E' difficile trovare
qualcosa di interessante nel chiacchiericcio inconcludente di quel che
resta della sinistra italiana ridotta a trovare i suoi modelli nel
Papa e nel presidente Obama (per i più estremi c'è Bernie Sanders).Questo intervento di
Alberto Burgio, docente di filosofia all'Università di Bologna ed ex
deputato del PRC, ha il merito di porre con estrema chiarezza quello
che anche noi pensiamo essere il nodo del problema: non esiste a
sinistra possibilità di ripresa senza un serio lavoro di studio e di
ricerca sul presente (a partire dall'economia).
Alberto Burgio
Il neoliberismo
scambiato per riformismo capitalista
È sempre più insistente
la sensazione che la politica sia morta, ridotta a (mala)
amministrazione dell’esistente. Sono tante le possibili ragioni: la
deprimente ripetitività delle cronache; la desolante modestia dei
politicanti; l’assenza, soprattutto, di prospettive di là dalla
dittatura dei mercati, dallo stillicidio degli attentati e delle
stragi di migranti e, chez nous, dal dilagante malaffare, dalla
cronica indigenza delle finanze pubbliche e dall’inesorabile
immiserimento del mondo del lavoro. Naturalmente «morte della
politica» non è che uno slogan. Eppure questa formula suggestiva
contiene una verità interna sulla quale vale la pena di ragionare.
Partiamo dal dato più vistoso. Da decenni ormai nel cuore del mondo capitalistico la sinistra ha abbandonato le classi lavoratrici, spingendole alla protesta qualunquistica o tra le braccia delle destre nazionaliste e xenofobe. Oggi questo processo è persino plateale.
I democratici americani
non trovano di meglio che un’indomita paladina del potere
finanziario. I socialisti francesi mettono un paese a ferro e fuoco
pur di cancellare i diritti del lavoro dipendente. I laburisti
inglesi si industriano per sbarazzarsi del loro unico dirigente
radicale e il nostro Pd, votato ormai soltanto dalla buona borghesia
delle città, non fa che studiare il modo per blindare il sistema pur
di regalare ricchezza e potere alle oligarchie.
Il risultato è sotto gli
occhi di tutti. Milioni di americani poveri voteranno un miliardario
invasato e irresponsabile. Milioni di operai francesi si riconoscono
nella Le Pen. Milioni di proletari inglesi hanno dato retta a Farage
e Johnson. Milioni di italiani prendono sul serio addirittura Salvini
e Di Maio.
Definire questo fenomeno
diffusione dei populismi è solo un modo per tranquillizzarsi,
descrivendo le destre come banche cattive zeppe di spazzatura. Ma
quando si giudica senza capire, il giudizio è per forza viziato.
C’è una domanda che bisognerebbe porsi prima di precipitarsi a dare i voti, una domanda di ordine storico, che chiama fatalmente in causa le culture politiche dei gruppi dirigenti di quella che in tempi ormai lontani fu, almeno in Europa, una sinistra sociale di massa. Perché questa metamorfosi delle sinistre socialiste?
Perché, soprattutto,
in concomitanza dello sfondamento neoliberale che in Europa si
verifica dagli anni Ottanta e che aggredisce la sovranità
democratica dei corpi sociali, riduce al minimo diritti e redditi del
lavoro salariato, impone politiche economiche incentrate sul dominio
degli oligopoli industriali e dei potentati finanziari?
Il neoliberismo di Reagan e Thatcher era evidentemente un programma di destra: perché diviene subito – con Clinton e Blair – la stella polare della controparte, e come mai, soprattutto, lo rimane nei decenni di poi, nonostante l’evidenza dei suoi effetti rovinosi?
Sembra che porsi questi
interrogativi mentre affondiamo impotenti nella miseria materiale e
morale significhi rimuovere i problemi più urgenti, e invece è
l’esatto contrario.
Potremo tentare di uscire
da questa morta gora solo se finalmente capiremo le ragioni della
mutazione che ha trasformato in radice la parte politica che nel suo
complesso, con le sue molteplici articolazioni, nei trent’anni
successivi alla guerra mondiale aveva fatto valere le ragioni del
mondo del lavoro e difeso gli interessi delle classi subalterne.
Ottant’anni fa Gramsci
si fece una domanda simile di fronte agli entusiasmi liberisti di
alcuni dirigenti anarco-sindacalisti. E si rispose evocando il
primitivismo ideologico («corporativo») di quanti ignorano le
connessioni che legano l’economia alla politica.
Ci si può innamorare del
libero mercato, a sinistra, solo se non si intende che dietro questa
quinta si staglia un determinato assetto dei poteri e dei rapporti di
forza tra le classi. Ma nel frattempo è successo di tutto, il
fascismo è imploso, c’è stata un’altra guerra mondiale, la
guerra fredda, il crollo del socialismo reale, una nuova
mondializzazione: possibile che questa risposta, sempre che fosse
giusta per quei tempi, valga ancora nei nostri?
Non si tratta di
improvvisare soluzioni pur di mettersi l’animo in pace. Lo
ripetiamo: non muoveremo un passo fuori dalla palude (il che non ci
impedirà di spedire qualche comparsa nel teatrino di Montecitorio)
finché non avremo capito davvero le ragioni dell’eclissi della
sinistra in tutto l’Occidente.
Si tratta quindi di
lavorare, di studiare, di cercare seriamente. Qui, in linea
d’ipotesi, è possibile tutt’al più segnalare una coincidenza,
tautologica solo in apparenza. I partiti socialisti (e in Italia lo
stesso partito comunista, maturata la decisione di dissolversi) si
sono consegnati al neoliberismo quando hanno dismesso ogni intenzione
critica nei confronti del sistema capitalistico, quando, ripudiata
l’idea stessa di lotta di classe, hanno accettato di concepirsi
come variabili interne del sistema, votate a ottimizzarne la
riproduzione.
Ma si è trattato di una causa, o di una conseguenza? E, in questo caso, da dove nacque il mutamento, visto che precedette nel tempo anche il crollo dell’Unione sovietica?
Sembra comunque chiaro
che è stato un gravissimo errore politico e storico e un disastro di
immense proporzioni. Margini di evoluzione riformatrice del
capitalismo sussistono nelle fasi espansive, mentre il neoliberismo
fu ed è la risposta a una crisi strutturale di redditività del
capitale industriale.
Avere rinunciato a
qualsiasi azione di resistenza attiva ed essersi anzi trasformati in
forze organiche al sistema in una fase storica che ne precludeva
l’evoluzione «progressiva» ha comportato, inevitabilmente, il
suicidio della sinistra socialista, laburista e liberal in tutta
Europa e nel mondo anglosassone.
Oggi siamo alle prese,
giorno per giorno, con le conseguenze di questa vicenda. Che va
indagata in ogni suo passaggio e criticamente compresa, a meno di
rassegnarci a quella che ci appare come la morte della politica.
Il Manifesto – 4 agosto
2016
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