Particolare della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci
Oltre Carl Schmitt
di Gabriele Pedullà
Quattro nuovi libri di Carl Schmitt in
neanche sei mesi: i numeri parlano da soli. Di fronte a questa messe di
pubblicazioni il primo pensiero è che non si tratti soltanto del
doveroso recupero di un geniale pensatore politico troppo a lungo
emarginato per la sua compromissione con il nazionalsocialismo. Deve
esserci qualcos’altro. E alcuni dei curatori dei volumi in questione lo
rivendicano esplicitamente: Carl Schmitt non sarebbe mai stato così
attuale come oggi.
Se l’insistenza sulle capacità
profetiche del giurista tedesco suona a volte un poco stucchevole (come
quando sembrava che la grandezza di Tocqueville consistesse nell’aver
scritto en passant che Stati Uniti e Russia erano destinati a
contendersi un giorno la supremazia planetaria), è innegabile che alcuni
dei concetti coniati o abbozzati da Schmitt appaiono particolarmente
cruciali per spiegare l’ordine, o meglio il disordine, internazionale
affermatosi con la caduta dell’Unione Sovietica e manifestatosi per la
prima volta esplicitamente nei suoi aspetti più cupi con l’attentato
alle Torri Gemelle.
Sin dagli anni Quaranta Schmitt aveva
denunciato infatti il pericolo di un mondo globalizzato e dominato dalla
tecnica, uniformato dal primato del Capitale sulla politica all’ombra
di una sola grande potenza, segnato dalla sostituzione delle vecchie
guerre tra stati con nuove operazioni di polizia internazionale
indirizzate contro i tentativi di resistenza alla omologazione ma allo
stesso tempo esposto agli attacchi “dall’interno” di un
partigiano-terrorista come inevitabile correlativo dialettico della
scomparsa dei vecchi confini e delle vecchie distinzioni culturali,
etniche, politiche. Questo sarebbe il segno della definitiva vittoria
del mare (principio di mobilità incarnato dall’Inghilterra e dagli Stati
Uniti) sulla vecchia tradizione giuridica continentale (Schmitt, che
era un ottimo conoscitore di Hermann Melville, doveva sicuramente
apprezzare il capitolo XIV di Moby Dick, dove si saluta ambiguamente la nascita di un nuovo imperialismo marino e fondato sulle baleniere).
Non è strano che le categorie di Schmitt
abbiano esercitato tanto fascino negli ultimi anni, ispirando nuove
domande, al punto che alcuni dei migliori saggi di filosofia politica
del nuovo secolo non hanno fatto che prolungare i suoi ragionamenti. Per
esempio, in due libri acuti, Peter Sloterdijk ha scritto pagine
acutissime sulla guerra chimica e batteriologica come sviluppo estremo
della non irreggimentabile guerra marina e area (Terrore nell’aria, Meltemi 2006); mentre Daniel Heller-Roazen (Il nemico di tutti. Il pirata contro le nazioni, Quodlibet
2010) ha reinterpretato le guerre anti-terroristiche di George W. Bush
condotte contro un presunto «nemico dell’umanità» attraverso le
categorie della guerra al pirata così come l’aveva teorizzata il diritto
romano (in entrambi i casi i filosofi sono partiti da spunti offerti
principalmente da Il nomos della terra).
I due curatori, tedesco e italiano, del recente Stato, grande spazio, nomos
non ambiscono a tanto, ma non lesinano giudizi esclamativi nei testi
collocati simmetricamente in apertura e a chiusura del volume. Così
scrive dunque Günter Maschke (celando dietro la commozione umanitaria e
un generico anti-americanismo il revanchismo della nuova Germania a
vocazione imperiale di Angela Merkel): «La guerra civile mondiale
pronosticata da Schmitt […] fin dai primi anni Cinquanta è in pieno
svolgimento. Ora, non solo i circa 190.000 morti (soprattutto civili)
iracheni e i 300.000 bambini morti di fame a causa dell’embargo in Iraq,
così come i 2.000 morti della guerra contro la Jugoslavia […] mettono
in stato di accusa una ideologia che si è imposta nel 1919 con il diktat
di Versailles e il suo nuovo diritto internazionale. I fautori di
questa ideologia non temono nemmeno più di infrangere il diritto
internazionale attualmente in vigore, portando così alle estreme
conseguenze la tendenza incessantemente inasprentesi a partire da
Versailles, alla discriminazione della guerra. […] Dopo alcuni millenni
di insegnamenti più che concreti ci si può senz’altro avvicinare
all’idea che la guerra è ineliminabile, e che la pace è un’invenzione
assai più della guerra. Appare oggi chiaro che continuare ad avanzare
sulla strada della discriminazione della guerra non può che condurre a
catastrofi sempre più terrificanti. Per il resto è cosa arcinota che la
guerra è un camaleonte, ma il camaleonte è appunto un animale cui non
importa nulla di essere chiamato con il suo vero nome. Al contrario,
preferisce mimetizzarsi con i noti slogan pacifisti, riuscendo così a
prosperare nel migliore dei modi». (Sia detto di passaggio: il
ragionamento suona inquietante soprattutto per la riapertura della
polemica sul trattato di pace di Versailles, che negli anni Venti fu uno
dei cavalli di battaglia del movimento nazionalsocialista e che qui non
si appoggia certo sugli argomenti illuminati del John Maynard Keynes di
The Ecomonic Consequencies of the Peace e di A Revision of the Treaty, ma punta piuttosto a riaccendere una “macchina vittimaria” che, su questo punto, taceva dal 1945).
Gli fa eco, con toni meno aggressivi,
Giovanni Gurisatti: «Con il passare del tempo il pensiero di Carl
Schmitt, grazie a una lucidità che assume non di rado i tratti della
chiaroveggenza, non solo ha mantenuto intatta la sua attualità, ma si è
rivelato una guida preziosa per la lettura e l’interpretazione del
presente. […] Quando la politica mondiale si fa polizia mondiale, e la
polizia mondiale si fa police bombing, la discriminazione
giuridica e morale dell’avversario, regolare o irregolare, militare o
civile che sia, raggiunge dimensioni abissarli, mentre l’apparente
democraticità universale dellojus gentium si ribalta in
“democrazia della morte” come Ernst Jünger (tra i più assidui
interlocutori di Schmitt) preconizzava già nel 1930. […] Reputando justissima la sola tellus,
Schmitt guarda con motivata diffidenza – e, in verità, con grande
lungimiranza – alle involuzioni postmodernista della globalizzazione». E
così proseguendo.
Schmitt profeta e precursore del nostro
mondo? Non sono solo Maschke e Gurisatti a proclamarlo, oggi. Qualche
anno fa, per esempio, nell’introdurre l’edizione italiana de Il concetto discriminatorio di guerra (Laterza 2008), Danilo Zolo non ha avuto problemi a intitolare il proprio saggio addirittura La profezia della guerra globale, e, risalendo ancora indietro nel tempo, persino Giorgio Agamben in Mezzi senza fine
(Bollati Boringhieri 1996) si è spinto a scrivere che si è realizzata
«la profezia di Schmitt, secondo cui ogni guerra sarebbe diventata nel
nostro tempo una guerra civile».
Contro questo luogo comune dei
dipartimenti di filosofia del nostro tempo si sono levate poche voci,
che hanno sottolineato per esempio le innumerevoli oscillazioni e le
contraddizioni presenti negli scritti di Schmitt del dopoguerra, dove, a
seconda del momento e del contesto, si annuncia la vittoria di un
ordine monopolare, la persistenza del bipolarismo della guerra fredda o
il ritorno a un sistema multipolare (così Walter Rech, Eschatology and existentialism, inThe Contemporary Relevance of Carl Schmitt: Law, Politics, Theology, a
cura di Matilda Arvidssen, Leila Brännström e Panu Minkkine, Routledge
2015). Il problema però non è soltanto che per tutta la sua vita
Schmitt, come profeta, ha puntato le proprie fiches (se non
sempre parteggiato) di volta in volta sul rosso, sul nero e persino
sullo zero riservato in genere al banco, mettendosi nella condizione di
non poter fallire mai le sue previsioni (a seconda di quella che, a
posteriori, si sceglierà per proclamare la sua lungimiranza, trascurando
tutte le altre); semmai, la vera questione è cercare di capire che cosa
sottintendono le sue coppie antinomiche e se davvero non possiamo
mettere a fuoco i grandi dilemmi del nostro tempo che ricorrendo a esse
(indipendentemente dell’esito che Schmitt ha reputato più probabile a
secondo dei diversi momenti).
A valutare le implicazioni dei suoi
scritti con un poco più di prudenza e senza lasciarsi ipnotizzare dalle
sue straordinarie doti di prosatore, potremmo infatti scoprire che
l’opera di Schmitt richiede che il lettore impari a pensare, allo stesso
tempo, con lui e contro di lui assai più di quanto i
suoi apologeti pre- e post- 11 settembre non siano inclini a fare.
Questa esigenza risulta particolarmente chiara proprio quando si esce
dalla lettura di Stato, grande spazio, nomos, che ha il non
trascurabile merito di fare chiarezza più di qualunque altra raccolta di
Schmitt su un paio di punti decisivi. Il quadro generale rimane quello
degli scritti più noti del giurista tedesco: l’alternativa mostruosa tra
il potere post-politico della tecnica globale (in termini marxisti: del
capitale finanziario) e il terrorista “costretto” alle violenze più
inaudite dalla stessa natura asimmetrica del conflitto e dalla fine di
ogni mutuo riconoscimento tra belligeranti. Eppure il volume curato da
Gurisatti, presentando al pubblico italiano anche alcuni testi meno noti
composti durante la Seconda guerra mondiale, ci aiuta finalmente a
vedere quello che dai libri maggiori di Schmitt come Il nomos della terra(1950) e la Teoria del partigiano
(1963) non appare altrettanto evidente: agli occhi di Schmitt una via
d’uscita ci sarebbe, anche se dopo il 1945 evita di menzionarla in
maniera esplicita E questa via d’uscita è la riorganizzazione
multipolare del mondo in un sistema di imperi con le loro rispettive
aree di influenza – imperi capaci di riprodurre su scala planetaria
l’ordine conflittuale con cui, in età moderna, gli stati europei erano
riusciti a mettere la guerra «in forma» e a contenere gli scontri.
Curiosamente, nello stesso momento in
cui Heidegger viene chiamato a rispondere di un odioso antisemitismo, il
fatto che Schmitt abbia elaborato la propria teoria dei «grandi spazi»
per sostenere in punta di diritto le ambizioni espansioniste di Hitler
non sembra preoccupare troppo i lettori di oggi (e questo sebbene
Schmitt si spinga a sostenere a più riprese addirittura una precisa
relazione tra «ordine marino» ed ebraismo). Di fronte a quelli che non
sono banali incidenti di percorso, non si tratta, naturalmente, di
bandire un’altra volta i suoi scritti, come ogni tanto torna a invocare
qualcuno; sarebbe però almeno giusto che gli schmittiani di destra e di
sinistra prendessero consapevolezza che insistere tanto sulle sue
presunte capacità profetiche implica di necessità anche un giudizio
favorevole sulla sua tesi centrale degli anni di guerra: vale a dire
sulla idea che, se la Germania non avesse vinto, il mondo sarebbe caduto
nel baratro della coppia globalizzazione-guerra civile (con il suo
inevitabile corollario: il terrorismo). E qui basterà una (lunga)
citazione da Schmitt: «Dato che la discriminazione degli altri governi
sta nelle mani del governo degli Stati Uniti, questi si arrogano il
diritto di istigare i popoli contro i propri stessi governi,
trasformando la guerra tra stati in guerra civile. La guerra mondiale
discriminatoria di stile americano si tramuta così in guerra
civile-mondiale totale e globale. Sta qui la chiave del legame, a prima
vista affatto improbabile, tra capitalismo occidentale e bolscevismo
orientale. Sia nell’uno che nell’altro caso, infatti, la guerra,
diventando globale e totale, si trasforma da guerra interstatale del
vecchio diritto internazionale europeo in guerra civile-mondiale. Si
rivela qui anche il senso profondo delle parole che Lenin dedica al
problema della guerra totale, sottolineando che nell’attuale situazione
mondiale è rimasto sono un genere di guerra giusta: la guerra civile.
[…] All’unità globale di un imperialismo globale – capitalistico o
bolscevico – si contrappone una pluralità di grandi spazi concreti e
ricchi di senso. La loro è una lotta per la struttura del diritto
internazionale a venire, una disputa intorno alla questione se in futuro
vi debbano essere una coesistenza tra differenti forme autonome oppure
solo semplici filiali decentralizzate di tipo regionale o locale, su
concessione di un unico “signore del mondo”. Ma gli idilli locali o
regionali non sono in grado di far fronte comune contro questo
imperialismo globale. Soltanto gli autentici grandi spazi hanno la
capacità di confrontarsi con esso» (Mutamento di struttura del diritto internazionale, 1943).
Per pensare con e contro Carl Schmitt
allo stesso tempo è necessario però ricostruire prima genealogicamente
l’origine delle sue tesi. Decisiva risulta soprattutto la radice
hegeliana del suo ragionamento e in particolare l’interpretazione della
storia umana come perenne conflitto. Qui disponiamo di una importante
testimonianza: negli anni Cinquanta Schmitt intrattenne una breve ma
densa corrispondenza a proposito della guerra nel pensiero di Hegel con
il più originale hegeliano del secondo Novecento, il russo
(francesizzato) Alexandre Kojève. Ma al di là delle loro lettere, è
impressionante come Schmitt e Kojève – da hegeliani – fossero
ossessionati dallo stesso problema della fine della Storia. Per Kojève
essa significherà la scomparsa dell’uomo come “agente forte” e la sua
trasformazione in consumatore (se preverrà la civiltà post-storica
americana) o in snob (se prevarrà quella giapponese, con i suoi
interminabili rituali): come minimo un Paradiso un po’ dubbio. Per
Schmitt invece la fine della dialettica militare tra stati è destinata a
tramutarsi semplicemente in un incubo: non la scomparsa dei conflitti,
ma la loro generalizzazione terroristica. La sua vera e propria
ossessione per il concetto paolino di katéchon, ovvero per la
forza che ritarda la fine dei tempi (un concetto che proprio Schmitt ha
contribuito a rendere popolare sino alla nausea nella filosofia politica
contemporanea) va letta proprio in questo contesto, come tentativo di
posticipare la disastrosa uscita dalla dialettica e dalla Storia.
L’inarrestabile successo di Schmitt ha
ovviamente molto a che fare con le nostre paure. La «grande narrazione»
liberale del post-1989, La fine della storia e l’ultimo uomo di
Francis Fukuyama (1992), aveva declinato la stessa trama di Kojève in
termini più ottimistici e conciliati, perché l’approdo della lunga
catena di tesi, antitesi e sintesi non sarebbe altro che il trionfo
planetario della democrazia. Ma, come ha messo in luce in diversi libri
il già menzionato Sloterdijk (un altro hegeliano, ammiratore di
Fukuyama), il mondo della post-Storia è una serra a forma di Sfera, e
tutte le serre sono – come è noto – particolarmente vulnerabili (a
cominciare dal celebre Crystal Palace eretto per l’Esposizione
Universale di Londra del 1851 e distrutto nel 1936 da un gigantesco
incendio). Schmitt oggi ci sembra così attuale proprio perché nella sua
critica della globalizzazione americana ribalta l’ingenuo entusiasmo
degli anni Novanta e mostra i lati oscuri della fine della guerra
fredda.
L’alternativa al mondo americano sarebbe
dunque il rifiuto della globalizzazione e la chiusura in nuovi confini?
L’Europa, dopo tutto, ha proprio le dimensioni giuste per costituirsi
in «grande spazio», secondo le ambizioni dello Schmitt degli anni di
guerra… Ed ecco allora che il consenso istintivo che le tesi del
giurista di Hitler ricevono oggi tanto a destra quanto a sinistra ci
dice qualcosa di decisivo di un tempo in cui, in Europa, le tentazioni
identitarie di ieri ricevono crescenti legittimazioni, al punto che
diventa sempre più difficile distinguere davvero le battaglie dei
socialisti per «l’eccezione culturale francese» dagli slogan
(pseudo)repubblicani di Marine Le Pen.
Per Schmitt, rappresentare lo scontro
finale prima dell’Apocalissi e della fine della Storia come la lotta tra
la diversità delle tradizioni e un’anonima forza sovvertitrice
dell’ordine terreno (le potenze «marine») non era naturalmente una
opzione neutra, ma serviva a difendere le ragioni di un preciso ordine
mondiale alternativo a quello americano: quello del Terzo Reich. Troppo
facilmente i suoi esegeti di oggi tendono a dimenticarlo, quando invece
occorrerebbe far saltare la semplice antitesi tra difesa identitaria e
globalizzazione spoliticizzante (con il non trascurabile effetto
collaterale del terrorismo). I contemporanei di Schmitt invece lo
sapevano bene, e saggiamente rifiutavano di giocare la partita all’interno
delle sue categorie. Ma in questo – occorre dirlo – erano enormemente
favoriti dalla esistenza di un movimento socialista che rivendicava una
propria ipoteca sul futuro, in alternativa tanto ai miti nazionalisti
della terra e del sangue quanto all’«American way of life». Perché, in
fondo, la sorprendente remissività di oggi verso le analisi di Schmitt
(o, sul versante opposto, a quelle di Fukuyama e di Sloterdijk) è anche
il risultato dell’enorme vuoto politico che si è aperto ormai più di
venti anni or sono.
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