Cento anni fa nasceva
Natalia Levi, meglio conosciuta come Natalia Ginzburg. Una voce
importante della letteratura italiana del Novecento, ma soprattutto
una donna eccezionale, testimone combattiva di un'epoca. La
ricordiamo con due articoli apparsi su L'Avvenire e il Manifesto.
Massimo Onofri
A cent’anni dalla nascita. Natalia Ginzburg, lessico del ‘900
Rintocca oggi il centenario della nascita di Natalia Levi, la quale però si firmò sino alla fine col cognome del marito col quale condivise anche il confino: Leone Ginzburg, il brillantissimo slavista, il rigoroso intellettuale di "Giustizia e libertà", il martire antifascista morto in carcere nel 1944. La Ginzburg è stata una protagonista della letteratura italiana del secondo Novecento, non solo con i suoi libri – a cominciare dall'esordio del 1942, La strada che va in città, con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte –, ma anche in virtù del suo lavoro editoriale svolto per Einaudi.
Per tracciare oggi un
bilancio della sua opera, risulta fruttuoso un confronto con quella
di due altri scrittori, per altro suo coetanei: Giorgio Bassani,
anche lui nato nel 1916, e Lalla Romano, che invece è del 1906.
Ecco: nominare Ginzburg e
Bassani significa richiamare subito la questione ebraica italiana.
Non è un caso che, a sconsigliare la pubblicazione per Einaudi di Se
questo è un uomo (1947) di Primo Levi, sia stata proprio la
Ginzburg. Ma torniamo al rapporto con Bassani. Se vogliamo, Lessico
famigliare (1963) può essere considerato la risposta a Il giardino
dei Finzi-Contini (1962) di Bassani.
Se infatti i
Finzi-Contini, dentro la comunità ebraica ferrarese, esibiscono
subito un'antropologia della diversità, poi dolorosamente pagata,
che si traduce in disinvolta ostentazione di agio, in orgoglioso
antifascismo, a fronte del facile conformismo di quasi tutti gli
altri ebrei, la famiglia del Lessico, non per questo risparmiata dal
fascismo, la incontriamo subito mimetizzata in un interno borghese
molto italiano, poco interessata, nella sua quotidianità, a
professare un'esplicita coscienza ebraica.
Per intenderci meglio: il
Lessico, ambientato tra i primi anni Trenta e i prima Cinquanta,
riporta ogni evento alla misura allegra e ciarliera delle sue ragazze
in fiore, che s'ostinano a misurare ogni evento sul metro d'una
famiglia ebrea, che però non rinuncia mai, anche nei momenti di
tragedia incipiente, a dichiararsi italiana e normale.
Siamo arrivati, così,
alla seconda questione, là dove appunto la Ginzburg incontra la
Romano (ma anche Luisa Adorno, se si vuole, la quale, nel 1962, la
precedette, nel ritorno alla letteratura di memoria al femminile, con
L'ultima provincia): e cioè la famiglia. Con tutte le implicazioni
d'autobiografismo ed egotismo che l'accostamento tra le due comporta.
Uno dei libri più belli
della Ginzburg, non per caso, è La famiglia Manzoni (1983), indagata
con implacabile ostinazione nel rinserramento o nell'allentamento dei
legami biologici, nell'odio e nell'amore, persino in ogni futilità,
insomma in tutti quei fatti che, come scrisse Garboli, «si creano
nella promiscuità di una tana». Tra La strada e il Lessico (con la
sua pastosa lingua di "malagrazie", "potacci",
"sbrodeghezzi": il lessico, appunto, d'una piccola
comunità), c'è tutta la gamma di sentimenti e risentimenti
sperimentati dalla Ginzburg nei confronti della "tana": la
voglia di aprirne porte e finestre per incontrare il mondo alla
ricerca di sé, nel primo romanzo; la pacificazione con essa
attraverso la memoria, nel secondo.
Quando poi aggiungessimo
un racconto lungo come Famiglia (1977), avremmo anche la
perlustrazione, ma sempre in un quadro di "normalità",
delle ragioni della crisi che quei legami di sangue problematizzano.
Siamo di fronte, insomma, a una scrittrice ad altissima temperatura
antropologica, la quale, quando dice "io", lo fa però a un
grado zero di narcisismo, in quanto si tratta sempre di un "io"
con famiglia, che nella famiglia si dissolve. All'opposto della
Romano: la quale, nei suoi romanzi autobiografici disarticola la
famiglia in una serie di rapporti "io-tu", poco importa si
tratti della madre (La penombra che abbiamo attraversato, 1964), del
figlio Piero (Le parole tra noi leggere, 1969), o del marito (Nei
mari estremi, 1987), o di chissà chi altro ancora.
Avvenire.it – 14.07.16
Graziella Pulce
Natalia Ginzburg, la
luce dal pozzo oscuro
Datato «luglio 1933»,
Un’assenza è per dichiarazione autoriale il primo racconto portato
a compimento dalla diciassettenne Natalia Ginzburg dopo vari
tentativi. Ed è questo il titolo che il curatore Domenico Scarpa ha
dato al volumeUn’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933-1988
(Einaudi, pp. 366, euro 18) nel quale vengono riuniti una quarantina
di pezzi, per la maggior parte sparsi e mai raccolti prima, con
inediti: il racconto Tradimento, la prima versione 1933 di Settembre
e il frammento Nel pomeriggio del 9 settembre; inediti anche alcuni
corposi e interessantissimi stralci di scritti riportati nella
postfazione.
Le due sezioni,
«Racconti» e «Memorie e cronache», sono seguite da un’Appendice
che include due testi inediti di Rocco Scotellaro sulla Ginzburg e la
nota lettera scritta da Alba de Céspedes all’autrice in risposta
all’articolo Discorso sulle donne (1948), anch’esso qui
ricompreso. L’edizione si presenta arricchita di preziose note ai
testi che indirizzano il lettore ad una puntuale contestualizzazione
dei pezzi.
I soggetti sono vari e sono inanellati da un elemento comune: la volontà di memoria come espressione di determinazione etica. Molte di queste memorie nascono come inchieste, reportage, interventi militanti sulla condizione femminile, sulla vita degli operai nelle fabbriche torinesi, sul mondo contadino. «Fu la prima donna moderna che io conobbi il ’47, umana e spregiudicata, sensibilissima e dura, animalesca e provocante, ma anche tenuta dentro il corpo da un fascino agli occhi, al volto». Scotellaro coglieva nel ’52 un elemento che è tuttora essenziale per definire l’atteggiamento adottato dall’autrice nei confronti del mondo da rappresentare, atteggiamento improntato al rigore di chi ha fatto la scelta di campo definitiva: espungere l’ottica del «privato» e i torbidi dell’ego e puntare ad un’ottica corale. Prova ne sono anche gli attacchi, che talora hanno la forza spiazzante dell’apoftegma: «Uno che arriva a Matera gli pare una città qualunque», «In Abruzzo non c’è che due stagioni: l’estate e l’inverno», «Ho passato l’infanzia a giocare da sola in un giardino».
Un’assenza permette
di tracciare il percorso compiuto per conquistare la sicurezza di una
voce autonoma, quella voce che Scarpa elegge a cifra risolutoria del
libro. Una voce che s’impegna a rendere chiaro il più oscuro dei
grovigli e scioglie tutti i nodi sulla base di assunti categorici. La
convinzione morale di dover scrivere in vista di un intento civile
era stata la risposta dell’autrice al disagio e al senso di colpa
provati da gran parte degli scrittori del secondo dopoguerra,
narcisisticamente ripiegati su se stessi o privilegiati osservatori
delle ingiustizie sociali. È noto che la scrittrice fu paziente di
Ernst Bernhard («Diceva che mi creavo dei falsi doveri») e la
memoria La mia psicanalisi va letta a specchio con il Discorso sulle
donne.
La decisione di
interrompere l’analisi e la conclusione del Discorso indicano che
Natalia Ginzburg scelse la via impietosa e dura: recidere i propri
torbidi e impegnarsi nel lavoro per sé e per le altre donne per non
cadere più nel pozzo oscuro dell’infelicità. Alba de Céspedes le
suggeriva di non aver paura di scendere nel pozzo: «al contrario di
te, credo che questi pozzi siano la nostra forza», perché nel pozzo
le donne hanno la possibilità di conoscere quel che gli uomini non
conosceranno mai, e di far germogliare in se stesse il sentimento
della pietà. Quel suggerimento non fu seguito.
La soluzione adottata dalla scrittrice coincideva con la scelta di riconquistare la libertà e, nel suo caso, la parola, perché chi possiede le parole non è né debole né schiavo: «un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo». Di quelle ferite cui seguì la scelta radicale, mantenuta con fermezza negli anni a venire, la raccolta esibisce non poche cicatrici.
La soluzione adottata dalla scrittrice coincideva con la scelta di riconquistare la libertà e, nel suo caso, la parola, perché chi possiede le parole non è né debole né schiavo: «un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo». Di quelle ferite cui seguì la scelta radicale, mantenuta con fermezza negli anni a venire, la raccolta esibisce non poche cicatrici.
Il Manifesto – 3 agosto
2016
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