“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
31 agosto 2016
N. QABBANI, Che cos'e' l' amore
Una poesia del grande poeta siriano Nizar Qabbani:
Che cos’è l’amore?
Che cos’è l’amore?
Abbiamo letto trattati a migliaia
e tuttavia ignoriamo quel che abbiamo letto,
abbiamo letto astrologi, medici ed esegeti
e non sappiamo dove abbiamo iniziato
abbiamo imparato a memoria tutta la letteratura popolare
la poesia e Il canto
e non ne ricordiamo neppure un verso
abbiamo chiesto ai saggi dell’amore
per poi scoprire che non ne sapevano più di noi
Che cos’è l’amore?
Ne abbiamo chiesto notizia nel suo nascondiglio segreto, ma
ma appena l’avevamo afferrato ci sfuggiva dalle dita
l’abbiamo seguito per foreste, anni e anni,
perdendo la strada
l’abbiamo rincorso dall’Africa ... al Bengal,
Nepal, Caraibi, Majorca
fino alle foreste del Brasile
ma non siamo mai arrivati
ne abbiamo chiesto notizia ai sapienti dell’amore
scoprendo che non ne sapevano più di noi.
Che cos’è l’amore?
L’abbiamo chiesto ai santi, agli eroi delle leggende
hanno pronunciato parole bellissime, ma
non ci hanno convinti
una volta abbiamo chiesto ai nostri compagni di classe
e ci hanno detto che era un bambino trasognato
che scriveva poesie su un narciso
nel suo grembiule
raccoglieva formiche, bacche e semi
e dava conforto a mici maltrattati
abbiamo chiesto agli esperti dell’amore le loro esperienze
per poi scoprire che non ne sapevano più di noi.
Che cos’è l’amore?
L’abbiamo chiesto alle anime pie e ai buoni … ma invano
l’ abbiamo chiesto agli uomini di religione … ma invano.
l’ abbiamo chiesto agli amanti e ci hanno detto:
che da piccolo è scappato di casa …
portando in mano un uccello e un ramo
ne abbiamo chiesto l’età ai suoi coetanei
e deridendoci ci hanno risposto,
”Ah, perché l’amore avrebbe un’età?”
Che cos’è l’amore?
Abbiamo sentito che era un decreto divino
e abbiamo creduto a ciò che ci è stato detto
e abbiamo sentito ch’era stella del firmamento
e ogni notte abbiamo aperto la finestra … e seduti l’aspettavamo
abbiamo sentito ch’era fulmine … che se lo toccavamo
ci avrebbe fulminato
abbiamo sentito che era spada ben affilata
e se l’avessimo sfoderata ci avrebbe trafitto
abbiamo chiesto agli ambasciatori dell’amore dei loro viaggi
scoprendo che non ne sapevano più di noi
Che cos’è l’amore?
Ne abbiamo visto la faccia nell’orchidea ... ma non l’abbiamo
capito
ne abbiamo sentito la voce nel canto dell’usignolo … ma
non l’abbiamo capito
l’abbiamo intravisto in cima a una spiga di grano, nel passo del cervo
nei colori di aprile
nelle sonate di Chopin
ma non l’abbiamo notato
abbiamo chiesto ai profeti dell’amore i loro segreti
per poi scoprire che non ne sapevano più di noi
E ci siamo rivolti ai principi dell’amore della nostra storia
abbiamo consultato l’amante impazzito di Laila
abbiamo consultato l’amante impazzito di Lubna
scoprendo che venivano chiamati principi dell’amore
ma nel loro amore non erano mai stati più felici di noi
(traduzione dall’arabo in inglese di Lena Jayyusi e W. S. Merwin, dall’inglese all’italiano di Pina Piccolo)
30 agosto 2016
Sex & the Vatican
Sembrano esistere due sole
possibilità: verginità o matrimonio. Il preservativo non impedisce
le malattie e toccarsi è peccato mortale. Online il nuovo manuale
sulla sessualità giovanile ad opera del Pontificio Consiglio per la
Famiglia. Ci sarebbe da aver paura, ma per fortuna, nonostante il
Papa Star, nessuno li prende più sul serio (almeno in questo campo).
Daniela Ranieri
È finalmente online il manuale Il luogo dell’incontro, il “progetto di educazione affettivo sessuale” a cura del Pontificio Consiglio per la Famiglia guidato da monsignor Vincenzo Paglia.
Presentato all’ultima Giornata della gioventù, il documento per educatori e ragazzi si articola in unità che vanno da titoli impegnativi quali “Le domande più importanti sul senso della vita e del proprio essere” ad altri più croccanti, come “A chi voglio aprire la cerniera della mia tenda?”.
Cliccandoci sopra si aprono slide coloratissime tipo Leopolda, solo che qui invece dei gufi e dei “conti di Pier Carlo” si sviluppa tutto uno storytelling catechesimale-rassicurante, una cornucopia di esortazioni, disegnini, consigli, canzoni e film con cui s’intende offrire ai giovani le linee per una corretta educazione sessuale; e chi, se non il Vaticano, così sempre dedito al progresso e allo sviluppo umano, può fornirne.
L’ATMOSFERA parte spigliata: Problema: “Il mio amore è limitato”. Soluzione: “Quando ci finisce il credito del cellulare perché lo abbiamo usato tanto, che facciamo? Lo buttiamo nella spazzatura o lo ricarichiamo?”, il che conferma che all’antica ossessione della Chiesa per il sesso s’è aggiunta in era bergogliana quella per i cellulari e il loro funzionamento (“Una vita senza Gesù è come un cellulare senza campo”; “La felicità non è un’app del telefonino”, aprile 2016).
Sbrigata con un uno-due micidiale la spiacevole pratica gender (“Uomo e donna li creò”, Gen 1,27), e liquidata la pratica del “Rimorchiare” comune a molti contemporanei (tra cui l’abate di Montecassino, habituée della app gay-radar Grindr) come “cosificazione dell’altro”, si passa ai classici. Come per l’antico Santo Uffizio, per la Santa Inquisizione 2.0 esistono solo “Due modi di donarsi: la verginità e il matrimonio”.
Ora, sia chiaro: a noi piace di più fare le cose sessuali quando il Vaticano ce le vieta, ma non aveva detto il Papa in persona, a giugno, che “ai matrimoni superficiali è preferibile la convivenza”? Che è meglio prepararsi insieme a un matrimonio responsabile che contrarre “matrimonios de apuro”, “di fretta”, riparatori, mondani? Evidentemente tra loro, il Papa e Monsignor Paglia, non si parlano (e del resto il Papa ha disposto che il Consiglio venga squagliato dentro un nuovo Dicastero che comprende anche laici).
Quindi per la vecchia guardia pre o anti-bergogliana il problema, come mille anni fa, sono gli organi sessuali utilizzati fuori dal matrimonio. È l’antico orrore della Chiesa per il sesso non procreativo, temuto più del furto e dell’omicidio. Ma tranquilli: “L’assenza di genitalità nel fidanzamento non implica un silenzio della sessualità”. Tra le opere che gli educatori mostreranno all’uopo, il film Hakito, il mio migliore amico, storia dell’amicizia tra un bambino e Hachi, il cane di suo nonno.
Cerchiamo “preservativo”: “(Si dice che, ndr) è necessario perché riduce il contagio dalle malattie sessualmente trasmissibili”. Invece? “Le statistiche dimostrano il contrario”. E l’aborto? “(Si dice che, ndr) ciò che importa è la libertà della donna e non si uccide una persona perché il feto non lo è”. Invece? “La scienza ci dice che l’essere umano è tale sin dal momento del concepimento”. Vabbè.
POI È TUTTO repertorio: “IL PECCATO”. Sottotitolo: “Autoerotismo/masturbazione” (per la Chiesa sono due cose distinte). La masturbazione, che tutto sommato sembrava una buona alternativa alla castità, è peccato: “La finalizzazione dell’impulso sessuale non incanala la persona ad uscire da se stessa per dirigersi verso un’altra bensì a simulare la causa neurofisiologica che produce lo scarico di tensione con uno stimolo genitale”. Se i preti ci avessero terrorizzato con questa frase invece che con “quante volte?” avremmo smesso subito.
Sarebbe questa l’educazione sessuale “in un’epoca in cui si tende a banalizzare e impoverire la sessualità”, “nel quadro di una educazione all’amore e alla reciproca donazione”, come aveva disposto Papa Francesco in Amoris Laetitia? A questo punto si tenessero le slide e ci ridessero il Diavolo che esce dal camino, almeno si ride.
Daniela Ranieri
Il manuale sessuale di
mons. Paglia Sex & the Vatican, Inquisizione 2.0
È finalmente online il manuale Il luogo dell’incontro, il “progetto di educazione affettivo sessuale” a cura del Pontificio Consiglio per la Famiglia guidato da monsignor Vincenzo Paglia.
Presentato all’ultima Giornata della gioventù, il documento per educatori e ragazzi si articola in unità che vanno da titoli impegnativi quali “Le domande più importanti sul senso della vita e del proprio essere” ad altri più croccanti, come “A chi voglio aprire la cerniera della mia tenda?”.
Cliccandoci sopra si aprono slide coloratissime tipo Leopolda, solo che qui invece dei gufi e dei “conti di Pier Carlo” si sviluppa tutto uno storytelling catechesimale-rassicurante, una cornucopia di esortazioni, disegnini, consigli, canzoni e film con cui s’intende offrire ai giovani le linee per una corretta educazione sessuale; e chi, se non il Vaticano, così sempre dedito al progresso e allo sviluppo umano, può fornirne.
L’ATMOSFERA parte spigliata: Problema: “Il mio amore è limitato”. Soluzione: “Quando ci finisce il credito del cellulare perché lo abbiamo usato tanto, che facciamo? Lo buttiamo nella spazzatura o lo ricarichiamo?”, il che conferma che all’antica ossessione della Chiesa per il sesso s’è aggiunta in era bergogliana quella per i cellulari e il loro funzionamento (“Una vita senza Gesù è come un cellulare senza campo”; “La felicità non è un’app del telefonino”, aprile 2016).
Sbrigata con un uno-due micidiale la spiacevole pratica gender (“Uomo e donna li creò”, Gen 1,27), e liquidata la pratica del “Rimorchiare” comune a molti contemporanei (tra cui l’abate di Montecassino, habituée della app gay-radar Grindr) come “cosificazione dell’altro”, si passa ai classici. Come per l’antico Santo Uffizio, per la Santa Inquisizione 2.0 esistono solo “Due modi di donarsi: la verginità e il matrimonio”.
Ora, sia chiaro: a noi piace di più fare le cose sessuali quando il Vaticano ce le vieta, ma non aveva detto il Papa in persona, a giugno, che “ai matrimoni superficiali è preferibile la convivenza”? Che è meglio prepararsi insieme a un matrimonio responsabile che contrarre “matrimonios de apuro”, “di fretta”, riparatori, mondani? Evidentemente tra loro, il Papa e Monsignor Paglia, non si parlano (e del resto il Papa ha disposto che il Consiglio venga squagliato dentro un nuovo Dicastero che comprende anche laici).
Quindi per la vecchia guardia pre o anti-bergogliana il problema, come mille anni fa, sono gli organi sessuali utilizzati fuori dal matrimonio. È l’antico orrore della Chiesa per il sesso non procreativo, temuto più del furto e dell’omicidio. Ma tranquilli: “L’assenza di genitalità nel fidanzamento non implica un silenzio della sessualità”. Tra le opere che gli educatori mostreranno all’uopo, il film Hakito, il mio migliore amico, storia dell’amicizia tra un bambino e Hachi, il cane di suo nonno.
Cerchiamo “preservativo”: “(Si dice che, ndr) è necessario perché riduce il contagio dalle malattie sessualmente trasmissibili”. Invece? “Le statistiche dimostrano il contrario”. E l’aborto? “(Si dice che, ndr) ciò che importa è la libertà della donna e non si uccide una persona perché il feto non lo è”. Invece? “La scienza ci dice che l’essere umano è tale sin dal momento del concepimento”. Vabbè.
POI È TUTTO repertorio: “IL PECCATO”. Sottotitolo: “Autoerotismo/masturbazione” (per la Chiesa sono due cose distinte). La masturbazione, che tutto sommato sembrava una buona alternativa alla castità, è peccato: “La finalizzazione dell’impulso sessuale non incanala la persona ad uscire da se stessa per dirigersi verso un’altra bensì a simulare la causa neurofisiologica che produce lo scarico di tensione con uno stimolo genitale”. Se i preti ci avessero terrorizzato con questa frase invece che con “quante volte?” avremmo smesso subito.
Sarebbe questa l’educazione sessuale “in un’epoca in cui si tende a banalizzare e impoverire la sessualità”, “nel quadro di una educazione all’amore e alla reciproca donazione”, come aveva disposto Papa Francesco in Amoris Laetitia? A questo punto si tenessero le slide e ci ridessero il Diavolo che esce dal camino, almeno si ride.
Il Fatto Quotidiano Se– 26 agosto
2016
OLTRE CARL SCHMITT
Particolare della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci
Oltre Carl Schmitt
di Gabriele Pedullà
Quattro nuovi libri di Carl Schmitt in
neanche sei mesi: i numeri parlano da soli. Di fronte a questa messe di
pubblicazioni il primo pensiero è che non si tratti soltanto del
doveroso recupero di un geniale pensatore politico troppo a lungo
emarginato per la sua compromissione con il nazionalsocialismo. Deve
esserci qualcos’altro. E alcuni dei curatori dei volumi in questione lo
rivendicano esplicitamente: Carl Schmitt non sarebbe mai stato così
attuale come oggi.
Se l’insistenza sulle capacità
profetiche del giurista tedesco suona a volte un poco stucchevole (come
quando sembrava che la grandezza di Tocqueville consistesse nell’aver
scritto en passant che Stati Uniti e Russia erano destinati a
contendersi un giorno la supremazia planetaria), è innegabile che alcuni
dei concetti coniati o abbozzati da Schmitt appaiono particolarmente
cruciali per spiegare l’ordine, o meglio il disordine, internazionale
affermatosi con la caduta dell’Unione Sovietica e manifestatosi per la
prima volta esplicitamente nei suoi aspetti più cupi con l’attentato
alle Torri Gemelle.
Sin dagli anni Quaranta Schmitt aveva
denunciato infatti il pericolo di un mondo globalizzato e dominato dalla
tecnica, uniformato dal primato del Capitale sulla politica all’ombra
di una sola grande potenza, segnato dalla sostituzione delle vecchie
guerre tra stati con nuove operazioni di polizia internazionale
indirizzate contro i tentativi di resistenza alla omologazione ma allo
stesso tempo esposto agli attacchi “dall’interno” di un
partigiano-terrorista come inevitabile correlativo dialettico della
scomparsa dei vecchi confini e delle vecchie distinzioni culturali,
etniche, politiche. Questo sarebbe il segno della definitiva vittoria
del mare (principio di mobilità incarnato dall’Inghilterra e dagli Stati
Uniti) sulla vecchia tradizione giuridica continentale (Schmitt, che
era un ottimo conoscitore di Hermann Melville, doveva sicuramente
apprezzare il capitolo XIV di Moby Dick, dove si saluta ambiguamente la nascita di un nuovo imperialismo marino e fondato sulle baleniere).
Non è strano che le categorie di Schmitt
abbiano esercitato tanto fascino negli ultimi anni, ispirando nuove
domande, al punto che alcuni dei migliori saggi di filosofia politica
del nuovo secolo non hanno fatto che prolungare i suoi ragionamenti. Per
esempio, in due libri acuti, Peter Sloterdijk ha scritto pagine
acutissime sulla guerra chimica e batteriologica come sviluppo estremo
della non irreggimentabile guerra marina e area (Terrore nell’aria, Meltemi 2006); mentre Daniel Heller-Roazen (Il nemico di tutti. Il pirata contro le nazioni, Quodlibet
2010) ha reinterpretato le guerre anti-terroristiche di George W. Bush
condotte contro un presunto «nemico dell’umanità» attraverso le
categorie della guerra al pirata così come l’aveva teorizzata il diritto
romano (in entrambi i casi i filosofi sono partiti da spunti offerti
principalmente da Il nomos della terra).
I due curatori, tedesco e italiano, del recente Stato, grande spazio, nomos
non ambiscono a tanto, ma non lesinano giudizi esclamativi nei testi
collocati simmetricamente in apertura e a chiusura del volume. Così
scrive dunque Günter Maschke (celando dietro la commozione umanitaria e
un generico anti-americanismo il revanchismo della nuova Germania a
vocazione imperiale di Angela Merkel): «La guerra civile mondiale
pronosticata da Schmitt […] fin dai primi anni Cinquanta è in pieno
svolgimento. Ora, non solo i circa 190.000 morti (soprattutto civili)
iracheni e i 300.000 bambini morti di fame a causa dell’embargo in Iraq,
così come i 2.000 morti della guerra contro la Jugoslavia […] mettono
in stato di accusa una ideologia che si è imposta nel 1919 con il diktat
di Versailles e il suo nuovo diritto internazionale. I fautori di
questa ideologia non temono nemmeno più di infrangere il diritto
internazionale attualmente in vigore, portando così alle estreme
conseguenze la tendenza incessantemente inasprentesi a partire da
Versailles, alla discriminazione della guerra. […] Dopo alcuni millenni
di insegnamenti più che concreti ci si può senz’altro avvicinare
all’idea che la guerra è ineliminabile, e che la pace è un’invenzione
assai più della guerra. Appare oggi chiaro che continuare ad avanzare
sulla strada della discriminazione della guerra non può che condurre a
catastrofi sempre più terrificanti. Per il resto è cosa arcinota che la
guerra è un camaleonte, ma il camaleonte è appunto un animale cui non
importa nulla di essere chiamato con il suo vero nome. Al contrario,
preferisce mimetizzarsi con i noti slogan pacifisti, riuscendo così a
prosperare nel migliore dei modi». (Sia detto di passaggio: il
ragionamento suona inquietante soprattutto per la riapertura della
polemica sul trattato di pace di Versailles, che negli anni Venti fu uno
dei cavalli di battaglia del movimento nazionalsocialista e che qui non
si appoggia certo sugli argomenti illuminati del John Maynard Keynes di
The Ecomonic Consequencies of the Peace e di A Revision of the Treaty, ma punta piuttosto a riaccendere una “macchina vittimaria” che, su questo punto, taceva dal 1945).
Gli fa eco, con toni meno aggressivi,
Giovanni Gurisatti: «Con il passare del tempo il pensiero di Carl
Schmitt, grazie a una lucidità che assume non di rado i tratti della
chiaroveggenza, non solo ha mantenuto intatta la sua attualità, ma si è
rivelato una guida preziosa per la lettura e l’interpretazione del
presente. […] Quando la politica mondiale si fa polizia mondiale, e la
polizia mondiale si fa police bombing, la discriminazione
giuridica e morale dell’avversario, regolare o irregolare, militare o
civile che sia, raggiunge dimensioni abissarli, mentre l’apparente
democraticità universale dellojus gentium si ribalta in
“democrazia della morte” come Ernst Jünger (tra i più assidui
interlocutori di Schmitt) preconizzava già nel 1930. […] Reputando justissima la sola tellus,
Schmitt guarda con motivata diffidenza – e, in verità, con grande
lungimiranza – alle involuzioni postmodernista della globalizzazione». E
così proseguendo.
Schmitt profeta e precursore del nostro
mondo? Non sono solo Maschke e Gurisatti a proclamarlo, oggi. Qualche
anno fa, per esempio, nell’introdurre l’edizione italiana de Il concetto discriminatorio di guerra (Laterza 2008), Danilo Zolo non ha avuto problemi a intitolare il proprio saggio addirittura La profezia della guerra globale, e, risalendo ancora indietro nel tempo, persino Giorgio Agamben in Mezzi senza fine
(Bollati Boringhieri 1996) si è spinto a scrivere che si è realizzata
«la profezia di Schmitt, secondo cui ogni guerra sarebbe diventata nel
nostro tempo una guerra civile».
Contro questo luogo comune dei
dipartimenti di filosofia del nostro tempo si sono levate poche voci,
che hanno sottolineato per esempio le innumerevoli oscillazioni e le
contraddizioni presenti negli scritti di Schmitt del dopoguerra, dove, a
seconda del momento e del contesto, si annuncia la vittoria di un
ordine monopolare, la persistenza del bipolarismo della guerra fredda o
il ritorno a un sistema multipolare (così Walter Rech, Eschatology and existentialism, inThe Contemporary Relevance of Carl Schmitt: Law, Politics, Theology, a
cura di Matilda Arvidssen, Leila Brännström e Panu Minkkine, Routledge
2015). Il problema però non è soltanto che per tutta la sua vita
Schmitt, come profeta, ha puntato le proprie fiches (se non
sempre parteggiato) di volta in volta sul rosso, sul nero e persino
sullo zero riservato in genere al banco, mettendosi nella condizione di
non poter fallire mai le sue previsioni (a seconda di quella che, a
posteriori, si sceglierà per proclamare la sua lungimiranza, trascurando
tutte le altre); semmai, la vera questione è cercare di capire che cosa
sottintendono le sue coppie antinomiche e se davvero non possiamo
mettere a fuoco i grandi dilemmi del nostro tempo che ricorrendo a esse
(indipendentemente dell’esito che Schmitt ha reputato più probabile a
secondo dei diversi momenti).
A valutare le implicazioni dei suoi
scritti con un poco più di prudenza e senza lasciarsi ipnotizzare dalle
sue straordinarie doti di prosatore, potremmo infatti scoprire che
l’opera di Schmitt richiede che il lettore impari a pensare, allo stesso
tempo, con lui e contro di lui assai più di quanto i
suoi apologeti pre- e post- 11 settembre non siano inclini a fare.
Questa esigenza risulta particolarmente chiara proprio quando si esce
dalla lettura di Stato, grande spazio, nomos, che ha il non
trascurabile merito di fare chiarezza più di qualunque altra raccolta di
Schmitt su un paio di punti decisivi. Il quadro generale rimane quello
degli scritti più noti del giurista tedesco: l’alternativa mostruosa tra
il potere post-politico della tecnica globale (in termini marxisti: del
capitale finanziario) e il terrorista “costretto” alle violenze più
inaudite dalla stessa natura asimmetrica del conflitto e dalla fine di
ogni mutuo riconoscimento tra belligeranti. Eppure il volume curato da
Gurisatti, presentando al pubblico italiano anche alcuni testi meno noti
composti durante la Seconda guerra mondiale, ci aiuta finalmente a
vedere quello che dai libri maggiori di Schmitt come Il nomos della terra(1950) e la Teoria del partigiano
(1963) non appare altrettanto evidente: agli occhi di Schmitt una via
d’uscita ci sarebbe, anche se dopo il 1945 evita di menzionarla in
maniera esplicita E questa via d’uscita è la riorganizzazione
multipolare del mondo in un sistema di imperi con le loro rispettive
aree di influenza – imperi capaci di riprodurre su scala planetaria
l’ordine conflittuale con cui, in età moderna, gli stati europei erano
riusciti a mettere la guerra «in forma» e a contenere gli scontri.
Curiosamente, nello stesso momento in
cui Heidegger viene chiamato a rispondere di un odioso antisemitismo, il
fatto che Schmitt abbia elaborato la propria teoria dei «grandi spazi»
per sostenere in punta di diritto le ambizioni espansioniste di Hitler
non sembra preoccupare troppo i lettori di oggi (e questo sebbene
Schmitt si spinga a sostenere a più riprese addirittura una precisa
relazione tra «ordine marino» ed ebraismo). Di fronte a quelli che non
sono banali incidenti di percorso, non si tratta, naturalmente, di
bandire un’altra volta i suoi scritti, come ogni tanto torna a invocare
qualcuno; sarebbe però almeno giusto che gli schmittiani di destra e di
sinistra prendessero consapevolezza che insistere tanto sulle sue
presunte capacità profetiche implica di necessità anche un giudizio
favorevole sulla sua tesi centrale degli anni di guerra: vale a dire
sulla idea che, se la Germania non avesse vinto, il mondo sarebbe caduto
nel baratro della coppia globalizzazione-guerra civile (con il suo
inevitabile corollario: il terrorismo). E qui basterà una (lunga)
citazione da Schmitt: «Dato che la discriminazione degli altri governi
sta nelle mani del governo degli Stati Uniti, questi si arrogano il
diritto di istigare i popoli contro i propri stessi governi,
trasformando la guerra tra stati in guerra civile. La guerra mondiale
discriminatoria di stile americano si tramuta così in guerra
civile-mondiale totale e globale. Sta qui la chiave del legame, a prima
vista affatto improbabile, tra capitalismo occidentale e bolscevismo
orientale. Sia nell’uno che nell’altro caso, infatti, la guerra,
diventando globale e totale, si trasforma da guerra interstatale del
vecchio diritto internazionale europeo in guerra civile-mondiale. Si
rivela qui anche il senso profondo delle parole che Lenin dedica al
problema della guerra totale, sottolineando che nell’attuale situazione
mondiale è rimasto sono un genere di guerra giusta: la guerra civile.
[…] All’unità globale di un imperialismo globale – capitalistico o
bolscevico – si contrappone una pluralità di grandi spazi concreti e
ricchi di senso. La loro è una lotta per la struttura del diritto
internazionale a venire, una disputa intorno alla questione se in futuro
vi debbano essere una coesistenza tra differenti forme autonome oppure
solo semplici filiali decentralizzate di tipo regionale o locale, su
concessione di un unico “signore del mondo”. Ma gli idilli locali o
regionali non sono in grado di far fronte comune contro questo
imperialismo globale. Soltanto gli autentici grandi spazi hanno la
capacità di confrontarsi con esso» (Mutamento di struttura del diritto internazionale, 1943).
Per pensare con e contro Carl Schmitt
allo stesso tempo è necessario però ricostruire prima genealogicamente
l’origine delle sue tesi. Decisiva risulta soprattutto la radice
hegeliana del suo ragionamento e in particolare l’interpretazione della
storia umana come perenne conflitto. Qui disponiamo di una importante
testimonianza: negli anni Cinquanta Schmitt intrattenne una breve ma
densa corrispondenza a proposito della guerra nel pensiero di Hegel con
il più originale hegeliano del secondo Novecento, il russo
(francesizzato) Alexandre Kojève. Ma al di là delle loro lettere, è
impressionante come Schmitt e Kojève – da hegeliani – fossero
ossessionati dallo stesso problema della fine della Storia. Per Kojève
essa significherà la scomparsa dell’uomo come “agente forte” e la sua
trasformazione in consumatore (se preverrà la civiltà post-storica
americana) o in snob (se prevarrà quella giapponese, con i suoi
interminabili rituali): come minimo un Paradiso un po’ dubbio. Per
Schmitt invece la fine della dialettica militare tra stati è destinata a
tramutarsi semplicemente in un incubo: non la scomparsa dei conflitti,
ma la loro generalizzazione terroristica. La sua vera e propria
ossessione per il concetto paolino di katéchon, ovvero per la
forza che ritarda la fine dei tempi (un concetto che proprio Schmitt ha
contribuito a rendere popolare sino alla nausea nella filosofia politica
contemporanea) va letta proprio in questo contesto, come tentativo di
posticipare la disastrosa uscita dalla dialettica e dalla Storia.
L’inarrestabile successo di Schmitt ha
ovviamente molto a che fare con le nostre paure. La «grande narrazione»
liberale del post-1989, La fine della storia e l’ultimo uomo di
Francis Fukuyama (1992), aveva declinato la stessa trama di Kojève in
termini più ottimistici e conciliati, perché l’approdo della lunga
catena di tesi, antitesi e sintesi non sarebbe altro che il trionfo
planetario della democrazia. Ma, come ha messo in luce in diversi libri
il già menzionato Sloterdijk (un altro hegeliano, ammiratore di
Fukuyama), il mondo della post-Storia è una serra a forma di Sfera, e
tutte le serre sono – come è noto – particolarmente vulnerabili (a
cominciare dal celebre Crystal Palace eretto per l’Esposizione
Universale di Londra del 1851 e distrutto nel 1936 da un gigantesco
incendio). Schmitt oggi ci sembra così attuale proprio perché nella sua
critica della globalizzazione americana ribalta l’ingenuo entusiasmo
degli anni Novanta e mostra i lati oscuri della fine della guerra
fredda.
L’alternativa al mondo americano sarebbe
dunque il rifiuto della globalizzazione e la chiusura in nuovi confini?
L’Europa, dopo tutto, ha proprio le dimensioni giuste per costituirsi
in «grande spazio», secondo le ambizioni dello Schmitt degli anni di
guerra… Ed ecco allora che il consenso istintivo che le tesi del
giurista di Hitler ricevono oggi tanto a destra quanto a sinistra ci
dice qualcosa di decisivo di un tempo in cui, in Europa, le tentazioni
identitarie di ieri ricevono crescenti legittimazioni, al punto che
diventa sempre più difficile distinguere davvero le battaglie dei
socialisti per «l’eccezione culturale francese» dagli slogan
(pseudo)repubblicani di Marine Le Pen.
Per Schmitt, rappresentare lo scontro
finale prima dell’Apocalissi e della fine della Storia come la lotta tra
la diversità delle tradizioni e un’anonima forza sovvertitrice
dell’ordine terreno (le potenze «marine») non era naturalmente una
opzione neutra, ma serviva a difendere le ragioni di un preciso ordine
mondiale alternativo a quello americano: quello del Terzo Reich. Troppo
facilmente i suoi esegeti di oggi tendono a dimenticarlo, quando invece
occorrerebbe far saltare la semplice antitesi tra difesa identitaria e
globalizzazione spoliticizzante (con il non trascurabile effetto
collaterale del terrorismo). I contemporanei di Schmitt invece lo
sapevano bene, e saggiamente rifiutavano di giocare la partita all’interno
delle sue categorie. Ma in questo – occorre dirlo – erano enormemente
favoriti dalla esistenza di un movimento socialista che rivendicava una
propria ipoteca sul futuro, in alternativa tanto ai miti nazionalisti
della terra e del sangue quanto all’«American way of life». Perché, in
fondo, la sorprendente remissività di oggi verso le analisi di Schmitt
(o, sul versante opposto, a quelle di Fukuyama e di Sloterdijk) è anche
il risultato dell’enorme vuoto politico che si è aperto ormai più di
venti anni or sono.
da Le parole e le cose
L'ABATE MELI E PETRU FUDDUNI
L'abate Meli a Petru Fudduni:
Tu chi ssi Petru di tutti li petri
chi ffa li petri longhi tunni e quatri,
li sordi chi guaragni cu sti petri
chi nni fai ca si arridduttu comu un spinnaquatri?
risposta di Petru a Meli:
eu sugnu petru di tutti li petri
fazzu li petri longhi tunni e quatri
li sordi chi guaragnu cu sti petri
mi li manciu cu dda buttana di to matri.
29 agosto 2016
L' ERA DELL'IGNORANTE IPERMODERNO
L'articolo che
riprendiamo tratta dell'Università, ma potrebbe valere per qualunque
scuola superiore italiana. Difficoltà di comprensione di un testo,
incapacità a collocare gli eventi nello spazio e nel tempo e a fare
collegamenti sono comportamenti tipici di una parte non piccola degli
studenti, magari ipertecnologici a livello di pc e di smartphone. Un
nuovo “sottoproletariato cognitivo” in formazione
tendenzialmente destinato ad ogni tipo di manipolazione e di
sfruttamento.
Alessandro Santagata
L’era dell’ignorante ipermoderno
Chiunque abbia avuto
occasione di frequentare le facoltà umanistiche italiane non potrà
che condividere il pessimismo di Davide Miccione nel suo Lumpen
Italia. Il trionfo del proletariato cognitivo (Ipoc, pp. 2012,
euro 16). In un saggio agile e spietato l’autore dà voce a
un’insofferenza comune o, per meglio dire, a una comune perdita di
senso. La definizione d’«ignorante ipermoderno», utilizzata per
descrivere l’uomo nuovo dell’età digitale, non può che destare
una certa ritrosia in chi crede nella diversità dei saperi.
Tuttavia, Miccione pone
un problema molto serio che riguarda la trasformazione antropologica
della società e dunque la stessa possibilità d’accedere con
coscienza alla sfera della conoscenza. La progressiva svalutazione
delle discipline umanistiche e la tendenza
all’iper-settorializzazione – spiega l’autore – stanno
producendo un cambiamento profondo nel modo di pensare. Il disprezzo
per gli intellettuali, sempre più forte nell’Italia
post-berlusconiana, non è la vera causa del problema. Il nodo, molto
più complesso, concerne le categorie con le quali si insegna oggi a
leggere la realtà.
In uno dei passaggi più amari del libro Miccione racconta la sua esperienza di professore, le difficoltà degli studenti di una facoltà di Lettere a comprendere i testi oggetto di esame, a collocare gli eventi nello spazio e nel tempo, e, soprattutto, a interrogarsi sulle interrelazioni e sui concetti di fondo della disciplina filosofica.
All’esperienza
personale presso l’Università di Catania l’autore affianca una
serie d’inchieste e di studi (quello di Graziella Priulla, per
esempio). La riflessione si estende quindi al mondo della scuola, sul
quale Miccione chiama in causa un’ampia bibliografia . Ne emerge un
quadro, in cui «tutto sembra farsi flusso indistinto e la
specificazione, qualunque essa sia (nomi, date, luoghi) appare ormai
come pignoleria».
Si tratta di una crisi di
portata mondiale e da questo punto di vista sono molto efficaci gli
spunti di Martha Nussbaum, tra le prime a denunciare un problema che
la politica internazionale sta continuando a ignorare. Non c’è
dubbio però che il caso italiano si presenti come particolarmente
difficile.
Di fronte al progressivo declino degli investimenti statali che sta portando alla morte il mondo della ricerca, e in particolare di quella umanistica (più in difficoltà di altre nel reperire finanziamenti), cresce il classismo sociale e la cultura, quando non è ridotta a festival, ritorna ad appannaggio di pochi privilegiati e delle istituzioni d’eccellenza. Contemporaneamente – osserva Miccione – si diffonde l’«idea che le abilità tecniche e le competenze immediatamente spendibili siano ormai immensamente più importanti della cultura generale. Con ciò, si postula come unica valida l’idea di società in quanto macchina produttiva e degli individui come mezzi, il cui senso è dato dall’essere idonei a portarla avanti».
E fuori dalle aule? I
passaggi dell’inchiesta di Miccione restituiscono un panorama ormai
noto, ma non per questo meno inquietante. La pratica della lettura
sta praticamente scomparendo in un mondo in cui – come ha scritto
il linguista Raffaele Simone – «la conoscenza si acquista non più
attraverso il libro e la scrittura, ma attraverso l’ascolto o la
visione non alfabetica». La realtà mainstream, apparentemente
complessa, si riduce a poche dimensioni schiacciate sul presente.
Gli effetti di questa
trasformazione non sono ancora facilmente decifrabili e vanno ben
oltre l’affermazione delle destre populiste. Controversa è anche
l’idea che si starebbe sviluppando un «sottoproletariato
cognitivo», massa di manovra per nuove politiche di sfruttamento.
Viene da chiedersi piuttosto, al di là di giudizi che lasciano il
tempo che trovano, quali strumenti le facoltà umanistiche siano in
grado di offrire per valorizzare le nuove e gigantesche potenzialità
cognitive.
In altre parole, ammesso
che si voglia parlare di una «crisi cognitiva», c’è da credere
che il soggetto in crisi siano proprio i docenti universitari,
«ignoranti» nell’ipermodernità, di cui appunto spesso non
conoscono gli strumenti analitici. Anche su questo terreno si
registra il fallimento dell’università pubblica, che – come
scrive Miccione – non riesce a svolgere una funzione di recupero
culturale, risultando così subalterna alle logiche esterne, ma che
non riesce neppure a comprendere i caratteri del cambiamento e quindi
a ritrovare una missione sociale.
Il manifesto – 25
agosto 2016
G. AMICO, SPAGNA 1936
80 anni fa iniziava la
guerra civile spagnola. L'ultimo grande tentativo rivoluzionario in
Europa. Ne ripercorriamo le tappe riprendendo un quaderno pubblicato
nel 1986, ma che riteniamo ancora utile per comprendere ciò che
accadde allora.
Giorgio Amico
Spagna '36
All'inizio degli anni '30
si apre in Spagna una crisi rivoluzionaria di ampie proporzioni,
destinata a protrarsi per l'intero decennio e a risolversi più per
il rifluire del movimento operaio e contadino che per un' effettiva
preponderanza delle forze della reazione. Tuttavia, per oltre cinque
anni il movimento rivoluzionario continuerà a creare oggettive
situazioni di dualismo di potere, ponendo all'ordine del giorno la
questione del socialismo.
Nell'aprile 1931 una
forte ondata di lotte nelle campagne e nelle città da l'ultimo
scrollone ad una monarchia agonizzante, nei fatti abbandonata ormai
dalle componenti più dinamiche della borghesia. Il regime
repubblicano che segue ai moti del '31 non è tuttavia più stabile
del precedente. Premuto dalle masse contadine da una parte e dalle
esigenze di sviluppo del capitalismo rappresentato dalle forze del
radicalismo piccolo borghese dall'altra, il nuovo regime repubblicano
è costretto, anche se con mille cautele, a prendere posizione contro
la chiesa cattolica, le sue istituzioni, gli infiniti ordini
religiosi, il loro enorme patrimonio finanziario e fondiario e contro
il ceto dei grandi latifondisti. Il proletariato urbano e agricolo
recepisce la caduta della monarchia e i primi timidi provvedimenti di
riforma del nuovo regime come una propria vittoria.
La repubblica solleva
enormi attese di riscatto sociale. Il movimento si allarga ovunque e
in modo spontaneo: nelle campagne, nelle fabbriche, nei quartieri
proletari delle città industriali nascono le prime forme embrionali
di consigli operai e contadini, le juntas. Le rivendicazioni operaie
e contadine si fanno sempre più pressanti di contro a un governo,
composto da socialisti, radicali e repubblicani, che elude i problemi
di fondo ed in particolare evita accuratamente di decidere in merito
alla tanto attesa riforma agraria.
Nonostante ciò, le forze
più conservatrici, agrari e Chiesa cattolica in testa, si sentono
minacciate e si adoperano per la restaurazione puntando su gerarchie
militari, espressione in prevalenza della borghesia terriera,
fanaticamente legate al culto di una presunta "ispanità
cattolica" minacciata dall'irrompere della modernità.
Già nel '32 viene
scoperto un primo tentativo di colpo di stato militare. Il golpe
organizzato da un generale in pensione, Sanjuro, si rivela una
messinscena da operetta nella tradizione dei pronunciamenti militari
propri dei generali spagnoli. Il generale Sanjuro viene arrestato,
processato e condannato all'esilio. Ma gli altri generali implicati
rimangono ai loro posti. Il tentativo golpista, accantonato in attesa
di tempi migliori, ottiene comunque un immediato risultato, spostando
a destra gli equilibri politici e frenando ulteriormente la già
evanescente volontà riformistica del governo.
La borghesia repubblicana
inasprisce la repressione nei confronti delle lotte operaie e
contadine, tornando a utilizzare come ai tempi della monarchia
l'esercito contro i lavoratori. Nel gennaio 1933 a Casas Viejas la
Guardia Civil massacra spietamente i braccianti in lotta. La
situazione peggiora ulteriormente nel '34, quando nuove elezioni
vedono la vittoria delle forze di centrodestra. Il nuovo governo apre
decisamente ai latifondisti e alla destra cattolica.Vengono inseriti
nel governo alcuni ministri della CEDA, il partito cattolico fondato
nei primi anni Trenta che non nasconde le sue simpatie per il
fascismo. A Madrid e a Barcellona gli operai scendono in piazza per
opporsi a quello che recepiscono come un tradimento delle loro
conquiste.
Nelle Asturie i minatori
insorgono e per alcune settimane controllano la regione. Sarà il
generale Francisco Franco, che per questa impresa verrà poi promosso
capo di stato maggiore, a reprimere nel sangue la rivolta asturiana.
Migliaia di minatori vengono trucidati, decine di migliaia
incarcerati, i quartieri operai delle città asturiane messi a ferro
e fuoco. E' la prova generale di quanto accadrà su scala nazionale
due anni più tardi.
Caratteristiche del
movimento operaio spagnolo
In questo contesto il
movimento operaio spagnolo presenta caratteristiche particolari, che
lo differenziano radicalmente dal resto d'Europa, sia per il netto
prevalere della organizzazione sindacale sulla forma partito sia per
la larga egemonia esercitata dall'anarchismo. Gli anarchici
controllano la potente Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT), che
raggruppa i sindacati operai più numerosi e combattivi. La CNT è
anche largamente presente nelle campagne e ispira l'incessante lotta
dei contadini contro il latifondo.
L'altra organizzazione
sindacale di rilievo, l'Unione Generale dei Lavoratori (UGT), la cui
influenza andrà rapidamente crescendo nel corso dei primi anni
Trenta, si colloca nell'area socialista ed è rigidamente controllata
da un apparato burocratico di tendenza riformista. Messi a confronto
col movimento sindacale i partiti politici operai rappresentano ben
poca cosa.
Il partito socialista,
senza dubbio il più grosso e il più influente, appare diviso al suo
interno in due correnti. La prima , facente capo a Largo Caballero e
strettamente legata alla UGT, si caratterizza per un sostanziale
riformismo rivestito di un inconcludente massimalismo.La seconda
corrente, che fa capo a Prieto, espressione di una piccola borghesia
intellettuale, radicale e anticlericale, si dimostra dotata di un
maggiore realismo politico che la porterà ad essere la principale
alleata del PC e insieme ad esso l'interprete più fedele delle
indicazioni di Stalin e del Comintern.
Quanto al Partito
comunista, fino al '36 e al fronte popolare rappresenta ben poca
cosa, sia per l'esiguità dei suoi ranghi sia perchè i suoi pochi
militanti operai risentono ancora dell'isolamento conseguente alla
politica settaria seguita fino al VII congresso dell'internazionale
comunista. Dopo la costituzione del fronte popolare il suo ruolo
continuerà a crescere fino a diventare dominante negli anni della
guerra civile.
A sinistra di socialisti
e comunisti, opera il Partito Operaio di Unificazione Marxista
(POUM), particolarmente radicato nella classe operaia di Madrid e in
Catalogna, inizialmente sulle posizioni dell'Opposizione di Sinistra
(trotskisti) da cui si era staccato per forti divergenze con Trotskij
proprio sulla tattica da seguire nella rivoluzione spagnola.
La politica del Fronte
popolare e del PC
All'inizio del '36, a
causa di uno scandalo finanziario che coinvolge direttamente il primo
ministro Lerroux e buona parte del governo, viene sciolto il
parlamento; le nuove elezioni nel febbraio '36 vedono la vittoria del
Fronte popolare, costituito dalle sinistre (PSOE e PCE) e dai partiti
della democrazia radicale, attorno ad un programma vago e
minimalistico, che prevede tuttavia l'amnistia per le decine di
migliaia di prigionieri politici. Di fronte alla vittoria elettorale
dello schieramento democratico, le forze conservatrici e in primo
luogo i militari e la gerarchia cattolica preparano il colpo di
stato.
I generali operano alla
luce del sole, i nomi dei cospiratori sono noti, il golpe è
l'argomento di moda nei caffè di Madrid, ma il governo non adotta
alcuna misura precauzionale pago del giuramento di fedeltà dei
generali felloni. I cospiratori possono così in assoluta
tranquillità tessere la tela della congiura, stabilendo accordi con
Mussolini e Hitler che si impegnano a fornire armi e sostegno
finanziario, con gli esponenti della CEDA che siedono in parlamento e
col vecchio generale Sanjuro in esilio a Lisbona. Di fronte
all'aperto disegno reazionario dei generali i sindacati operai, in
particolare la CNT, chiedono la formazione di milizie popolari. Il
governo respinge decisamente la proposta, riconfermando la propria
fiducia nella lealtà delle forze armate.
Il 16 luglio 1936 parte
la rivolta dei generali. Anche di fronte all'aperta sollevazione il
fronte popolare si rifiuta di armare gli operai, i contadini, i
militanti delle stesse organizzazioni che lo compongono. Inutilmente
l'UGT, il sindacato vicino al PSOE maggiore forza di governo, reclama
con insistenza l'armamento generale delle masse. Ancora il 18 luglio,
con la rivolta militare in pieno sviluppo, il partito socialista e
il partito comunista dichiarano congiuntamente che la situazione è
difficile ma non disperata e che Il governo è in possesso dei
mezzi sufficienti per soffocare il pronunciamento sedizioso senza
uscire dalla legalità costituzionale.
Il rispetto della
legalità democratica è il paravento che mal cela la sostanziale
paura delle masse armate, tipica di ogni rappresentanza borghese. In
questi due giorni il governo si affatica a trovare un compromesso con
i generali rivoltosi per arrivare a una mediazione e ad una
ricomposizione pacifica della crisi. E' il rifiuto dei franchisti,
che approfittano delle esitazioni del governo per conquistare
terreno, a rendere inevitabile l'armamento del popolo.
E comunque sono gli
operai a bloccare il golpe, attaccando, spesso a mani nude, le
caserme, recuperando armi, convincendo i soldati di leva a passare
dalla parte del popolo dopo aver fucilato gli ufficiali. Dal 19 gli
operai armati cominciano a organizzare colonne di miliziani che
passano al contrattacco riconquistando parte del territorio caduto
sotto il controllo dei franchisti. Il 20 luglio, allo scadere dei
quattro giorni programmati dai generali per la conquista di tutta la
Spagna, sono in mano ai rivoltosi le colonie, poche città
dell'Andalusia occidentale a Sud e una parte della Vecchia Castiglia
e del Léon al nord. Ovunque la reazione dei proletari, dei
braccianti, dei contadini è stata immediata anche se lasciata alla
spontaneità e disorganizzata.
E' questo l'inizio di un
rapido processo rivoluzionario che investe tutta la Spagna. Ovunque
si formano comitati rivoluzionari di operai, di braccianti, di
contadini che assumono tutto il potere; confiscano terre e le
distribuiscono, requisiscono le fabbriche e ne controllano la
produzione, formano sotto il loro controllo forze di polizia, aprono
e gestiscono nuove scuole. I simboli del vecchio potere, le chiese,
le gendarmerie, le sedi dei partiti e dei giornali di destra vengono
date alle fiamme, si processano e si giustiziano i fascisti. Un pugno
di giorni basta a far esplodere la rabbia immensa del popolo,
accumulata in secoli di servaggio.
Ma non è una collera
cieca, senza prospettive. Forte è la consapevolezza fra le masse
della necessità dell'organizzazione del potere proletario. Il
governo centrale, che non riesce a star dietro al ritmo incalzante
degli avvenimenti, è come se non ci fosse. Tutto il potere è nelle
mani di un proletariato in armi fieramente determinato a combattere
fino alla fine. Mentre questa potente ondata rivoluzionaria incendia
la Spagna, blocca e fa retrocedere il golpe franchista, i dirigenti
del PCE, scavalcati da un movimento che nulla hanno fatto per
scatenare e che non controllano, ribadiscono con ostinazione che in
Spagna non è all'ordine del giorno la presa del potere da parte del
proletariato, ma la difesa delle conquiste democratiche garantite
dalla vittoria del fronte popolare nelle elezioni del febbraio. Su
l'Humanité del 3 agosto fanno scrivere per rassicurare la borghesia
spagnola e internazionale: "Il popolo spagnolo non sta
combattendo per stabilire la dittatura del proletariato...esso non
conosce che uno scopo: la difesa dell'ordine repubblicano nel
rispetto della proprietà".
La tattica,
apparentemente miope e suicida del PC, si spiega ampiamente nel
quadro più complessivo della strategia staliniana. Per Stalin la
questione spagnola si inserisce in un più generale disegno
internazionale che tende a privilegiare gli interessi dello Stato
russo rispetto a quelli della rivoluzione. L'alleanza con la Francia
in funzione antitedesca rappresenta in quegli anni l'asse portante
della diplomazia sovietica e a tale obiettivo va sacrificata ogni
altra considerazione. Su questo punto Stalin è irremovibile: sia in
Francia che in Spagna non si deve in alcun modo uscire dall'ambito di
Fronti popolari intesi come ragguppamenti sul piano della democrazia
borghese di forze politiche e sociali diverse.
In Spagna, poi, va
assolutamente evitata ogni accelerazione rivoluzionaria che possa
impensierire la borghesia "democratica" di Francia e
Inghilterra. Questo ripete incessantemente la stampa del Comintern,
per la quale l'azione diretta delle masse è una forzatura
"estremistica" che oggettivamente gioca a favore del
fascismo, isolando il campo repubblicano.
Palmiro Togliatti, nella
sua qualità di segretario dell'Internazionale, individua la presunta
peculiarità della rivoluzione spagnola nel suo carattere "popolare,
nazionale e antifascista"."Noi -dichiara il PCE nell'estate
del '36 proprio mentre è più forte la spinta rivoluzionarie delle
masse operaie e contadine- non possiamo oggi parlare di rivoluzione
proletaria in Spagna, poichè le condizioni storiche non lo
consentono. Noi desideriamo solo lottare per una repubblica
democratica con un contenuto sociale esteso. Non può essere
questione oggi, né di dittatura del proletariato né di socialismo,
ma soltanto di lotta della democrazia contro il fascismo".
Il governo repubblicano,
diretto dal moderato José Giral, evita così accuratamente di
prendere tutte quelle decisioni che, come la proclamazione
dell'indipendenza del Marocco o una radicale riforma agraria,
avrebbero costituito un potente elemento di sfaldamento delle truppe
controrivoluzionarie, in gran parte composte di soldati marocchini,
oltre che a portare la rivoluzione nelle retrovie franchiste.
La guerra civile
Fin dai primi giorni la
rivolta dei generali comincia a ricevere consistenti aiuti materiali
da Hitler e da Mussolini, grazie ai quali riesce rapidamente a
superare le difficoltà impreviste dovute agli insuccessi militari e
al mancato appoggio della marina che è rimasta fedele alla
repubblica. Le truppe more e la legione straniera che dovevano essere
trasportate via mare in Spagna rimangono bloccate in Marocco; ma già
nel mese di luglio un ponte aereo organizzato dai nazi-fascisti
garantisce l'afflusso di queste truppe nel territorio spagnolo
occupato dai rivoltosi. Rapidamente Franco può riorganizzare il suo
schieramento e rilanciare con forze fresche l'offensiva verso Madrid.
Il governo repubblicano è
costretto a chiedere aiuto: si rivolge al governo di fronte popolare
in Francia, presieduto dal socialista Léon Blum. Ma senza esito.
Dopo consultazioni con gli inglesi, il governo francese dichiara di
auspicare una politica di non-intervento, limitandosi ad una
inconcludente azione di pressione diplomatica su Italia e Germania
perchè anche le due potenze fasciste si astengano dall'intervenire
apertamente in Spagna.
L'URSS stessa esita.
Fornire a luglio-agosto del '36 armi alla Spagna repubblicana
significa irrobustire il potere del popolo in armi; il governo
ufficiale non ha alcun potere, non dispone di un esercito regolare o
di forze di polizia. Stalin non vuole una rivoluzione in Spagna, gli
aiuti verranno concessi col contagocce e sempre mirando a irrobustire
lo Stato borghese e il governo. Gli aiuti dell'URSS arriveranno e
saranno pagati in oro, circa i 2/3 dell'intera riserva aurea dello
stato spagnolo, non appena si profilerà una rottura dell'equilibrio
fra masse e governo centrale, a favore di quest'ultimo, e quindi un
principio di restaurazione.
Gli aiuti sovietici sono
preceduti da vari emissari dell'IC e infine da una delegazione
ufficiale che stabilirà i termini dell'accordo: oltre a forniture di
armi e viveri arriveranno dall'URSS tecnici militari e agenti della
Ghepeu col compito, questi, di riorganizzare i servizi di polizia. Il
governo Giral non ha alcuna autorità e influenza presso i proletari
o i contadini per convincerli a smobilitare le strutture di potere
autonome e non ha la forza materiale per farlo.
Ai suoi ripetuti
tentativi di sciogliere ora questo ora quel Comitato si erano opposte
tutte le organizzazioni operaie, eccetto il PC. Durante i due mesi
dell'estate '36 il PC si conquista con l'appoggio dato al governo
Giral, la fiducia e la stima di tutte le componenti borghesi del
fronte popolare, dai repubblicani ai socialisti di destra. Esso si
afferma, malgrado continui ad essere una forza minoritaria
all'interno del fronte popolare, come il garante più sicuro della
restaurazoine del potere statale, come la forza che più di tutti
crede nella continuità del potere borghese.
Questo ruolo di gendarme
a baluardo della democrazia borghese verrrà accresciuto dal peso che
avranno nella vita politica della repubblica gli aiuti e l'assistenza
sovietica. Prima ancora dell'arrivo della delegazione diplomatica
russa, è il PCE, ormai controllato e diretto dagli emissari dell'IC,
tra cui Togliatti, la chiave di volta della politica governativa: su
iniziativa sua si procede all'inizio di settembre del '36 a un
rimpasto ministeriale che porta alla formazione del governo
Caballero. Esso sarà composto da esponenti di tutte le forze
politiche del fronte popolare e dell'UGT e da novembre anche gli
anarchici della CNT vi saranno inclusi.
Il governo Caballero
Col governo Caballero si
avvia e si porta a compimento la prima tappa della restaurazione:
l'eliminazione della situazione di dualismo di potere e
l'accentramento del potere nelle mani dell'apparato statale centrale.
Quest'opera viene realizzata quasi in maniera indolore; nel governo
sono presenti tutte le forze che dirigono i comitati e i poteri
locali, e queste presentano l'operazione di smantellamento delle
strutture del potere proletario come dovuta alla necessità di
centralizzazione delle conquiste e della direzione della rivoluzione.
Gran parte dei comitati
vengono sciolti o si trasformano in mere rappresentanze locali del
potere centrale controllate direttamente da questo. Nelle fabbriche
viene posta fine a ogni forma di controllo e di "autogestione"
delle officine: gli orari di lavoro aumentano e i salari scendono di
un terzo rispetto al '34-35.
Nelle campagne le terre
dei latifondisti stranieri o fedeli alla repubblica vengono
restituite ai legittimi proprietari; si blocca in ogni regione la
spinta alla collettivizzazione; le milizie armate vengono
irregimentate sotto il controllo di commissari governativi, sono
reintrodotti i gradi militari e le differenze di paga; si da inizio
ai primi tentativi di ricostituire un esercito regolare borghese
organizzando centralmente il reclutamento di leva; i reparti di
polizia sotto il controllo dei comitati vengono sciolti e sostituiti
progressivamente da un apparato di polizia sotto il controllo del
ministro degli Interni, inquadrato da "esperti" sovietici.
La "rivolta" di Barcellona
A Barcellona nel maggio
'37 il governo sferra l'ultimo attacco al potere proletario che da
quella città controlla ancora di fatto il sistema di
telecomunicazioni dell'intero paese. I proletari di Barcellona
scondono spontaneamente in piazza, respingono le forze di polizia e
per quattro giorni erigono barricate, in difesa del potere dei
consigli operai.E' l'ultimo vero tentativo rivoluzionario, ma questa
volta la direzione del movimento è ancora più debole: solo il POUM,
estromesso dalla coalizione governativa, approva e appoggia il
movimento; CNT e FAI non prendono apertamente posizione. Il governo
ha mano libera nella repressione.
Dopo i fatti di
Barcellona la repressione colpisce con estrema violenza trotskisti,
poumisti, anarchici e più in generale chiunque sia sospettato di
simpatizzare per la sinistra rivoluzionaria. Il POUM viene posto
fuori legge, i suoi dirigenti arrestati e condannati a pesanti pene
per tradimento. Andrés Nin, leader storico del partito e del
movimento operaio spagnolo, viene sequestrato e dopo atroci torture
assassinato perchè rifiuta di confessare sul modello dei processi di
Mosca.
La polizia segreta russa
ha in Spagna un'organizzazione efficiente, con proprie prigioni
segrete, e gode di assoluta libertà d'azione. I rivoluzionari sono
oggetto di una caccia implacabile. Molti spariscono senza lasciare
traccia come l'austriaco Kurt Landau o il segretario di Trotskij,
Erwinn Wolff. Di altri vengono ritrovati i corpi crivellati di
pallottole, come nel caso degli anarchici italiani Berneri e
Barbieri.
La sconfitta della rivoluzione
La normalizzazione della
spagna repubblicana apre inevitabilmente la strada alla sconfitta
anche sul piano militare. Lo svuotamento radicale delle conquiste
della rivoluzione ha come immediata conseguenza la smobilitazione
generale. Pochi giorni prima di essere assassinato, Camillo Berneri
aveva scritto che il "dilemma guerra o rivoluzione" non
aveva alcun senso e che il solo vero dilemma era "o la vittoria
su Franco grazie alla guerra rivoluzionaria, o la sconfitta".
Privato del suo contenuto sociale, il conflitto diventa sempre più
un confronto puramente militare fra la repubblica allo stremo e le
armate franchiste massicciamente appoggiate da Hitler e Mussolini.
I comunisti sono i più
decisi perchè si passi rapidamente dalla guerra di popolo ad una
guerra classica condotta secondo le regole dell'arte militare. Forti
del controllo sugli aiuti sovietici, ormai unica fonte di
sopravvivenza della repubblica, il PCE alleato ai socialisti di
destra determina la caduta del governo Caballero, considerato troppo
movimentista, e la formazione di una nuova coalizione diretta da Juan
Negrín. In pochi mesi Negrin liquida le residue milizie operaie e
contadine, scioglie con la forza i comitati di villaggio
dell'Aragona.
La repubblica lentamente
agonizza, lacerata da lotte intestine, priva del sostegno delle masse
popolari, ormai demoralizzate e deluse. A partire dall'estate del '37
la guerra si trasforma in un lento stillicidio di sconfitte.
Lentamente, ma inesorabilmente le truppe franchiste assumono il
controllo del paese. Nel mese di giugno cade Bilbao, in ottobre tutto
il nord, nel febbraio 1938 l'Aragona.Il 26 gennaio 1939 Barcellona
cade nelle mani dei franchisti, il 28 marzo i fascisti entrano a
Madrid, il 1 aprile tutte le potenze, eccetto l'URSS, riconoscono il
governo di Franco.
Bilancio di una
sconfitta
Di fronte alla tragedia
spagnola molti dei protagonisti e degli storici si sono arrampicati
sugli specchi per giustificare la politica del Partito comunista,
sostenendo la tesi che non si poteva dividere il fronte repubblicano
di fronte all'attacco franchista. I più smaliziati sull'esempio di
Togliatti, che come segretario dell'IC porta gravissime
responsabilità nel disastro spagnolo e nella repressione dei
movimenti rivoluzionari, hanno sostenuto che si trattava di
consolidare la prima fase della rivoluzione, quella democratica e che
il passaggio alla seconda, quella sociale, sarebbe stato prematuro e
distruttivo anche perchè la Spagna repubblicana aveva bisogno
dell'appoggio esterno e nessun paese sarebbe stato disposto a fornire
aiuti a un governo rivoluzionario.
In realtà, è proprio
l'arresto del processo rivoluzionario, la separazione meccanica ed
astratta della lotta democratica dalla battaglia per il socialismo, a
isolare la Spagna, a impedire il consolidamento delle conquiste
democratiche, a dare nuova forza e impulso alla spinta delle masse
verso forme sempre più avanzate di gestione consiliare del potere.
Sciolto il rapporto che lega le masse alla rivoluzione, restaurato lo
stato borghese, trasformata la guerra rivoluzionaria nel conflitto di
due eserciti regolari, i lavoratori perdono ogni identificazione con
gli obiettivi della lotta.
L'esperienza spagnola
dimostra che l'ondata rivoluzionaria ha bisogno di essere di continuo
alimentata e spinta in avanti, legando indissolubilmente e sempre più
stabilmente gli interessi immediati delle masse proletarie a quelli
della rivoluzione. Se questo legame viene reciso l'ondata
rivoluzionaria si esaurisce per rifluire nell'apatia e nel
disincanto.
E' l'intera esperienza
del movimento operaio di questo secolo a confermare questa lezione.
In Spagna, ma anche nella Francia del fronte popolare, così come
nell'Italia del 1945-48 o nel Cile di Salvador Allende, l'abbandono
da parte dei comunisti di una chiara posizione di classe, l'appoggio
o addirittura l'entrata nei governi della borghesia in nome di un
presunto "realismo" ha sempre determinato conseguenze
catastrofiche per il movimento operaio.
L' INCONTRO MANCATO TRA I SESSI
L’incontro mancato tra i sessi
di Pietro Bianchi e Elisa Cuter
C’è una scena, alla fine della settima puntata della prima stagione di Love
(la nuova serie tv di Netflix prodotta da Judd Apatow e uscita il mese
scorso) che in un paio di minuti riassume perfettamente il senso
dell’intera serie: i due protagonisti, Gus e Mickey, dopo un date
che definire disastroso è poco, finiscono a letto insieme. Iniziano su
una sedia, ancora mezzi vestiti, ma presto si spogliano e si spostano
nel letto vero e proprio. Se la serata fino ad allora era andata un po’
male ed era stata piena di momenti imbarazzanti – rompere il ghiaccio ad
un appuntamento, si sa, non è sempre facile – pare che tutto venga
superato nel momento in cui si smette di parlare con il linguaggio e si
inizia a parlare con i corpi. D’altra parte non è uno dei luoghi comuni
più tipici dell’ideologia contemporanea quello che dice che sono il
linguaggio e la razionalità che creano incomprensione, mentre con il
corpo, il contatto fisico e la sensibilità ci si capisce alla
perfezione?
Sì… fino a che lei non dice: “Senti, ti
fa niente usare il mio vibratore?” Gus, che è socialmente un po’
maldestro e non sempre a suo agio con il sesso femminile, sembra un po’
spiazzato e non troppo entusiasta della proposta, ma acconsente. Mickey
butta allora sul letto il mitico Hitachi Magic Wand (non esattamente il
meno intrusivo dei vibratori), glielo mette in mano e lo guida sul sesso
di lei, mentre la puntata stacca con una canzone indie-folk di Loudon
Wainwright III le cui prime parole sono “I Wonder Why You Love Me Baby”.
La sovrapposizione dello sguardo di Gus, tra l’impaurito e lo stranito,
e di Mickey che si lascia andare e che viene rumorosamente crea la
perfetta sintesi cinematografica di quello che Lacan definiva
“l’inesistenza del rapporto sessuale”. Attenzione, non la sua immagine,
ma la sua sintesi: noi vediamo lo sguardo di lui e sentiamo lei. Non li vediamo entrambi nella stessa immagine.
Che cosa voleva dire infatti Lacan con
il fatto che il rapporto sessuale non esiste? Non certo che le persone
non abbiano rapporti sessuali, più o meno soddisfacenti, più o meno
frequenti. E nemmeno che la nostra vita sentimentale non possa portarci
gioie, dolori, momenti felici e momenti tristi, come accade in molte
altre sfere della nostra vita. No, Lacan voleva dire semplicemente che
non c’è una norma e una modalità che vada bene per tutti per “regolare”
quella che è un’equazione impossibile e uno squilibrio fondamentale
della nostra vita: il rapporto tra i sessi. Le equazioni – si sa – hanno
bisogno di due termini, mentre nel sesso i due termini non esistono. La
perfetta identificazione con il nostro sesso è impossibile, e questo
non solo perché le identità sessuali – come ci ricordano i movimenti
LGBT – sono molte più di due, ma perché il rapporto con il nostro corpo e
il nostro godimento pulsionale è un rebus indecifrabile di cui nessuno
possiede la chiave. E forse è proprio per questo che ne siamo così
ossessionati.
Lacan diceva anche che non esiste una
libido specificatamente maschile e una specificatamente femminile: il
piacere sessuale è dello stesso “tipo” per tutti e forse è da qui che
nasce la sempreverde illusione di una possibile fusione e di una
complementarietà dei sessi. A Hollywood lo si vede spesso quando ci sono
orgasmi sincroni, riuniti in una stessa immagine, dove i corpi sembrano
coltivare l’illusione di una perfetta intesa reciproca. Tuttavia la
clinica psicoanalitica mostra come la libido sessuale non passa da un
corpo all’altro, ma semmai mette in relazione il soggetto con un oggetto
che riguarda il suo di corpo. La relazione sessuale è
innanzitutto con il nostro corpo e con il nostro fantasma inconscio. È
per questo che la scena del rapporto sessuale di Mickey e Gus è così
efficace, perché mostra come il ruolo di Gus sia semplicemente quello di
aiutare Mickey ad avere un rapporto con il proprio godimento. Love
in questo sembra dare quasi ragione a Slavoj Žižek quando sostiene che
il vero modello di rapporto sessuale soddisfacente non è quello
dell’orgasmo sincrono ma quello di due persone che si masturbano
insieme.
L’interesse e la novità di Love sta proprio qui: nonostante presenti tutte le caratteristiche della classica rom-com
“alla Apatow” (protagonista maschile nerd e nevrotico che incontra una
ragazza molto più attraente di lui ma molto più scombinata, e che alla
fine viene “salvata” e redenta da lui) la sua struttura è quella del
non-rapporto tra uomo e una donna molto più che del loro “incontro”. I
due protagonisti – Gus, trentenne con la velleità di fare lo
sceneggiatore e che nel frattempo dà lezioni private sui set a star
adolescenti viziate e svogliate – e Mickey – produttrice radiofonica con
più di qualche problema di dipendenza da alcol e sesso occasionale – si
incontrano per caso e sembrano per tutta la serie mancarsi in
continuazione. Una sorta di “boy doesn’t meet girl”. Se prima è lui che si prende una cotta per questa ragazza fuori dagli schemi e un po’ wild
che sembra essere tutt’al più incuriosita ma non certo affascinata da
lui, ben preso le parti saranno rovesciate con esiti quasi drammatici.
Gli unici momenti in cui si potrebbero e dovrebbero incontrare sono
quelli in cui le nevrosi e idiosincrasie di entrambi finiscono per
rendere impossibili anche le cose che appaiono più semplici. L’incontro
d’amore pare essere sempre un incontro mancato.
Questo incontro mancato tra Mickey e Gus è anche una questione storica. Love ci fa vedere una relazione in un “an age of diminishing expectations”, citando The culture of Narcissism
di Christopher Lasch. Uno dei temi fondamentali della serie è infatti
il rapporto tra la costruzione narcisistica e il proprio desiderio: Gus e
Mickey oscillano tra crolli di autostima e senso di onnipotenza, tra
l’ostinata adesione al proprio life-style e desiderio impellente di
rivalsa o crescita. Tutta quest’ansia di autodefinizione, che sembra
assorbire gran parte delle loro energie – un aspetto tipico della
riflessività delle upper middle-class urbane americana – funziona da schermo per evitare l’angoscia che provoca l’incontro con l’altro sesso.
Ormai è diventato un luogo comune dire
che il narcisismo sia la malattia del nostro tempo quasi a volerne dare
una caratterizzazione morale, eppure spesso ci si dimentica di quanto la
dialettica narcisistica si basi sull’indistinzione tra il culto di sé e
una ben più profonda – anche se spesso denegata – competizione e
sospetto nei confronti della propria immagine. La costruzione
narcisistica del sé è infatti un progetto impossibile prima ancora che
egoista o poco desiderabile. E tuttavia faremmo un errore a ridurre le
nevrosi di Gus e Mickey a delle semplici idiosincrasie personali.Love mette sempre la relazione tra i due protagonisti dentro
al mondo e ci mostra come il loro narcisismo non sia solo una questione
individuale ma faccia parte a tutti gli effetto dello spirito dei
tempi. Lo vediamo soprattutto nel modo con cui vengono rappresentati
nella serie i rapporti di lavoro: Mickey cede calcolatamente alle
avances del suo capo per poterlo ricattare in caso di licenziamento, Gus
conserva il suo posto di lavoro solo grazie al rapporto di amicizia
costruito con la ragazzina attrice a cui fa da tutor. Assistiamo insomma
a una progressiva indistizione di vita e lavoro, costruzione della
propria identità e della propria carriera professionale. In un mondo del
lavoro che si basa esclusivamente sul concetto di “network” e
auto-imprenditorialità ma che in realtà coltiva solo la competizione
orizzontale al ribasso tra pari, la costruzione del proprio sé e delle
proprie relazioni è a un tempo una questione personale e
sociale. Il risultato è che ogni che ogni volta che sorge un problema,
questo diventi immediatamente segno di un proprio fallimento
individuale. È anche per questo che Mickey e Gus sono sempre in guerra
con il mondo: si sentono perennemente minacciati e per questo aprirsi
all’incontro con l’altro e sostenere l’angoscia che provocherebbe sembra
essere un ostacolo insormontabile.
I personaggi di Love hanno
anche tutti i tratti tipici dell’autoriflessività delle classi colte
urbane. Ogni esperienza viene mediata dall’autonarrazione di sé, dalla
foto postate su instagram, dai messaggi che vengono mandati agli amici.
La vita e la narrazione della propria vita diventano un tutt’uno
indistinto (che viene significativamente “raddoppiato”
dall’identificazione da parte di uno spettatore o spettatrice che
verosimilmente appartiene alla stessa estrazione sociale dei personaggi
rappresentati). È come se la vita non possa che essere vissuta tramite
un “vedersi vivere” – come si vede nella scena in cui Gus si disfa dei
suoi blue ray lanciandoli dalla macchina – in un gioco continuo di
rappresentazione di rappresentazioni e di scatole cinesi dal quale pare
non esserci via d’uscita. In questo senso l’ossessione per l’autenticità
– un topos cruciale del cinema indie americano post-anni Novanta, si
veda a proposito il cinema di Noah Baumbach – è una figura non solo
della sua perdita ma anche del fatto che la consapevolezza è diventata
una forma di dissimulazione della propria vita più che contenere una sua
possibilità di cambiamento. La scena più importante in questo senso è
quella del nono episodio in cui il disincanto avviene sotto ai nostri
occhi. Mickey, dopo i ripetuti rifiuti di Gus, si ribella al cliché che
lui si è costruito di lei: “Surprise, I’m not the cool girl. I’m not
some girl that you can fuck for a while to prove to yourself that you
can be dangerous, and edgy, and you’re not some huge dork, and then you
go off and marry whatever boring lady” (“Sorpresa! Io non sono la tipa cool.
Quella che ti scopi per un po’ solo per fare quello trasgressivo e
pericoloso e non essere solo lo sfigato che sei; e poi magari chiudi
tutto e ti sposi la prima che capita”). Lui le fa notare di essere stato
idealizzato (e usato) da lei a sua volta: “That’s what I am to you. I’m
just this fucking dork, huh? I’m this fucking dork who you fuck and
then you can feel like you’re getting your life together ’cause you’re
fucking a nice guy and you’re not fucking a piece of shit anymore” (“Ah,
perché io sono questo per te? Sono solo uno sfigato, eh? Sono uno
sfigato di merda che ti puoi scopare solo per illuderti di tirare
insieme la tua vita perché ti stai scopando un tipo normale e non più un
coglione”). In questo senso Love sembra un saggio sul momento in cui l’ironia smette non solo di essere dissacrante ma anche di essere rassicurante.
La consapevolezza auto-riflessiva dei protagonisti di Love li rende anche perfettamente liberal,
fedeli al contesto progredito e colto di cui fanno parte. In questo
senso, oltre che postmoderni, sono anche “postpatriarcali”. Mickey e Gus
non sono la tipica (e demodé) combo maschio alfa/donna romantica, anzi,
la resistenza di lei a lasciarsi andare all’illusione e
all’idealizzazione della coppia, allegorizzata dal suo scetticismo nei
confronti dei giochi di prestigio, è il perfetto contraltare alla
prudenza impacciata e poco virile di Gus.
Ma anche questo scambiarsi di ruolo è in realtà ormai diventata una nuova norma proprio per via della sua consapevolezza autoriflessiva ribaltatasi in dissimulazione.
È ormai un genere, un brand, cui segue un irrigidimento sia a livello
estetico (il contesto produttivo del resto lascia spazio a pochi dubbi
su che tipo di prodotto aspettarsi) che a livello di una riflessione sul
genere che non scioglie nessuno dei nodi delle rappresentazione
patriarcali più “classiche”. Che anche il mondo “alternativo” del
cosiddetto indiewood non fosse sempre immune a un certo tipo di discriminazione della figura femminile lo dimostrano serie come New Girl (http://www.grazia.it/stile-di-vita/cinema-e-tv/zooey-deschanel-fanciulla-da-salvare-2-0) in cui Zooey Deschanel è in fondo la solita damsel in distress,
la ragazza abbastanza svampita da essere inconsapevole del proprio
fascino, bisognosa di un uomo che la riporti sulla terra. Così come
legata alla dipendenza dalla figura maschile ma diametralmente opposta
nella sua aggressività è la figura della cool girl,http://www.buzzfeed.com/annehelenpetersen/jennifer-lawrence-and-the-history-of-cool-girls#.aw9kWYMYZ7, a cui Mickey, con la sua aria wreckless e bad ass
appartiene di diritto. In questo senso Mickey sembra sottostare a
quello che Angela McRobbie chiama “new sexual contract”, il nuovo tacito
accordo su cui si negozia oggi la femminilità: l’indipendenza
(simulata, nel caso di Mickey) della donna è permessa solo al prezzo di
essere attraente e sessualmente disponibile, disposta cioè a considerare
il proprio corpo come una merce di scambio in una perversione
postfemminista del principio di autodeterminazione.
Damsel in distress e cool girl si incontrano non a caso nel concetto di manic pixie dream girl.
Il tropo, individuato dal critico Nathan Rabin, non ha dei tratti
necessariamente definiti, può spaziare dalla donna naif al maschiaccio
alla femme fatale: quello che conta è che incarni e renda possibile un cambiamento nel protagonista maschile del film. La pixie,
a differenza di quest’ultimo, non è un individuo, è una proiezione. Una
figura che potrebbe essere stata partorita direttamente dalla mente del
protagonista (lo dimostra l’iperbole di un film come Ruby Sparks, che parte proprio da questa premessa). Anche Love
non è immune da questo immaginario nel mostrarci il rapporto tra Mickey
e Gus – non è probabilmente un caso che l’attore che impersona
quest’ultimo, Paul Rust, sia anche sceneggiatore (insieme a sua moglie
Lesley Arfin e ad Apatow) della serie.
Per questo, tornando all’Hitachi Magic
Wand di cui sopra, se si volesse trovare una scena speculare di Mickey
che osserva il solipsismo del godimento di Gus sentendosene esclusa
dovremmo forse tornare a Magic, la settimana puntata della
serie diretta da Steve Buscemi, dove al primo appuntamento Gus porta una
Mickey per nulla entusiasta a un super-esclusivo spettacolo di magia.
In quel frangente vediamo che Gus letteralmente gode nel vedere i numeri
di magia susseguirsi sul palco, mentre la presenza di Mickey non solo
non si fa “strumento” del suo godimento (come fa Gus nella scena
dell’Hitachi Magic Wand) ma addirittura ne diventa un ostacolo quando
finisce per farsi cacciare fuori dal locale dai buttafuori.
Se al termine della puntata Gus
“accetta” quasi magnanimamente di diventare “strumento” del godimento
femminile della sua partner, Mickey invece se ne fa “ostacolo” nel
momento in cui si tratta di dover “aiutare” il godimento masturbatorio
maschile. Il rischio è che – proprio perché la serie segue molto più da
vicino e con sensibilità molto maggiore la personalità di Gus, che è il
vero detentore del punto di vista sull’intera vicenda – venga insinuato
un po’ subliminalmente nello spettatore un certo rimprovero per una
femminilità minacciosa, emotiva, instabile e tutto sommato poco
affidabile che non sottosta alla regola aurea hollywoodiana della
specularità dei godimenti (“se tu mi fai godere del mio piacere
masturbatorio nel vedere lo spettacolo di magia, io poi ti farò godere
del tuo”). Ma se la sessualità speculare esiste anche in una serie tutta
“al femminile” e famosa per le scene di sesso akward come Girls
– dove in una puntata dell’ultima serie assistiamo a una scena
stranamente erotica di masturbazione “in sincrono” – ciò che rende Love così interessante è proprio l’inevitabile asimmetria dei godimenti.
Che ne sarà del rapport sexuel
nella fase della post-postmodernità? Lo scopriremo, forse, nella
prossima stagione. Ma qualche indizio c’è anche in questa, anche se i
due non stanno ancora insieme. O forse proprio per questo motivo. Ian
Crouch ha scritto sul New Yorker che Love sembra volerci dire che una storia d’amore riguarda soprattutto i due innamorati presi singolarmente.
Come dice Badiou l’amore è soprattutto un’esperienza della differenza.
Per la maggior parte del tempo noi vediamo Gus e Mickey stare con i loro
amici, avere problemi o momenti di svago con i propri coinquilini e con
i vicini, con i colleghi di lavoro, con i passanti per strada. Perché
l’amore è soprattutto una passione della differenza che cambia
radicalmente il proprio stare al mondo – anche quando in questo stare al
mondo il proprio partner non c’è – più che essere (solo) un’esperienza
di unione e di simbiosi.
da Le parole e le cose
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