L’incontro mancato tra i sessi
di Pietro Bianchi e Elisa Cuter
C’è una scena, alla fine della settima puntata della prima stagione di Love
(la nuova serie tv di Netflix prodotta da Judd Apatow e uscita il mese
scorso) che in un paio di minuti riassume perfettamente il senso
dell’intera serie: i due protagonisti, Gus e Mickey, dopo un date
che definire disastroso è poco, finiscono a letto insieme. Iniziano su
una sedia, ancora mezzi vestiti, ma presto si spogliano e si spostano
nel letto vero e proprio. Se la serata fino ad allora era andata un po’
male ed era stata piena di momenti imbarazzanti – rompere il ghiaccio ad
un appuntamento, si sa, non è sempre facile – pare che tutto venga
superato nel momento in cui si smette di parlare con il linguaggio e si
inizia a parlare con i corpi. D’altra parte non è uno dei luoghi comuni
più tipici dell’ideologia contemporanea quello che dice che sono il
linguaggio e la razionalità che creano incomprensione, mentre con il
corpo, il contatto fisico e la sensibilità ci si capisce alla
perfezione?
Sì… fino a che lei non dice: “Senti, ti
fa niente usare il mio vibratore?” Gus, che è socialmente un po’
maldestro e non sempre a suo agio con il sesso femminile, sembra un po’
spiazzato e non troppo entusiasta della proposta, ma acconsente. Mickey
butta allora sul letto il mitico Hitachi Magic Wand (non esattamente il
meno intrusivo dei vibratori), glielo mette in mano e lo guida sul sesso
di lei, mentre la puntata stacca con una canzone indie-folk di Loudon
Wainwright III le cui prime parole sono “I Wonder Why You Love Me Baby”.
La sovrapposizione dello sguardo di Gus, tra l’impaurito e lo stranito,
e di Mickey che si lascia andare e che viene rumorosamente crea la
perfetta sintesi cinematografica di quello che Lacan definiva
“l’inesistenza del rapporto sessuale”. Attenzione, non la sua immagine,
ma la sua sintesi: noi vediamo lo sguardo di lui e sentiamo lei. Non li vediamo entrambi nella stessa immagine.
Che cosa voleva dire infatti Lacan con
il fatto che il rapporto sessuale non esiste? Non certo che le persone
non abbiano rapporti sessuali, più o meno soddisfacenti, più o meno
frequenti. E nemmeno che la nostra vita sentimentale non possa portarci
gioie, dolori, momenti felici e momenti tristi, come accade in molte
altre sfere della nostra vita. No, Lacan voleva dire semplicemente che
non c’è una norma e una modalità che vada bene per tutti per “regolare”
quella che è un’equazione impossibile e uno squilibrio fondamentale
della nostra vita: il rapporto tra i sessi. Le equazioni – si sa – hanno
bisogno di due termini, mentre nel sesso i due termini non esistono. La
perfetta identificazione con il nostro sesso è impossibile, e questo
non solo perché le identità sessuali – come ci ricordano i movimenti
LGBT – sono molte più di due, ma perché il rapporto con il nostro corpo e
il nostro godimento pulsionale è un rebus indecifrabile di cui nessuno
possiede la chiave. E forse è proprio per questo che ne siamo così
ossessionati.
Lacan diceva anche che non esiste una
libido specificatamente maschile e una specificatamente femminile: il
piacere sessuale è dello stesso “tipo” per tutti e forse è da qui che
nasce la sempreverde illusione di una possibile fusione e di una
complementarietà dei sessi. A Hollywood lo si vede spesso quando ci sono
orgasmi sincroni, riuniti in una stessa immagine, dove i corpi sembrano
coltivare l’illusione di una perfetta intesa reciproca. Tuttavia la
clinica psicoanalitica mostra come la libido sessuale non passa da un
corpo all’altro, ma semmai mette in relazione il soggetto con un oggetto
che riguarda il suo di corpo. La relazione sessuale è
innanzitutto con il nostro corpo e con il nostro fantasma inconscio. È
per questo che la scena del rapporto sessuale di Mickey e Gus è così
efficace, perché mostra come il ruolo di Gus sia semplicemente quello di
aiutare Mickey ad avere un rapporto con il proprio godimento. Love
in questo sembra dare quasi ragione a Slavoj Žižek quando sostiene che
il vero modello di rapporto sessuale soddisfacente non è quello
dell’orgasmo sincrono ma quello di due persone che si masturbano
insieme.
L’interesse e la novità di Love sta proprio qui: nonostante presenti tutte le caratteristiche della classica rom-com
“alla Apatow” (protagonista maschile nerd e nevrotico che incontra una
ragazza molto più attraente di lui ma molto più scombinata, e che alla
fine viene “salvata” e redenta da lui) la sua struttura è quella del
non-rapporto tra uomo e una donna molto più che del loro “incontro”. I
due protagonisti – Gus, trentenne con la velleità di fare lo
sceneggiatore e che nel frattempo dà lezioni private sui set a star
adolescenti viziate e svogliate – e Mickey – produttrice radiofonica con
più di qualche problema di dipendenza da alcol e sesso occasionale – si
incontrano per caso e sembrano per tutta la serie mancarsi in
continuazione. Una sorta di “boy doesn’t meet girl”. Se prima è lui che si prende una cotta per questa ragazza fuori dagli schemi e un po’ wild
che sembra essere tutt’al più incuriosita ma non certo affascinata da
lui, ben preso le parti saranno rovesciate con esiti quasi drammatici.
Gli unici momenti in cui si potrebbero e dovrebbero incontrare sono
quelli in cui le nevrosi e idiosincrasie di entrambi finiscono per
rendere impossibili anche le cose che appaiono più semplici. L’incontro
d’amore pare essere sempre un incontro mancato.
Questo incontro mancato tra Mickey e Gus è anche una questione storica. Love ci fa vedere una relazione in un “an age of diminishing expectations”, citando The culture of Narcissism
di Christopher Lasch. Uno dei temi fondamentali della serie è infatti
il rapporto tra la costruzione narcisistica e il proprio desiderio: Gus e
Mickey oscillano tra crolli di autostima e senso di onnipotenza, tra
l’ostinata adesione al proprio life-style e desiderio impellente di
rivalsa o crescita. Tutta quest’ansia di autodefinizione, che sembra
assorbire gran parte delle loro energie – un aspetto tipico della
riflessività delle upper middle-class urbane americana – funziona da schermo per evitare l’angoscia che provoca l’incontro con l’altro sesso.
Ormai è diventato un luogo comune dire
che il narcisismo sia la malattia del nostro tempo quasi a volerne dare
una caratterizzazione morale, eppure spesso ci si dimentica di quanto la
dialettica narcisistica si basi sull’indistinzione tra il culto di sé e
una ben più profonda – anche se spesso denegata – competizione e
sospetto nei confronti della propria immagine. La costruzione
narcisistica del sé è infatti un progetto impossibile prima ancora che
egoista o poco desiderabile. E tuttavia faremmo un errore a ridurre le
nevrosi di Gus e Mickey a delle semplici idiosincrasie personali.Love mette sempre la relazione tra i due protagonisti dentro
al mondo e ci mostra come il loro narcisismo non sia solo una questione
individuale ma faccia parte a tutti gli effetto dello spirito dei
tempi. Lo vediamo soprattutto nel modo con cui vengono rappresentati
nella serie i rapporti di lavoro: Mickey cede calcolatamente alle
avances del suo capo per poterlo ricattare in caso di licenziamento, Gus
conserva il suo posto di lavoro solo grazie al rapporto di amicizia
costruito con la ragazzina attrice a cui fa da tutor. Assistiamo insomma
a una progressiva indistizione di vita e lavoro, costruzione della
propria identità e della propria carriera professionale. In un mondo del
lavoro che si basa esclusivamente sul concetto di “network” e
auto-imprenditorialità ma che in realtà coltiva solo la competizione
orizzontale al ribasso tra pari, la costruzione del proprio sé e delle
proprie relazioni è a un tempo una questione personale e
sociale. Il risultato è che ogni che ogni volta che sorge un problema,
questo diventi immediatamente segno di un proprio fallimento
individuale. È anche per questo che Mickey e Gus sono sempre in guerra
con il mondo: si sentono perennemente minacciati e per questo aprirsi
all’incontro con l’altro e sostenere l’angoscia che provocherebbe sembra
essere un ostacolo insormontabile.
I personaggi di Love hanno
anche tutti i tratti tipici dell’autoriflessività delle classi colte
urbane. Ogni esperienza viene mediata dall’autonarrazione di sé, dalla
foto postate su instagram, dai messaggi che vengono mandati agli amici.
La vita e la narrazione della propria vita diventano un tutt’uno
indistinto (che viene significativamente “raddoppiato”
dall’identificazione da parte di uno spettatore o spettatrice che
verosimilmente appartiene alla stessa estrazione sociale dei personaggi
rappresentati). È come se la vita non possa che essere vissuta tramite
un “vedersi vivere” – come si vede nella scena in cui Gus si disfa dei
suoi blue ray lanciandoli dalla macchina – in un gioco continuo di
rappresentazione di rappresentazioni e di scatole cinesi dal quale pare
non esserci via d’uscita. In questo senso l’ossessione per l’autenticità
– un topos cruciale del cinema indie americano post-anni Novanta, si
veda a proposito il cinema di Noah Baumbach – è una figura non solo
della sua perdita ma anche del fatto che la consapevolezza è diventata
una forma di dissimulazione della propria vita più che contenere una sua
possibilità di cambiamento. La scena più importante in questo senso è
quella del nono episodio in cui il disincanto avviene sotto ai nostri
occhi. Mickey, dopo i ripetuti rifiuti di Gus, si ribella al cliché che
lui si è costruito di lei: “Surprise, I’m not the cool girl. I’m not
some girl that you can fuck for a while to prove to yourself that you
can be dangerous, and edgy, and you’re not some huge dork, and then you
go off and marry whatever boring lady” (“Sorpresa! Io non sono la tipa cool.
Quella che ti scopi per un po’ solo per fare quello trasgressivo e
pericoloso e non essere solo lo sfigato che sei; e poi magari chiudi
tutto e ti sposi la prima che capita”). Lui le fa notare di essere stato
idealizzato (e usato) da lei a sua volta: “That’s what I am to you. I’m
just this fucking dork, huh? I’m this fucking dork who you fuck and
then you can feel like you’re getting your life together ’cause you’re
fucking a nice guy and you’re not fucking a piece of shit anymore” (“Ah,
perché io sono questo per te? Sono solo uno sfigato, eh? Sono uno
sfigato di merda che ti puoi scopare solo per illuderti di tirare
insieme la tua vita perché ti stai scopando un tipo normale e non più un
coglione”). In questo senso Love sembra un saggio sul momento in cui l’ironia smette non solo di essere dissacrante ma anche di essere rassicurante.
La consapevolezza auto-riflessiva dei protagonisti di Love li rende anche perfettamente liberal,
fedeli al contesto progredito e colto di cui fanno parte. In questo
senso, oltre che postmoderni, sono anche “postpatriarcali”. Mickey e Gus
non sono la tipica (e demodé) combo maschio alfa/donna romantica, anzi,
la resistenza di lei a lasciarsi andare all’illusione e
all’idealizzazione della coppia, allegorizzata dal suo scetticismo nei
confronti dei giochi di prestigio, è il perfetto contraltare alla
prudenza impacciata e poco virile di Gus.
Ma anche questo scambiarsi di ruolo è in realtà ormai diventata una nuova norma proprio per via della sua consapevolezza autoriflessiva ribaltatasi in dissimulazione.
È ormai un genere, un brand, cui segue un irrigidimento sia a livello
estetico (il contesto produttivo del resto lascia spazio a pochi dubbi
su che tipo di prodotto aspettarsi) che a livello di una riflessione sul
genere che non scioglie nessuno dei nodi delle rappresentazione
patriarcali più “classiche”. Che anche il mondo “alternativo” del
cosiddetto indiewood non fosse sempre immune a un certo tipo di discriminazione della figura femminile lo dimostrano serie come New Girl (http://www.grazia.it/stile-di-vita/cinema-e-tv/zooey-deschanel-fanciulla-da-salvare-2-0) in cui Zooey Deschanel è in fondo la solita damsel in distress,
la ragazza abbastanza svampita da essere inconsapevole del proprio
fascino, bisognosa di un uomo che la riporti sulla terra. Così come
legata alla dipendenza dalla figura maschile ma diametralmente opposta
nella sua aggressività è la figura della cool girl,http://www.buzzfeed.com/annehelenpetersen/jennifer-lawrence-and-the-history-of-cool-girls#.aw9kWYMYZ7, a cui Mickey, con la sua aria wreckless e bad ass
appartiene di diritto. In questo senso Mickey sembra sottostare a
quello che Angela McRobbie chiama “new sexual contract”, il nuovo tacito
accordo su cui si negozia oggi la femminilità: l’indipendenza
(simulata, nel caso di Mickey) della donna è permessa solo al prezzo di
essere attraente e sessualmente disponibile, disposta cioè a considerare
il proprio corpo come una merce di scambio in una perversione
postfemminista del principio di autodeterminazione.
Damsel in distress e cool girl si incontrano non a caso nel concetto di manic pixie dream girl.
Il tropo, individuato dal critico Nathan Rabin, non ha dei tratti
necessariamente definiti, può spaziare dalla donna naif al maschiaccio
alla femme fatale: quello che conta è che incarni e renda possibile un cambiamento nel protagonista maschile del film. La pixie,
a differenza di quest’ultimo, non è un individuo, è una proiezione. Una
figura che potrebbe essere stata partorita direttamente dalla mente del
protagonista (lo dimostra l’iperbole di un film come Ruby Sparks, che parte proprio da questa premessa). Anche Love
non è immune da questo immaginario nel mostrarci il rapporto tra Mickey
e Gus – non è probabilmente un caso che l’attore che impersona
quest’ultimo, Paul Rust, sia anche sceneggiatore (insieme a sua moglie
Lesley Arfin e ad Apatow) della serie.
Per questo, tornando all’Hitachi Magic
Wand di cui sopra, se si volesse trovare una scena speculare di Mickey
che osserva il solipsismo del godimento di Gus sentendosene esclusa
dovremmo forse tornare a Magic, la settimana puntata della
serie diretta da Steve Buscemi, dove al primo appuntamento Gus porta una
Mickey per nulla entusiasta a un super-esclusivo spettacolo di magia.
In quel frangente vediamo che Gus letteralmente gode nel vedere i numeri
di magia susseguirsi sul palco, mentre la presenza di Mickey non solo
non si fa “strumento” del suo godimento (come fa Gus nella scena
dell’Hitachi Magic Wand) ma addirittura ne diventa un ostacolo quando
finisce per farsi cacciare fuori dal locale dai buttafuori.
Se al termine della puntata Gus
“accetta” quasi magnanimamente di diventare “strumento” del godimento
femminile della sua partner, Mickey invece se ne fa “ostacolo” nel
momento in cui si tratta di dover “aiutare” il godimento masturbatorio
maschile. Il rischio è che – proprio perché la serie segue molto più da
vicino e con sensibilità molto maggiore la personalità di Gus, che è il
vero detentore del punto di vista sull’intera vicenda – venga insinuato
un po’ subliminalmente nello spettatore un certo rimprovero per una
femminilità minacciosa, emotiva, instabile e tutto sommato poco
affidabile che non sottosta alla regola aurea hollywoodiana della
specularità dei godimenti (“se tu mi fai godere del mio piacere
masturbatorio nel vedere lo spettacolo di magia, io poi ti farò godere
del tuo”). Ma se la sessualità speculare esiste anche in una serie tutta
“al femminile” e famosa per le scene di sesso akward come Girls
– dove in una puntata dell’ultima serie assistiamo a una scena
stranamente erotica di masturbazione “in sincrono” – ciò che rende Love così interessante è proprio l’inevitabile asimmetria dei godimenti.
Che ne sarà del rapport sexuel
nella fase della post-postmodernità? Lo scopriremo, forse, nella
prossima stagione. Ma qualche indizio c’è anche in questa, anche se i
due non stanno ancora insieme. O forse proprio per questo motivo. Ian
Crouch ha scritto sul New Yorker che Love sembra volerci dire che una storia d’amore riguarda soprattutto i due innamorati presi singolarmente.
Come dice Badiou l’amore è soprattutto un’esperienza della differenza.
Per la maggior parte del tempo noi vediamo Gus e Mickey stare con i loro
amici, avere problemi o momenti di svago con i propri coinquilini e con
i vicini, con i colleghi di lavoro, con i passanti per strada. Perché
l’amore è soprattutto una passione della differenza che cambia
radicalmente il proprio stare al mondo – anche quando in questo stare al
mondo il proprio partner non c’è – più che essere (solo) un’esperienza
di unione e di simbiosi.
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