Se gli umani diventano
elettronici. Non è il titolo di un romanzo di Philip Dick, ma il
sottotitolo di uno studio sulla psicologia dell'uomo digitale. A
partire dal fenomeno virale del selfie.
Mario Perniola
Il pericolo che
Narciso superi la realtà
Carlo Levi nel suo libro
Cristo si è fermato ad Eboli racconta di una sua cameriera, la
Giulia, che era disposta a qualsiasi servigio, ma non voleva
assolutamente essere ritratta. Questa ripugnanza aveva una ragione
magica che essa confermò. Scrive Levi: «Un ritratto sottrae
qualcosa alla persona ritratta, un'immagine: e, per questa
sottrazione, il pittore acquista un potere assoluto su chi ha posato
per lui. È questa la ragione inconsapevole per cui molta gente
ripugna anche dal farsi fotografare».
La scorsa estate, ho
ritrovato la stessa ostilità nei confronti della rappresentazione
della propria immagine in una bella ragazza cubana che solo, dopo
molte insistenze, acconsentì a farsi fotografare dicendo che il
percorso di iniziazione alla santeria, che aveva intrapreso, le
proibiva di essere ritratta. Questa ritrosia nei confronti
dell'immagine è qualcosa che non concerne soltanto il mondo magico;
essa appartiene anche all'ebraismo, all'islam e ad alcune sette
protestanti. Del resto sono molti i teorici della fotografia che
hanno considerato l'inquadratura fotografica come una specie di
"imbalsamazione", di "reificazione", di
"micro-esperienza della morte".
Il recente dilagare della
moda dei selfie ha riportato l'attenzione degli studiosi sugli
aspetti psicologici che stanno alla base del fenomeno opposto: la
tendenza compulsiva agli autoscatti. Un fotografo e psicologo
americano John Suler sta pubblicando un libro Psychology of the
Digital Age (Cambridge University
Press, in corso di stampa) in cui sostiene che il selfie è per lo
più connesso con una mancanza di fiducia in se stessi e ad una
scarsa autostima.
Viene così ripreso un
dibattito sul narcisismo che risale alla fine del Novecento: gli
psicoanalisti Heinz Kohut e Alexander Lowen col sociologo Chistopher
Lasch avevano sottolineato che lo spostamento dell'interesse libidico
verso la propria immagine avviene a prezzo di un completo
annullamento dal proprio sé reale. Il narcisismo contemporaneo, di
cui il selfie è l'ultima manifestazione, implica una totale
negazione della propria identità sentimentale. Nel narcisista manca
la capacità di provare emozioni.
La sua vita affettiva è
vuota. L'impossibilità di trovare un serio interesse nella vita, che
caratterizza il modo di essere narcisistico, è perciò proprio il
contrario della cura di sé. L'amplificazione iperbolica
dell'immagine dell'io, a scapito della realtà di questo, comporta un
annientamento dell'esperienza. Tutto ciò causa la rimozione del
passato e del futuro, la perdita della continuità storica, la
scomparsa del senso di appartenenza ad una successione di
generazioni, l'appiattimento del vissuto diacronico sull'attualità.
Perciò la problematica
aperta dalla mobile photography non sembra rappresentare una
inversione di tendenza rispetto al video-narcisismo degli anni
Novanta: essa si inserisce in un dibattito più ampio sull'estetica
della fotografia. Si tratta di una discussione aperta nel 1981 da
Roger Scruton, che opponeva la fotografia intesa come "copia
esatta" alla pittura, attribuendo solo a quest'ultima la dignità
di rappresentazione interpretativa. Per chi volesse avere un quadro
articolato ed esaustivo di tale controversia resta fondamentale il
numero speciale di The Journal of Aesthetics and Art Criticism
(volume 70, Numero 1, Inverno 2012) intitolato The Media of
Photography.
Per quanto riguarda la
supposta socialità che la pratica della mobile photography instaura
attraverso le reti sociali è lecito nutrire più di un ragionevole
dubbio sulla consistenza dei rapporti sociali che essa crea. Anche in
questo caso ritorna il problema da cui la sociologia ha avuto inizio:
la questione del legame sociale. Che cosa tiene insieme gli
individui? Da quando le relazioni tradizionali basate
sull'appartenenza alla famiglia, alla condivisione di una ideologia,
alla partecipazione ad un campo professionale, si sono affievolite,
possiamo pensare che la condivisione di immagini costituisca un
sostituto che abbia una consistenza anche soltanto minima?
Infine, per quanto
riguarda una considerazione artistica di tali prodotti, vale
purtroppo il principio dell'impatto emozionale che le immagini
suscitano. Sono quelle più agghiaccianti e raccapriccianti ad
imporsi.
La repubblica – 22
novembre 2015
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