24 agosto 2016

PROFUGHI IERI E OGGI



Pubblichiamo la prima di un reportage in tre puntate di Matteo Nucci apparso sul Venerdì di Repubblica, che ringraziamo. (Fonte immagine)

La rotta dei profughi antichi

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ILDIR (Turchia). I primi a prendere il mare in fuga, secondo i miti più antichi, furono ragazzi troiani. Nessuna guerra. Nessun nemico. A spingerli su barche solide, di notte, nel silenzio del mare nero di fronte a Tenedo, furono i genitori delle famiglie più importanti in città, terrorizzati dalle richieste di Apollo. Era una storia di errori non più rimediabili quella in cui finirono per trovarsi. Il rifiuto di pagare il tributo agli dèi che avevano aiutato Troia a munirsi di mura impenetrabili fu l’origine di ogni male.
Poseidone e Apollo inviarono mostri marini e epidemie, poi di fronte alle richieste di perdono, proposero che venissero immolati i giovani rampolli delle famiglie più in vista. È difficile spiegarsi oggi come mai, se il mare di Poseidone poteva rappresentare il peggior nemico, si scelse proprio il mare per la fuga. Sappiamo comunque con sicurezza che almeno uno di questi ragazzi – Egesta, figlia di Ippote – non annegò fra i flutti. Arrivò a costeggiare Chios poi la barca su cui fuggiva il sacrificio si spinse in mare aperto verso le coste del Peloponneso, s’inoltrò fino alle isole ioniche, raggiunse il sud Italia, superò la punta dello stivale e arrivò in Sicilia.
Qui di lei, Crimiso, dio fluviale, s’innamorò. E per possederla, da fiume che era, si trasformò in orso. Il bimbo che nacque prese il nome della madre e divenne famoso come Egeste. Sarebbe stato lui a aiutare Enea quando, anni più tardi, l’eroe troiano avrebbe condotto in Sicilia eppoi in Italia i primi veri profughi, quelli destinati a creare la grandezza di Roma.
Oggi, a Troia, è difficile individuare le mura invincibili che furono oggetto del contendere fra gli dèi e i cittadini ingrati. Aggirandosi fra i numeri romani che scientificamente indicano le molte epoche attraversate dalla città, si perde facilmente il conto. La Troia I affonda attorno al 3000 a. C. e la Troia sconfitta dagli Achei dovrebbe forse essere la Troia VII quella del 1300. Certo, stando ai racconti, le sue mura riuscirono a contenere ogni attacco e solo il celebre artificio del cavallo permise ai greci di entrare in città e seminare morte e rovina. Fu in quella notte peraltro che Enea, caricandosi sulle spalle il padre Anchise, seguito da un gruppo di cittadini, riuscì a prendere il mare e “aprire le vele ai fati” come scrive, immenso, Virgilio.
Era primavera, Enea pensava alla moglie Creusa perduta durante la fuga e non ai ragazzi che anni prima erano stati accompagnati dai genitori oltre il corso dello Scamandro (che oggi è un piccolo fiume dai turchi chiamato Kara Menderes), sulla riva del mare che un tempo mangiava la terra dove oggi sorge il paesino più estremo, Kumkale. Da queste parti, la fuga troiana non viene in mente a nessuno dei vecchi assiepati di fronte alle televisioni che per mesi hanno trasmesso immagini di siriani e afghani in fuga dalle coste turche. Bisogna scendere di poco a sud, dove oltre alle immagini televisive, la storia recente è palpabile e s’intreccia perfettamente con la storia antica.
Basta guidare lungo la costa di fronte a Lesbo. O, ancora meglio, tra Çeşme e Küçükbahçe, sulla penisola che protegge il grande golfo di Izmir, per farsi un’idea della dimensione con cui ha a che fare chiunque abbia voluto nei secoli abbandonare l’Asia Minore sul “mare color del vino”. Le rotte da seguire, ossia i “sentieri di mare” stando alla meravigliosa formula usata dai cantori omerici, sono visibili a occhio nudo. Piccole isole disabitate garantiscono approdi di passaggio e il mare è come un lago. Chios è a un passo e pare che uno possa contarne le case nei momenti di cielo limpido. Quando i greci decisero di insediarsi su queste coste per ampliare il proprio dominio sul Mediterraneo e costruire ponti commerciali verso l’Oriente, alcune delle più importanti città furono edificate su rocche sacre da cui fosse possibile controllare il mare e i suoi sentieri.
A Ildir ne avrete una chiara potentissima percezione. Il monte appare all’improvviso, sull’ampia baia, e nessuna indicazione lascia presagire che lassù si trovasse l’acropoli di una delle città più importanti fra le dodici colonie ioniche: Eritre. Eppure un’impressione di misteriosa sacralità vi porterà con sé. Dalla cima, fra i resti in abbandono del teatro e la vegetazione che inghiottisce il tempio, guarderete davanti a voi il braccio di mare che vi divide dalle isole greche. Sentirete la voglia di ritorno che curavano i greci antichi costruendo città sul loro mare e percepirete la magica impressione di libertà che deve aver assalito chiunque abbia deciso nella storia di fuggire.
Di là della penisola, un’altra città antica ci racconta perfettamente la storia. A Focea, oggi Foça, tutto accadde in una notte. Era la primavera del 545 a.C. e Arpago, comandante delle truppe persiane diede ai focei il suo ultimatum. Essi risposero chiedendo una notte per decidere se consegnarsi o combattere, ma già sapevano cosa fare. Scesero in massa dall’acropoli costeggiando le grandi mura che avevano costruito con il denaro di un ricco possidente iberico. Calarono in acqua le penteconteri, navi da guerra con cui erano abituati a solcare i mari, le riempirono di figli e mogli, masserizie, statue dei templi e altri doni escluso tutto ciò che era di bronzo, poi s’imbarcarono e lasciarono la città vuota. Cinquanta uomini remavano in ciascuna delle imbarcazioni e in poche ore furono alle piccole isole Inousses, eppoi a Chios.
Oggi, Foça è cittadina di vacanza e di ristoranti di pesce. Magnifiche imbarcazioni sono ancorate nel doppio porticciolo che ancora caratterizza la città di mare. Sull’acropoli, pochi resti della grandezza che fu. Non si fugge più da qui. Neppure da Teos (dalle parti dell’odierna Akkum) che secondo Erodoto seguì l’esempio di Focea pochi mesi più tardi. Né da Colofone (poco a est di Teos nell’entroterra) che già un secolo prima aveva messo in mare uomini e donne in fuga dalla guerra che arrivava dal regno di Lidia. Per seguire le tracce delle fughe odierne si deve tornare sulla costa di Çeşme, sotto all’antica Eritre da cui dominiamo il breve spazio di mare che separa la Turchia dalla la Grecia di Chios.
Ildir è un piccolo paese affollato da una troupe che gira una serie tv turca, in questi giorni. Atatürk domina ancora sulle pareti di bar e ristoranti. Il futuro però è incerto. Su queste coste per mesi si sono affollati uomini e donne in fuga ma pochi sono coloro i quali vorranno parlarvene. Perlopiù si sente raccontare che tutto quanto, in un attimo, come era cominciato è anche finito. Pochissimi i segni di un passato che sembra già remoto nella stessa Çeşme, il punto più vicino a Chios. Anche gli hotel abbandonati che portavano i segni del passaggio dei profughi di oggi, immortalati in molte foto, sono stati ripuliti. Tutto va consegnato all’oblio, dopo i patti che Erdogan ha stretto con l’Europa.
I profughi semplicemente non si vedono più. Sono chiusi nei campi. Chi aveva tentato di lavorare e ambientarsi ha abbandonato. Sono uomini e donne di cui non si ha piacere di parlare. Neppure fossero i nemici greci, quelli che nel 1922, finita la guerra greco-turca con la disfatta greca, fuggirono dalle città che avevano occupato fin dall’antichità. Oltre un milione di greci fu costretto rocambolescamente a mettersi sui sentieri di mare. Le immagini più celebri sono quelle di Smirne in fiamme.
Oggi nessuno sarebbe capace di rievocarle, sul lungomare modernissimo che ha cambiato il volto di Izmir. Ma un giovane cronista americano fece in tempo a consegnarle all’eternità. Lui si chiamava Ernest Hemingway e Sul quai di Smirne finisce così “Quando si ritirarono non potevano portarsi dietro tutti gli animali da soma, così gli spezzarono le zampe anteriori e li gettarono nell’acqua. Tutti quei muli con le zampe anteriori spezzate, spinti nell’acqua bassa. Era una faccenda divertente. Parola mia, sì, una faccenda molto divertente”. Così divertente che non c’è greco che l’abbia dimenticata.
(Parte 1 – continua)

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