni fa, l’insuperabile biografia scritta da Enzo Siciliano, che
ti rincorre con amorevole empatia in tutte le tue inquietudini e
palpitazioni creative, a lasciarmi rapire dalle sonorità delle
Ceneri di Gramsci, a passare ai tuoi film e al tuo teatro, aulico ed “estremo”, come poi sarà, inguardabilmente, anche
Salò.
Momenti scanditi nella mia memoria, perché ogni volta era come scoprire
il genere stesso della poesia, del cinema, del teatro, di cui il tuo
nome diventava inconsciamente per me una metonimia indelebile. Ora, lo
posso dire. A causa di quelle asincronie proprie del tempo storico, di
cui parla Ernst Bloch, a metà anni Ottanta, studente di liceo, mi
trovavo giovane in una zona marginale di quella Basilicata che, col
Vangelo secondo Matteo, facesti assurgere a Palestina del ventesimo secolo: un limbo ancora sospeso nell’attesa indefinita e indifferente del
progresso o dello
sviluppo,
mentre tu, negli articoli “corsari”, avevi già denunciato la devastante
assimilazione in corso del primo al secondo. In questa parte periferica
dell’Italia, ancora per metà scampata al genocidio culturale che ti
angosciava (forse una di quelle eccezioni e resistenze al fenomeno, di
cui ammettevi l’esistenza nella replica a Calvino che ti accusava di
rimpiangere l’Italietta), crescevo a fianco delle sopravvivenze più
corpose del “mistero contadino”, come lo chiamasti nei versi de
La religione del mio tempo
del 1958, ripensando al Friuli della giovinezza. Qui, leggere di te e
leggerti, ha significato letteralmente vivere un’identificazione
proiettiva con la vicenda del passaggio da Cristo a Marx, che tu hai
vissuto a Casarsa e che ha segnato la mia adolescenza. Avrei conosciuto,
certo, poi, le mie revisioni, i miei dubbi, il cedimento alle sirene
nichiliste, il mio disamore per l’utopia, forse, quella che, da
fustigatore “luterano”del nuovo conformismo giovanile, avresti
considerato la resa alle spinte omologatrici. Ma anche le volte che
rinunciai a Marx, non rinunciai mai a te. In fondo, è stato il tuo amore
intellettuale e poetico per Marx ad affascinarmi, o, come dicevi, il
tuo scegliere gli amori poetici “sotto il segno primario di Marx” (
Progetto di opere future).
Amore intellettuale, perché amare qualcosa significa conoscerla, e
conoscerla veramente significa imparare ad amarla. E solo l’amare, solo
il conoscere conta, non è vero? Anche per me, come per te, furono prima
Marx e, a seguire, Freud, a fornire la chiave di accesso alla realtà, ai
suoi strati duri, necessari, vitali, corporei, a quella realtà, che,
nel tuo apprendistato ermetico e simbolista giovanile, ti illudevi di
risolvere tutta nella lingua. Amore intellettuale di Marx come era amore
intellettuale di Dio (del Dio-Natura-Vita) quello di Spinoza, che, non a
caso, in
Porcile convochi ad abiurare da quel razionalismo
che, se in un primo tempo prometteva di liberare dall’oscurantismo e dal
fanatismo, non avrebbe fatto altro che rivelarsi in seguito l’arma
fondamentale della borghesia per annegare ogni impulso ideale, eroico,
nell’“acqua gelida del calcolo egoistico”, come si dice nel
Manifesto del Partito Comunista di Marx: un testo di riferimento centrale per i tuoi scritti corsari, ancor più dei libri di Marcuse. È dal
Manifesto
che hai dovuto riapprendere dolorosamente il carattere demoniaco della
borghesia che, con le sue costanti innovazioni, travolge ogni
tradizione, profana ogni cosa sacra, che sa essere più “rivoluzionaria”
della Rivoluzione, perché dotata di un cinismo più sottile, quello di
saper non essere cinica al momento opportuno, come dici, sempre con
passione e ideologia, nella tua bella opera teatrale, allegorica e
autobiografica,
Bestia da stile, finita di scrivere un anno prima di morire.
Tu non sei stato un marxista eretico. Hai scelto il marxismo come la
migliore eresia del cristianesimo, anzi, dell’escatologia cristiana.
Ecco perché, per te, la religiosità non poteva ridursi all’anestetico
della sofferenza reale che la generava, da “negare” politicamente e
ideologicamente con la coscienza di classe, ma rinviava al fondo sacro
della vita. Con sofferenza, a Casarsa, imparasti alla maniera hegeliana a
distinguere tra la religione positiva, collusa col Potere, e la
religione naturale del cuore, del corpo. Io imparai da te che ciò che vi
è di più irreligioso è la viltà, il soffocare per viltà la passione.
Ecco perché, inoltre, arrivato a Roma, amasti quel sottoproletariato di
cui il
Manifesto diffida. Sì lo eri “più moderno di ogni moderno”, perché già negli anni del
boom economico,
prima che l’apocalisse della società dei consumi ti si mostrasse
chiaramente e inequivocabilmente, ti sentivi orfano di quella Storia,
che l’interpretazione moderna, non solo marxista, ma soprattutto
marxista, offriva alle coscienze come lo spazio secolarizzato della
speranza e della redenzione umana e sociale, e, sempre nelle
Poesie mondane (il diario poetico scritto mentre giravi il tuo secondo film nelle borgate romane,
Mamma Roma),
annunciavi l’inizio del tuo spaesamento, l’avvento della Dopostoria,
che appunto la filosofia e le estetiche del postmodernismo avrebbero
cominciato a salutare e incensare, negli anni immediatamente successivi
alla tua morte, presumendo di smascherare finalmente gli inganni dei
grands récits della Storia. E allora, caro Pier Paolo, non mi va di assecondare la frustrazione, il cipiglio e il
cupio dissolvi
dei tuoi ultimi scritti polemici, che pure tanto anticipano, in
particolare, del degrado attuale del nostro Paese, o la deriva che alla
fine ti rese prigioniero del fantasma dell’origine perduta, come osserva
acutamente di te lo psicanalista Massimo Recalcati, ma voglio ereditare
proprio il tuo desiderio di modernità. Voglio credere che sia questo il
tuo insegnamento fondamentale, più prezioso: nello smarrire
completamente il rapporto con la Storia e con la riflessione sul senso
della Storia, o meglio con la Storia come progetto dell’uomo che aspira
ad umanizzarsi (il vero “sogno” moderno), consiste il pericolo più
grave, il pericolo di una società totalmente alienata. Ma voglio
credere, come diceva un altro poeta, che dove c’è pericolo, cresce anche
ciò che salva. E l’ampliamento degli orizzonti culturali che la
globalizzazione e la comunicazione digitale (questi due fenomeni che non
hai potuto commentare) consentono, possono agevolare una
ricontestualizzazione di questa Storia sui tempi più lunghi
dell’ominazione, della vita, della terra, capace di generare nuova
coscienza, nuove volontà morali, nuove appartenenze. Quanto ci sarebbe
utile ricordare, oggi, ad esempio, a dispetto dell’ideologia
sviluppista, da te ereticamente stigmatizzata già quarant’anni fa, e
come pure ammoniva Marx nel
Capitale, che il valore della
nostra ricchezza non dipende solo dal lavoro umano, ma anche dalla
terra, dalla natura? Già voglio ricordarti così e salutarti con le
parole, anzi i versi non tuoi, ma di Karl Marx, scritti nell’ultimo
numero della
Gazzetta renana, su cui si era abbattuta nel
gennaio 1843 la mannaia della censura prussiana: “Ci rivedremo un giorno
su una nuova riva:/ quando tutto cade, indomito il coraggio resta”.
Grazie, Pier Paolo.
Testo ripreso da
http://www.doppiozero.com/
Questo testo fa parte del contributo
che doppiozero ha scelto di realizzare, articolato in tre parti -
interviste, poesie, lettere - in occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bologna,
dalla Fondazione Cineteca di Bologna, e all’interno del progetto
speciale per il quarantennale della morte, che si articola in un vasto e
ricco programma d’iniziative nella città dove Pasolini è nato e ha
studiato.