di Daniele Giglioli
[Il testo che segue è stato letto al convegno Identità e desiderio. Desiderio, rivalità, violenza e riscatto nella letteratura e nella vita, tenutosi a Falconara Marittima il 11-12 marzo 2006, ed è poi confluito in Pierpaolo Antonello, Giuseppe Fornari (a cura di), Identità e desiderio. La teoria mimetica e la letteratura italiana, Transeuropa 2009]
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Presento qui una serie di appunti sul rapporto tra la teoria mimetica di Girard, come si manifesta per la prima volta in Menzogna romantica e verità romanzesca,
e quella galassia intellettuale che dagli anni sessanta del Novecento
siamo abituati a chiamare “teoria” – prima teoria letteraria, poi teoria
tout court. Un rapporto possibile, e in buona parte ancora a
venire, perché dopo un iniziale periodo di contiguità le due strade
hanno proceduto su direttrici diverse e distanti. Le pagine che seguono
sono il tentativo di ridurre la distanza e di mostrare come in realtà
quelle strade si intersechino in più punti.
I
Il punto
d’avvio non può essere che il concetto di mimesi. Imitazione di
qualcuno, secondo Girard, o rappresentazione verosimile di qualcosa,
secondo una batteria di precetti aristotelici che restano
sostanzialmente vigenti almeno fino alla fine del diciottesimo secolo, e
che recitano ancora un ruolo importante, non foss’altro che come testa
di turco, nella teoria letteraria novecentesca. Imitazione e
rappresentazione, del resto, erano già considerati da Aristotele
concetti fortemente apparentati. Nascono dallo stesso istinto, sono la
prima e più importante forma di apprendimento (i bambini imitano gli
adulti), e ricapitolano in sé funzione estetica e funzione cognitiva
perché apprendere è piacevole e tutti gli uomini naturalmente desiderano
sapere. Non a caso ci riescono piacevoli anche le imitazioni di cose
che nella realtà ci darebbero paura o disgusto, come una belva o un
cadavere. Tanto più che per Aristotele la poesia è essenzialmente
imitazione di azioni, e dunque di un segmento della realtà umana, non di
una generica e indistinta natura. Si imitano sempre le azioni di
qualcuno, migliore o peggiore di noi, e questo ridefinisce anche il
posto del soggetto, la situazione dell’osservatore, la sua implicazione
nell’universo della praxis.
Imitazione e
rappresentazione convivono senza troppi drammi anche in quella feconda
dislettura della poetica aristotelica che è stato il classicismo antico e
moderno. L’imitazione diventa imitazione della natura, ma anche degli
autori, degli antichi, dei classici; ancora una volta, dunque, di
qualcosa e di qualcuno al tempo stesso. L’ambiguità è solo apparente.
Poiché gli antichi erano più vicini alla natura (alla bella
natura, alla natura come essenza e non come apparenza, come mero
fenomeno sensibile), quanto più ci si approssima al loro modello tanto
più ci si accosta alla natura stessa. Un castello teorico di durata
plurisecolare, che pur scosso alle fondamenta dalle dottrine romantiche,
decadenti e poi avanguardistiche, e dalle teorie letterarie del primo
Novecento (i formalisti russi, lo strutturalismo praghese, secondo cui
l’arte è una lotta tra forme o una dialettica tra codici), continua ad
informare fino agli cinquanta prospettive autorevoli come quelle di
Lukács e di Auerbach, ancora attivi al tempo in cui Girard e la koiné
teorica strutturalista muovono i primi passi.
II
Con
l’avvento degli anni sessanta, però, il paradigma mimetico (nel senso
letterario del termine) entra decisamente in crisi. Il realismo diventa
una tecnica, il predominio di una serie di procedimenti stilistici, nel
migliore dei casi un’ideologia. Già Lucien Goldmann non parla più di
imitazione o di rappresentazione ma di omologia tra strutture retoriche,
strutture ideologiche e strutture sociali. Il modello pittorico (ut pictura poësis)
viene accantonato: nessuna somiglianza sensibile, ma piuttosto
un’omogeneità di dispositivi simbolici; un testo, una cultura e una
società dati funzionano secondo procedimenti analoghi, e più realista è
quell’opera che meglio riesce a metterli in luce.
All’altezza di Menzogna romantica e verità romanzesca,
Girard è da questo punto di vista molto vicino a Goldmann. I romanzi, i
grandi romanzi, i romanzi realisti, i romanzi che dicono la verità, non
copiano la realtà sociale ma piuttosto la smascherano in quanto sono
fatti allo stesso modo, sulla base di un medesimo meccanismo, che è poi
il meccanismo del desiderio mimetico. Più che riprodurre la realtà,
esibiscono la sua stessa struttura. Sono realisti – mimetici, omologhi –
perché inscenano il dispositivo mimetico, la presenza del mediatore, il
suo occultamento e la sua rivelazione. Il principio imitativo è già
interno alla realtà stessa in quanto realtà umana. Realismo è far
emergere in piena luce la natura mimetica del desiderio, la sua falsa
innocenza, la sua natura triangolare. Un romanzo coglie tanto più
veridicamente la realtà sociale quanto più si incentra sulla rivelazione
della modalità mimetica che ne è alla base. Imitazione di una
imitazione, il romanzo è una rappresentazione riuscita se e solo se
rappresenta il modo distorto attraverso cui gli attori sociali si
rappresentano i loro processi imitativi. La rappresentazione di qualcosa
è efficace solo se si pensa come una messa in scena dell’imitazione di
qualcuno, mentre il mondo sensibile rappresentato, il mondo degli
oggetti, delle cose e della natura, non è altro che la posta in gioco di
un rapporto tra soggetti imitanti.
III
Fino a qui
nulla di inedito. Più sorprendente è invece riscontrare quanto questa
idea di Girard abbia molti punti di contatto con le teorie di Harold
Bloom, le quali, pur fiorite in quello stesso periodo e come risposta a
una stessa crisi del paradigma imitativo tradizionale, attingono però a
un retroterra culturale e filosofico che non potrebbe essere più
diverso. Anche secondo Bloom, infatti, il motore primo dell’agire
poetico è l’imitazione (sia pure perversa) di qualcuno, e va cercato in
quel rapporto di emulazione, rivalità e trasformazione che ogni “poeta
forte” instaura con il proprio precursore. Non conta cosa si imita ma
chi, in una spirale dominata da un oscuro e gnostico senso della
temporalità che vede la storia come una perenne riscrittura/dislettura
di un patrimonio autorevole, e in quanto tale nello stesso tempo amato e
odiato. Il precursore è un modello, e dunque insieme una guida e un
rivale, un padre da venerare e da uccidere, una legge resa sacra proprio
dal fatto che la si infrange. Anche qui, come in Girard, l’oggetto
reale è solo il pretesto di una contesa, e in questa contesa sta la vera
essenza, il contenuto di verità della letteratura. L’imitazione non è
il fine della rappresentazione, ma la sua causa, il suo lievito, la sua
entelechia.
IV
Nella
prospettiva di Bloom, la letteratura si fa in primo luogo con la
letteratura, imitando altra letteratura. Un assunto destinato, sia pure
per altre vie, a dominare la teoria letteraria degli anni sessanta.
Certo, posto così Girard non lo sottoscriverebbe mai: ma le affinità
sono innegabili. Cos’altro è infatti per Girard la grande letteratura se
non la messa in scena della narrazione fallace e menzognera che il
soggetto romantico fa di sé? Rilettura e riscrittura di un mito (e cioè
di una falsa coscienza; notiamo di passata l’affinità con il Barthes
delle Mythologies), la letteratura è anche per Girard un
fenomeno costitutivamente dialogico e intertestuale, anche se lui non
accetterebbe mai l’estremismo con cui Julia Kristeva ha derivato (un po’
semplicisticamente, a dire il vero) il concetto da Bachtin,
nell’intento di sostenere che dall’altra parte della rappresentazione
letteraria non c’è l’oggetto reale, il referente, ma una fuga infinita
di codici, come chioserà superbamente Barthes in S/Z. C’è
invece la parola dell’altro, un fantasma di desiderio che sorge dalle
parole di chi ha parlato prima di te. Il “reale” dell’opera d’arte è in
questa prospettiva totalmente omologo a ciò che Lacan chiamava
l’immaginario. Il “reale” è lo specchio (metafora chiave di tutta la
storia del realismo) in cui ti sdoppi, ti riconosci e ti alieni in
quanto altri venuti prima di te lo hanno già guardato e investito
del loro desiderio. Reale è l’immaginario in quanto unico vero reale è
il desiderio dell’altro. Lo sguardo del soggetto sul mondo è sempre uno
sguardo entravé, impedito, ostacolato dalla sua radicale e
originaria esposizione allo sguardo altrui; e lo stesso accade alla sua
parola, già sempre implicata e precompresa nella parola dell’altro. Non
c’è un prius del soggetto al di qua della mimesis, non c’è un referente che prescinde dall’imitazione.
Sarebbe
d’accordo Girard con questi enunciati? Se così fosse avremmo un Girard
non troppo lontano dalla decostruzione, mentre lui si è sempre voluto un
realista. E certo, anche se subordina l’oggetto al mediatore, non
Girard non nutre dubbi circa la realtà del reale, ed è fautore di
un’estetica e di un’epistemologia realista. La sua teoria, soprattutto
quella sviluppatasi a partire da La violenza e il sacro, non si
percepisce come un modello, un idealtipo, un’interpretazione, ma come il
rispecchiamento più fedele della realtà umana in quanto mette in luce,
smascherandola, la logica immanente su questa cui si fonda, la rivalità
mimetica che conduce alla mistificazione sacrificale.
Si tratta
però di un realismo d’essenza, non di fenomeni. I fenomeni senza teoria
mentono, la natura delle cose ama nascondersi. Se il romanzo è
imitazione di un’imitazione, la teoria è per così dire la sua coscienza
dall’esterno, una coscienza che non potrà mai assurgere al grado di
autocoscienza se non si libera dalle pastoie della rappresentazione.
Realismo è andare oltre la rappresentazione che il desiderio mimetico fa
di se stesso. E si tratta di un realismo che opera per via di levare,
che toglie veli, che demistifica, che nega sostanza al referente e scava
e retrocede fino a trovare che cosa? Il desiderio, e cioè una mancanza,
un vuoto, un non essere, una relazione, un conflitto cui l’oggetto fa
soltanto da pretesto.
V
E’ questo il
più forte punto di contatto con la decostruzione. Con il suo retroterra
filosofico, intanto, e cioè con quella che è stata chiamata da Paul
Ricoeur “la scuola del sospetto”, la triade Marx/Nietzsche/Freud, e con
la critica all’idea dell’essere come presenza che informa il pensiero di
Heidegger. Le cose non sono come sembrano, come dicono, come desiderano
di essere. Le cose, forse, non sono nemmeno come sono. Sollevato il
velo di Maia – la falsa coscienza della rappresentazione,
dell’ideologia, del mito, della metafisica – si accede a un’idea di
verità intesa in primo luogo come distruzione della menzogna, come
necessità dello scandalo, come pietra d’inciampo della cultura. Realismo
è smascheramento, è il teschio sotto la vanitas, non consiste nell’imitare apparenze ma imitazioni di apparenze, e cioè menzogne. E’ mimesi della mimesi, è mimesi contro
la mimesi, per parafrasare quel “teatro contro il teatro” che era
secondo Georges Didi-Huberman il grande apparato messo in atto da
Charcot alla Salpêtrière per intercettare il desiderio delle sue
isteriche. Realismo è la decostruzione del mito che vuole il desiderio
innocente e la vittima sacrificale colpevole. La verità, più che dietro
si trova dentro la menzogna, perché la menzogna è la verità dei rapporti umani imprigionati nella trappola della mediazione.
Ora, cosa significa questo se non che la verità viene dopo
la menzogna? La menzogna, e non la verità, si trova all’origine della
cultura umana, delle sue rappresentazioni e della sue istituzioni. Non è
qualcosa che sfigura il soggetto, che lo strappa da un suo supposto
stadio di purezza primitiva, ma piuttosto un dispositivo che lo
costituisce, che lo fonda sia come individuo (il desiderio) che come
collettività (il sacrificio come protorito). Non è una degradazione
dell’origine: è l’origine stessa; un’origine zero, un vuoto fondativo
che può essere appreso e rappresentato, direbbe Derrida, solo attraverso
una catena infinita di supplementi, di sostituzioni imperfette e di
aggiunte insufficienti. Non c’è una “cosa reale” da cui tutto si genera:
c’è solo una catena di sostituzioni, linguistiche per Derrida,
sacrificali per Girard. E non c’è alcuna autenticità da rappresentare,
giacché autentica è solo la mediazione. La cultura stessa nasce come
menzogna addomesticata, contrattata, santificata. La mediazione
imitativa, e cioè la condanna alla non-originalità, è essa stessa
l’unica origine possibile.
VI
Non è per
questo d’altronde che anche ciò che le si oppone in nome della verità –
il romanzo da un lato, l’antisacrificio di Cristo dall’altra – può
operare soltanto mimando i procedimenti della menzogna? Il romanzo imita
la realtà sociale in quanto trionfo del desiderio mediato. La morte di
Cristo sulla croce, l’innocente che smonta e decostruisce il mito della
colpevolezza della vittima, mima le forme e le modalità del sacrificio
reale. Le mima alla lettera, non per metafora. E non reca in sé alcun
segno visibile, alcuna marca distintiva che ne definisca in modo
inequivoco il valore illocutivo: per poterla individuare, è necessario
ricorrere a una cornice esterna all’enunciato. Solo la convenzione
paratestuale distingue il romanzo da una storia vera – e non a caso, al
tempo in cui lottava per farsi largo nel sistema dei generi, il romanzo
ha giocato perversamente con questa ambiguità presentandosi, lungo tutto
il diciottesimo secolo, nella forma del manoscritto ritrovato.
Analogamente, solo il kerygma neotestamentario e poi paolino
della fede nella risurrezione distingue la messa in scena del sacrificio
da un sacrificio reale. Proprio come il romanzo, la passione di Cristo
ha uno statuto ontologico estremamente problematico. Da una parte è un
vero sacrificio, perché Cristo nella sua natura umana muore per davvero –
almeno nell’ortodossia cristiana, che rigetta come eretici i tentativi
monofisiti di sostenere che sulla croce fu esposta in realtà solo
un’immagine di Cristo, un eidolon e non una vera presenza.
Dall’altra parte, però, è un sacrificio che viene accettato dalla
vittima innocente come unica possibilità di mandare in pezzi la logica
sacrificale, e dunque un sacrificio di segno rovesciato, un
antisacrificio, non una sua esemplificazione ma una sua negazione.
Solo
attraverso la mimesi della menzogna romanzo e crocifissione mettono a
nudo per Girard la menzogna medesima, e così facendo la invalidano. Ma
se è così, è inevitabile concluderne che la verità è una parte della
menzogna, un suo derivato, un suo correlativo più che un suo
contraddittorio. Un rovesciamento, meglio ancora, in cui non la menzogna
è il rovescio della verità, ma la verità è il rovescio della menzogna
(qui si potrebbe trovare un punto di contatto con l’estetica di Adorno:
nel mondo del totalmente falso la verità si lascia intravedere solo come
deformazione della deformazione che il falso imprime non a un supposto
vero originario, ma alla redenzione che giudicherà con la sua pienezza
futura le manchevolezze del presente). Se la verità viene dopo, se si
aggiunge come supplemento, se non è un’origine ma piuttosto una meta,
non la si deve pensare come un fatto ma come un evento (e non a caso il
cristianesimo parla di avvento e di pienezza dei tempi). Un evento, per
di più, performativo, una performance profondamente apparentata col teatro, da cui mutua non a caso la necessità catartica dell’identificazione (e su questo invece exit
Adorno, che al pari di Brecht, anche se per ragioni diverse, diffidava
dell’identificazione). Senza identificazione con la colpevolezza, non
potrebbe esserci liberazione. Che diremmo di un romanzo che non riesce a
produrre empatia, immedesimazione, identificazione con l’eroe
intrappolato nel dispositivo mimetico? Per criticare l’eroe stregato
dalla fascinazione del mediatore, il romanziere deve istituirlo a
oggetto di fascino; deve erigerlo cioè, in altre parole, a mediatore e
insieme a capro espiatorio. Il personaggio deve essere colpevole di
desiderio mimetico onde potersi liberare, e noi con lui, dalla
schiavitù, proprio come l’umanità doveva essere colpevole di accecamento
sacrificale affinché la storia della salvezza potesse compiersi (perché
poi un dio creatore onnipotente e benigno abbia dovuto escogitare un
meccanismo così tortuoso e sanguinario Girard non se lo chiede; la
teodicea non è evidentemente affar suo). Procedimento omeopatico che
cura il simile attraverso il simile: mimesi contro mimesi, sacrificio
contro sacrificio. Se è necessario che l’eroe e l’umanità si smarriscano
nel labirinto della mimesi, la mappa per uscire dal labirinto coincide
con il labirinto stesso.
VII
Testimonianza
e incarnazione della verità, romanzo e cristianesimo sono un evento,
una pratica, un segmento dell’accadere. Ma se questo è vero, e in Girard
è certo vero, che resta da fare alla teoria? Dove si colloca, che posto
occupa nell’arredo del mondo? Che relazione intrattiene col suo
oggetto? E’ possibile distinguerla da esso? Oppure si tratta, come
avrebbe detto Spinoza, della modificazione di una medesima sostanza, di
una leibniziana identità degli indiscernibili?
E’ qui che
le strade tra Girard e la “teoria” si divaricano davvero. In parziale
contraddizione con quanto egli stesso ci ha permesso di affermare (la
verità come evento, il romanzo e Cristo come sua incarnazione), Girard
ritiene dualisticamente che la teoria sia depositaria della verità
dell’accadere, viva e operi cioè su un piano ontologico che è altro
rispetto quello della prassi. Su questo né Bloom né Kristeva né Barthes
né Derrida sarebbero d’accordo; e nemmeno Marx, Nietzsche e Freud.
Nessuno di loro ha mai pensato la teoria come qualcosa di separato dalla
pratica di cui aspirerebbe a porsi come autocoscienza. Girard sì.
Girard crede che alla teoria sia riservato uno spazio aletico che
prescinde dalla sua implicazione, dalla sua compromissione con
l’oggetto. Che prescinde cioè, altrimenti detto, dal desiderio, dal suo
desiderio, che è in primo luogo desiderio di essere vera. Di qui
l’ambizione smisurata delle sue pretese olistiche, la sua voracità
onnicomprensiva – dalla teoria letteraria all’antropologia, alla
psicoanalisi e da ultimo anche alla genetica neodarwiniana, tutte
rivedute e corrette come anticipazioni o verità parziali al servizio di
una verità più generale, la sua. Di qui, anche, una spregiudicatezza
ermeneutica davanti alla quale ci si divide tra invidia e irritazione.
Il materiale in cui Girard si imbatte non ha scampo: o conferma la
teoria mimetica, oppure la ignora e la respinge e proprio per questo
le offre una conferma rafforzata, così come i miti che non parlano del
sacrificio lo fanno per meglio occultarne l’infondatezza originaria. Di
qui, infine, il suo realismo epistemologico francamente un po’ ingenuo,
fondato com’è su un’idea di verità come adaequatio e non come un processo in cui essere e coscienza sono due traiettorie dello stesso divenire.
VIII
Una mossa
tipica del procedere argomentativo di Girard è quella di sostenere che
gli autori in cui vede dei precursori della sua teoria, se non giungono
alle sue stesse conclusioni, è perché se ne ritraggono spaventati.
Tipica e spesso irritante: non gliela ritorceremo contro. Diremo invece
che, anche se di certo non era sua intenzione arrivare agli esiti che
gli abbiamo attribuito e in parte estorto, non sempre la fecondità di un
pensiero coincide con la realizzazione delle intenzioni del suo autore.
Contano anche e forse soprattutto le crepe, gli effetti di deriva, le
riprese e le riarticolazioni che permette. Nessun dubbio che Girard non
avrebbe mai accettato di includere tra quegli effetti anche una
possibile contaminazione col nichilismo ermeneutico, con la riduzione
della realtà a discorso, con la teoria come finzione e altri topoi
postmoderni. Ma non è così facile sfuggire al proprio tempo. Col suo
sostanzialismo tetragono e in apparenza inscalfibile, Girard ha
contribuito a forgiarlo almeno quanto i partigiani della cosiddetta e
mal denominata “svolta linguistica”. Il suo realismo ha contribuito
tanto quanto il costruzionismo postmoderno all’emarginazione del
soggetto agente dal centro della scena in cui si recita il dramma della
prassi umana. Entrambi ne minano le pretese di assolutezza,
autofondazione, presenza a se stesso, sovranità epistemologica e
autonomia pratica, e questo è un bene: se il compito più urgente che
oggi le scienze umane hanno di fronte è una ridiscussione radicale del
ruolo del soggetto, nulla è più utile in fase di pars destruens
di una decostruzione delle sue false certezze. Il problema è cosa
mettere al suo posto, o meglio in quale posto insediarlo, quale ruolo
assegnargli che non sia, caduto il despota, quello di esecutore
inconsapevole, sintesi passiva di matrici universali, che lo si pensi
come mera funzione in una catena di significanti (il soggetto è ciò che
rappresenta un significante per un altro significante, diceva Lacan), o,
seguendo Girard, come passaggio all’atto di una serie di possibilità
immanenti, e in quanto tali necessarie. Che ci si arrenda a Cristo o al
linguaggio (entrambi logos, tra l’altro) fa di certo differenza,
ma pur sempre di una resa si tratta. Tra Girard e il postmoderno ci sono
più analogie di quante se ne immagini, se è vero che per postmoderno
bisogna intendere in primo luogo la fine della pretesa di uscita
dall’eteronomia che aveva caratterizzato la modernità, e che per Girard
il guaio della modernità consiste giustappunto nell’aver ceduto alla
lusinga di demistificare il cristianesimo non capendo che esso era già
di per sé una demistificazione della logica sacrificale, col risultato
che invece di salutare l’avvento del Regno l’umanità si trova esposta
alla minaccia costante dell’apocalisse – inimicizia assoluta, rivalità
generalizzata, bellum omnium contra omnes – senza più nemmeno la
possibilità di far ricorso al freno, imperfetto ma a suo modo efficace,
che l’età precristiana aveva trovato nel sacrificio arcaico.
Non è un
caso dunque se in questi ultimi anni si è parlato così poco di
soggettività, e così tanto, troppo, di identità. Un’identità
performativa, giura e spergiura l’episteme postmoderna. Un’identità sostanziale, categoriale, destinale, ribatte la philosophia perennis
di Girard. Prospettive che parrebbero opporsi, e in cui però a guardar
bene le affinità sopravanzano le differenze, pur evidenti, se è vero che
in entrambi i casi si tratta comunque di un’identità che, proprio in
quanto si pretende tale, riconosce un saldo primato al “chi sono” sul
“che faccio”: fai quel che sei, non sei quello che fai. E non è un caso
nemmeno se oggi a questa esigenza rispondono in primo luogo quelle
narrazioni vittimarie che sono diventate il principale generatore di
identità della cultura contemporanea, l’unico dispositivo discorsivo in
grado di dar voce non tanto a un bisogno di avere (diritti, sicurezza,
giustizia), quanto piuttosto a un desiderio di essere. Solo nella forma
cava della vittima – e della vittima innocente, incolpevole, non
responsabile e dunque irresponsabile, come sostiene appunto Girard –
troviamo oggi un’immagine verosimile, anche se rovesciata, della
pienezza di essere cui aspiriamo. L’immaginario della vittima ha finito
per assumere il carattere di quella che Furio Jesi chiamava una
“macchina mitologica”, una macchina che a partire dal centro vuoto di
una mancanza genera incessantemente una mitologia, un corpus di figure
capace di soddisfare un bisogno che proprio da quel vuoto ha tratto
origine. Io sono ciò che ho subito, ciò che mi hanno fatto, ciò che può
essermi tolto; non ciò che faccio, ciò che voglio, ciò che mi riesce o
non mi riesce. La mia posizione storica non è una casamatta in cui mi
insedio responsabilmente, e da cui rispondo delle mie vittorie e delle
mie sconfitte, ma una costante eterogenesi da cui non posso far altro
che chiamarmi fuori in quanto attore mancato, e prima ancora che mancato
supposto, apparente, inessenziale. La riduzione della soggettività a
identità è una perdita secca, a scongiurare la quale non basterà mai il
volenteroso ottimismo dei cantori dell’identità performativa, della
cultura come invenzione, del meticciato come libera circolazione delle
merci simboliche da ricombinare a piacimento. Lungi dall’opporglisi,
l’ossessione identitaria di cui l’immagine della vittima si fa
interprete è solo il rovescio speculare dell’insistenza
post-strutturalista sull’idea di un sapere senza soggetto, di un
archivio di enunciati senza autore, di un mormorio anonimo, diceva
Foucault, di processi senza agente, disseminati magari sui mille plateaux di un rizoma zuzzurellone.
IX
Su tutto
questo, in ogni caso, Girard offre molto da riflettere anche a chi non
crede con lui che la vittima innocente sia divenuta, come gli è capitato
di scrivere, “il nuovo assoluto”. Ma solo a patto di discernere, nella
sua eredità, non tanto “ciò che è vivo e ciò che è morto”, ma ciò che
possiamo o non possiamo rivendicare per un pensiero critico che non si
rassegni alla scomparsa del suo principale campione, il soggetto. A
patto cioè di leggere Girard contro Girard, a contropelo, illuminandolo
da un prospettiva che non è e non può essere la sua, come sempre si deve
fare con i veri maestri. E’ stato detto che la grandezza di un pensiero
coincide necessariamente col suo limite, e Paul De Man ha mostrato come
la capacità di visione di un autore coincida essenzialmente con il suo
punto di cecità. Il miglior modo di essere fedeli a Girard è forse
quello di giocare deliberatamente la carta dell’infedeltà, riconducendo
le sue pretese di totalità alla contingenza inevitabile di una verità
che in quanto umana può darsi solo come sempre a venire.
Testo tratto da http://www.leparoleelecose.it