09 agosto 2016

UN LESSICO DEL 900: NATALIA GINZBURG



Cento anni fa nasceva Natalia Levi, meglio conosciuta come Natalia Ginzburg. Una voce importante della letteratura italiana del Novecento, ma soprattutto una donna eccezionale, testimone combattiva di un'epoca. La ricordiamo con due articoli apparsi su L'Avvenire e il Manifesto.
Massimo Onofri

A cent’anni dalla nascita. Natalia Ginzburg, lessico del ‘900


Rintocca oggi il centenario della nascita di Natalia Levi, la quale però si firmò sino alla fine col cognome del marito col quale condivise anche il confino: Leone Ginzburg, il brillantissimo slavista, il rigoroso intellettuale di "Giustizia e libertà", il martire antifascista morto in carcere nel 1944. La Ginzburg è stata una protagonista della letteratura italiana del secondo Novecento, non solo con i suoi libri – a cominciare dall'esordio del 1942, La strada che va in città, con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte –, ma anche in virtù del suo lavoro editoriale svolto per Einaudi.
Per tracciare oggi un bilancio della sua opera, risulta fruttuoso un confronto con quella di due altri scrittori, per altro suo coetanei: Giorgio Bassani, anche lui nato nel 1916, e Lalla Romano, che invece è del 1906.
Ecco: nominare Ginzburg e Bassani significa richiamare subito la questione ebraica italiana. Non è un caso che, a sconsigliare la pubblicazione per Einaudi di Se questo è un uomo (1947) di Primo Levi, sia stata proprio la Ginzburg. Ma torniamo al rapporto con Bassani. Se vogliamo, Lessico famigliare (1963) può essere considerato la risposta a Il giardino dei Finzi-Contini (1962) di Bassani.
Se infatti i Finzi-Contini, dentro la comunità ebraica ferrarese, esibiscono subito un'antropologia della diversità, poi dolorosamente pagata, che si traduce in disinvolta ostentazione di agio, in orgoglioso antifascismo, a fronte del facile conformismo di quasi tutti gli altri ebrei, la famiglia del Lessico, non per questo risparmiata dal fascismo, la incontriamo subito mimetizzata in un interno borghese molto italiano, poco interessata, nella sua quotidianità, a professare un'esplicita coscienza ebraica.
Per intenderci meglio: il Lessico, ambientato tra i primi anni Trenta e i prima Cinquanta, riporta ogni evento alla misura allegra e ciarliera delle sue ragazze in fiore, che s'ostinano a misurare ogni evento sul metro d'una famiglia ebrea, che però non rinuncia mai, anche nei momenti di tragedia incipiente, a dichiararsi italiana e normale.
Siamo arrivati, così, alla seconda questione, là dove appunto la Ginzburg incontra la Romano (ma anche Luisa Adorno, se si vuole, la quale, nel 1962, la precedette, nel ritorno alla letteratura di memoria al femminile, con L'ultima provincia): e cioè la famiglia. Con tutte le implicazioni d'autobiografismo ed egotismo che l'accostamento tra le due comporta.
Uno dei libri più belli della Ginzburg, non per caso, è La famiglia Manzoni (1983), indagata con implacabile ostinazione nel rinserramento o nell'allentamento dei legami biologici, nell'odio e nell'amore, persino in ogni futilità, insomma in tutti quei fatti che, come scrisse Garboli, «si creano nella promiscuità di una tana». Tra La strada e il Lessico (con la sua pastosa lingua di "malagrazie", "potacci", "sbrodeghezzi": il lessico, appunto, d'una piccola comunità), c'è tutta la gamma di sentimenti e risentimenti sperimentati dalla Ginzburg nei confronti della "tana": la voglia di aprirne porte e finestre per incontrare il mondo alla ricerca di sé, nel primo romanzo; la pacificazione con essa attraverso la memoria, nel secondo.
Quando poi aggiungessimo un racconto lungo come Famiglia (1977), avremmo anche la perlustrazione, ma sempre in un quadro di "normalità", delle ragioni della crisi che quei legami di sangue problematizzano. Siamo di fronte, insomma, a una scrittrice ad altissima temperatura antropologica, la quale, quando dice "io", lo fa però a un grado zero di narcisismo, in quanto si tratta sempre di un "io" con famiglia, che nella famiglia si dissolve. All'opposto della Romano: la quale, nei suoi romanzi autobiografici disarticola la famiglia in una serie di rapporti "io-tu", poco importa si tratti della madre (La penombra che abbiamo attraversato, 1964), del figlio Piero (Le parole tra noi leggere, 1969), o del marito (Nei mari estremi, 1987), o di chissà chi altro ancora.
Avvenire.it – 14.07.16
Graziella Pulce
Natalia Ginzburg, la luce dal pozzo oscuro
Datato «luglio 1933», Un’assenza è per dichiarazione autoriale il primo racconto portato a compimento dalla diciassettenne Natalia Ginzburg dopo vari tentativi. Ed è questo il titolo che il curatore Domenico Scarpa ha dato al volumeUn’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933-1988 (Einaudi, pp. 366, euro 18) nel quale vengono riuniti una quarantina di pezzi, per la maggior parte sparsi e mai raccolti prima, con inediti: il racconto Tradimento, la prima versione 1933 di Settembre e il frammento Nel pomeriggio del 9 settembre; inediti anche alcuni corposi e interessantissimi stralci di scritti riportati nella postfazione.
Le due sezioni, «Racconti» e «Memorie e cronache», sono seguite da un’Appendice che include due testi inediti di Rocco Scotellaro sulla Ginzburg e la nota lettera scritta da Alba de Céspedes all’autrice in risposta all’articolo Discorso sulle donne (1948), anch’esso qui ricompreso. L’edizione si presenta arricchita di preziose note ai testi che indirizzano il lettore ad una puntuale contestualizzazione dei pezzi.

I soggetti sono vari e sono inanellati da un elemento comune: la volontà di memoria come espressione di determinazione etica. Molte di queste memorie nascono come inchieste, reportage, interventi militanti sulla condizione femminile, sulla vita degli operai nelle fabbriche torinesi, sul mondo contadino. «Fu la prima donna moderna che io conobbi il ’47, umana e spregiudicata, sensibilissima e dura, animalesca e provocante, ma anche tenuta dentro il corpo da un fascino agli occhi, al volto». Scotellaro coglieva nel ’52 un elemento che è tuttora essenziale per definire l’atteggiamento adottato dall’autrice nei confronti del mondo da rappresentare, atteggiamento improntato al rigore di chi ha fatto la scelta di campo definitiva: espungere l’ottica del «privato» e i torbidi dell’ego e puntare ad un’ottica corale. Prova ne sono anche gli attacchi, che talora hanno la forza spiazzante dell’apoftegma: «Uno che arriva a Matera gli pare una città qualunque», «In Abruzzo non c’è che due stagioni: l’estate e l’inverno», «Ho passato l’infanzia a giocare da sola in un giardino».
Un’assenza permette di tracciare il percorso compiuto per conquistare la sicurezza di una voce autonoma, quella voce che Scarpa elegge a cifra risolutoria del libro. Una voce che s’impegna a rendere chiaro il più oscuro dei grovigli e scioglie tutti i nodi sulla base di assunti categorici. La convinzione morale di dover scrivere in vista di un intento civile era stata la risposta dell’autrice al disagio e al senso di colpa provati da gran parte degli scrittori del secondo dopoguerra, narcisisticamente ripiegati su se stessi o privilegiati osservatori delle ingiustizie sociali. È noto che la scrittrice fu paziente di Ernst Bernhard («Diceva che mi creavo dei falsi doveri») e la memoria La mia psicanalisi va letta a specchio con il Discorso sulle donne.
La decisione di interrompere l’analisi e la conclusione del Discorso indicano che Natalia Ginzburg scelse la via impietosa e dura: recidere i propri torbidi e impegnarsi nel lavoro per sé e per le altre donne per non cadere più nel pozzo oscuro dell’infelicità. Alba de Céspedes le suggeriva di non aver paura di scendere nel pozzo: «al contrario di te, credo che questi pozzi siano la nostra forza», perché nel pozzo le donne hanno la possibilità di conoscere quel che gli uomini non conosceranno mai, e di far germogliare in se stesse il sentimento della pietà. Quel suggerimento non fu seguito.

La soluzione adottata dalla scrittrice coincideva con la scelta di riconquistare la libertà e, nel suo caso, la parola, perché chi possiede le parole non è né debole né schiavo: «un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo». Di quelle ferite cui seguì la scelta radicale, mantenuta con fermezza negli anni a venire, la raccolta esibisce non poche cicatrici.

Il Manifesto – 3 agosto 2016

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