Albrecht Dürer, Studio
per una testa di apostolo, particolare
Erasmo, fiammingo radicale in un'era di fuoco
Massimo Firpo
Erasmo da Rotterdam fu
senza dubbio uno dei grandi sconfitti della lacerante crisi religiosa
del Cinquecento, le cui tensioni di rinnovamento cristiano finirono
in larga misura con lo sfociare nella nascita di nuove Chiese
istituzionali fondate su rigide ortodossie teologiche e su
altrettanto rigidi principi di obbedienza al magistero delle autorità
costituite. Dalla lotta contro gli intollerabili abusi, la profonda
corruzione e gli errori della Chiesa di Roma, insomma, scaturirono
non solo la frantumazione confessionale della christianitas
europea e una lunga stagione di lotte religiose, ma anche
l'affermarsi di nuovi autoritarismi ecclesiastici variamente protesi
a realizzare, in sostanziale accordo con i poteri politici, strategie
di disciplinamento sociale, di controllo delle coscienze, di
repressione del dissenso. In questa prospettiva a Erasmo toccò lo
sgradevole destino di essere condannato e vilipeso da entrambe le
parti delle barriccate teologiche che si vennero allora costruendo.
«Aut Erasmus lutherizat, aut Lutherus erasmizat»,
denunciavano i teologi cattolici, convinti che l'eresiarca sassone si
fosse limitato a covare le uova deposte dal perfido umanista
fiammingo. Dopo qualche blando corteggiamento della curia romana per
attirarlo entro la propria orbita al fine di utilizzare nelle
battaglie controversistiche il suo straordinario prestigio culturale,
egli non tardò a diventare oggetto di aspre polemiche, fino
all'inclusione dei suoi Opera omnia nel primo Indice romano del 1558.
Né miglior fortuna gli arrise nel mondo riformato, dove il De
servo arbitrio da lui pubblicato contro Lutero nel 1524 lo fece
apparire non solo come un pericoloso avversario, che aveva cercato di
stroncare sul nascere La Riforma, ma anche come un mediocre teologo,
incapace di districarsi dagli errori della Chiesa papale. Non del
tutto arbitrariamente, invece, a rivendicarne l'eredità furono gli
eretici radicali come gli antitrinitari da tutti esecrati e
perseguitati alle origini del socinianesimo europeo.
Pur oggetto di unanimi
invettive e condanne, tuttavia, la grande lezione filologica,
intellettuale e morale di Erasmo sopravvisse tenacemente in
molteplici filoni carsici della cultura europea, fino alla sua
riscoperta tra Sei e Settecento, sullo sfondo di quella profonda
crisi della coscienza europea che metteva fine al lungo secolo di
ferro delle feroci guerre di religione e apriva la strada alla nuova
stagione dei Lumi. Fu allora, tra il 1703 e il 1706, che Jean Leclerc
(autore dell'Ars critica e professore nel seminario
rimostrante di Amsterdam - nella libera Olanda - dove era ben viva la
tradizione sociniana) ripubblicò a Leida in dieci massicci volumi in
folio gli Opera omnia di Erasmo, sui quali sono basate le
traduzioni degli Scritti religiosi e morali, ora pubblicati
nei «Millenni» Einaudi (a cura di Cecilia Asso, progetto editoriale
e introduzione di Adriano Prosperi, pp. LV-564, € 78,00). Ma ancor
oggi la memoria storica del suo nome è spesso accompagnata da una
mistificatoria fama di uomo incerto e timoroso, declinata ora in
chiave di saggio moderatismo ideologico (così lo ha voluto
presentare qualche anno fa Silvio Berlusconi, forse l'antitesi più
perfetta di Erasmo che mente umana possa concepire), ora in chiave di
ambigua pusinanimità o addirittura di mediocre opportunismo, come
una banderuola esposta a tutti i venti, secondo l'immagine coniata da
un esule italiano religionis causa qualche anno dopo la sua morte,
avvenuta a Basilea nel 1536.
In realtà Erasmo fu
capito assai meglio da Hans Holbein che lo ritrasse in una celebre
tavola del '25, nel pieno dello scontro con Lutero, avvolto in
un'elegante pelliccia, con lo sguardo acuto e sereno nel volto
affilato, e le lunghe mani poste su un grande volume rilegato in
pelle rossa (uomo del libro egli fu quant'altri mai), sulle cui coste
si legge - oltre al suo nome -, in greco, Le fatiche di Ercole.
Vera e propria fatica di Ercole era stato infatti il suo immane
lavoro di umanista e di teologo per risalire alle fonti più antiche
e autorevoli della dottrina cristiana e offrirle ai suoi
contemporanei nella loro veste originaria, depurate dalle corruzioni
testuali e dalle incrostazioni scolastiche: la clamorosa edizione del
testo greco del Nuovo Testamento apparsa a Basilea nel 1516, e poi
una dietro l'altra le massicce edizioni in folio dei grandi Padri
della Chiesa, Agostino, Ambrogio, Girolamo, Cipriano, Ireneo, Ilario,
Giovanni Crisostomo, Gregorio di Nazianzo, Basilio, Origene. C'era,
in quel lavoro ciclopico, fondato sulla grande lezione filologica di
Lorenzo Valla (di cui nel 1505 Erasmo pubblicò le Adnotationes in
Novum Testamentum), sulla conoscenza delle lingue sacre - il
latino, il greco e l'ebraico - e su una sterminata cultura classica,
la cifra ultima del suo umanesimo cristiano, della sua «militia
Christi», vale a dire l'impegno a riscoprire il cristianesimo nella
sua purezza primigenia, nell'autentica parola di Dio, nel suo
messaggio di carità e giustizia. Quali ne fossero le conseguenze sul
piano della concreta pratica di vita fu egli stesso a dirlo, cercando
di convincere i suoi riottosi contemporanei ad aderire a questa
rinnovata «philosophia Christi», in una miriade di scritti e
opuscoli ovunque stampati, e subito ristampati e tradotti, esempio
lampante delle nuove possibilità di circolazione delle idee offerte
dall'invenzione della stampa, capace di creare nuove forme di
opinione pubblica: il Morìae encomium (1511), 1'Enchiridion
militis christiani (1503, 1518), la Ratio verae theologiae
(1518), i Colloquia (1522), il De immensa Dei misericordia
(1524), l'Exomologesis, sive modus confitendi (1524), il Modus
orandi ad Deum (1524), la Christiani matrimonii institutio
(1526), l'Explanatio symboli apostolorum (1533), il De
sarcienda Ecclesiae concordia (1533), l'Ecclesiaste, sive de
modo concionandi (1535), per ricordare solo i più celebri.
Ed è appunto una ricca e
accurata edizione di scritti religiosi e morali che questo volume ci
offre, e che nell'introduzione Adriano Prosperi presenta con la
consueta finezza, sottolineando l'irriducibilità di Erasmo
all'abusato profilo dell'«uomo buono per tutte le stagioni», del
«sereno letterato immerso nei suoi libri che si lamenta per i
fragori della guerra», per sottolineare invece il radicalismo (il
radicalismo mite, si vorrebbe dire) della sua proposta religiosa.
Nella sua celebre affermazione secondo cui «monachatus non est
pietas», infatti, si celava non tanto la pungente vena anticlericale
che pure fu tutt'altro che estranea alle opere di questo ex monaco e
allo strepitoso successo che esse incontrarono da un capo all'altro
dell'Europa, quanto un'interpretazione spiritualistica del
cristianesimo che cozzava frontalmente con le pratiche superstiziose
e reificate del cattolicesimo contemporaneo: culto delle reliquie,
formalismo devozionale, indulgenze, pellegrinaggi, voti ecc. E vi si
esprimeva il bisogno di una religione autentica («pietas», la
definiva Erasmo, sottolineandone l'interiorità) che, se da un lato
rinviava alle fonti primigenie del cristianesimo, dall'altro ne
richiamava l'originaria valenza anzitutto morale, che metteva in
secondo piano le sterili sottigliezze teologiche in cui si erano
arenate le astruse dispute della tarda scolastica e che proprio in
quegli anni si accingevano ad affilare le armi metaforiche della
controversistica e quelle reali delle guerre di religione e della
repressione inquisitoriale. Proprio per questo egli scelse di
battersi contro Lutero («Eleutherius», come lo aveva definito in un
primo momento) non sull'autorità della Chiesa e dei canoni, ma sulla
questione della predestinazione e della libertà dell'arbitrio; e
Lutero, teologo tutto d'un pezzo, lo esecrò come blasfemo ma gli
diede atto del fatto che «solo fra tutti» il grande umanista
fiammingo aveva «affrontato la vera questione, il punto cruciale
cioè, senza importunarmi con altri problemi fuori luogo, come il
papato, il purgatorio, le indulgenze e cose simili, sciocchezze più
che vere questioni». La sopravvivenza dell'eredità erasmiana nella
tradizione sociniana e rimostrante, del resto, si spiega appunto con
la sua rivalutazione di un cristianesimo interiorizzato, fondato
sulla lettura della Bibbia, incentrato sulla pratica dell'amore
reciproco più che sull'ortodossia dottrinale, e quindi
teologicamente flessibile, tollerante, disponibile ad approcci
soggettivistici, nemico di ogni violenza e di ogni imposizione
autoritaria della fede. Ed è forse per questo che non ne sono
mancate moderne e decontestualizzate riproposizioni in chiave
ecumenica, suggerite dall'appello da lui formulato nel 1533 affinché
tutti «si comportino secondo coscienza di fronte a colui che conosce
il cuore degli uomini» e «si discuta con moderazione nelle dispute
teologiche».
La sua esortazione a una
«modica theologia» fu tuttavia sconfitta dagli eventi, spesso
guidati da teologi che pure sui suoi scritti si erano formati, come
Zwingli, Melantone, Ecolampadio, come sottolinea Prosperi, e con essa
il suo sforzo di tradurre «i valori della cultura antica in un modo
diverso di concepire e di vivere il cristianesimo». L'età
dell'Umanesimo veniva travolta da quella della Riforma, che rifluiva
invece nei modelli neoscolastici della nuova apologetica
confessionale e nel rigorismo dottrinale delle nuove ortodossie
ecclesiastiche. La paura delle eresie indusse la Chiesa cattolica a
proibire ai fedeli la lettura della Bibbia in volgare e a imporre ai
teologi l'uso della Vulgata, condannando con un tratto di
penna la filologia erasmiana che, lungi dal configurarsi come mero
esercizio di erudizione, era anzitutto scrupolo di verità che
«diventava strumento della pietà» (Prosperi): «Io dissento
totalmente - aveva scritto - da coloro che non vorrebbero che il
popolo leggesse le Sacre Scritture tradotte in volgare, come se
Cristo avesse insegnato cose così astruse da poter essere capite
solo da un gruppetto di teologi, o come se la massima sicurezza della
religione cristiana consistesse nell'essere ignorata».
Da Alias il manifesto, 7
agosto 2004
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