29 agosto 2016

L' INCONTRO MANCATO TRA I SESSI



L’incontro mancato tra i sessi



di Pietro Bianchi Elisa Cuter


C’è una scena, alla fine della settima puntata della prima stagione di Love (la nuova serie tv di Netflix prodotta da Judd Apatow e uscita il mese scorso) che in un paio di minuti riassume perfettamente il senso dell’intera serie: i due protagonisti, Gus e Mickey, dopo un date che definire disastroso è poco, finiscono a letto insieme. Iniziano su una sedia, ancora mezzi vestiti, ma presto si spogliano e si spostano nel letto vero e proprio. Se la serata fino ad allora era andata un po’ male ed era stata piena di momenti imbarazzanti – rompere il ghiaccio ad un appuntamento, si sa, non è sempre facile – pare che tutto venga superato nel momento in cui si smette di parlare con il linguaggio e si inizia a parlare con i corpi. D’altra parte non è uno dei luoghi comuni più tipici dell’ideologia contemporanea quello che dice che sono il linguaggio e la razionalità che creano incomprensione, mentre con il corpo, il contatto fisico e la sensibilità ci si capisce alla perfezione?
Sì… fino a che lei non dice: “Senti, ti fa niente usare il mio vibratore?” Gus, che è socialmente un po’ maldestro e non sempre a suo agio con il sesso femminile, sembra un po’ spiazzato e non troppo entusiasta della proposta, ma acconsente. Mickey butta allora sul letto il mitico Hitachi Magic Wand (non esattamente il meno intrusivo dei vibratori), glielo mette in mano e lo guida sul sesso di lei, mentre la puntata stacca con una canzone indie-folk di Loudon Wainwright III le cui prime parole sono “I Wonder Why You Love Me Baby”. La sovrapposizione dello sguardo di Gus, tra l’impaurito e lo stranito, e di Mickey che si lascia andare e che viene rumorosamente crea la perfetta sintesi cinematografica di quello che Lacan definiva “l’inesistenza del rapporto sessuale”. Attenzione, non la sua immagine, ma la sua sintesi: noi vediamo lo sguardo di lui e sentiamo lei. Non li vediamo entrambi nella stessa immagine.
Che cosa voleva dire infatti Lacan con il fatto che il rapporto sessuale non esiste? Non certo che le persone non abbiano rapporti sessuali, più o meno soddisfacenti, più o meno frequenti. E nemmeno che la nostra vita sentimentale non possa portarci gioie, dolori, momenti felici e momenti tristi, come accade in molte altre sfere della nostra vita. No, Lacan voleva dire semplicemente che non c’è una norma e una modalità che vada bene per tutti per “regolare” quella che è un’equazione impossibile e uno squilibrio fondamentale della nostra vita: il rapporto tra i sessi. Le equazioni – si sa – hanno bisogno di due termini, mentre nel sesso i due termini non esistono. La perfetta identificazione con il nostro sesso è impossibile, e questo non solo perché le identità sessuali – come ci ricordano i movimenti LGBT – sono molte più di due, ma perché il rapporto con il nostro corpo e il nostro godimento pulsionale è un rebus indecifrabile di cui nessuno possiede la chiave. E forse è proprio per questo che ne siamo così ossessionati.
Lacan diceva anche che non esiste una libido specificatamente maschile e una specificatamente femminile: il piacere sessuale è dello stesso “tipo” per tutti e forse è da qui che nasce la sempreverde illusione di una possibile fusione e di una complementarietà dei sessi. A Hollywood lo si vede spesso quando ci sono orgasmi sincroni, riuniti in una stessa immagine, dove i corpi sembrano coltivare l’illusione di una perfetta intesa reciproca. Tuttavia la clinica psicoanalitica mostra come la libido sessuale non passa da un corpo all’altro, ma semmai mette in relazione il soggetto con un oggetto che riguarda il suo di corpo. La relazione sessuale è innanzitutto con il nostro corpo e con il nostro fantasma inconscio. È per questo che la scena del rapporto sessuale di Mickey e Gus è così efficace, perché mostra come il ruolo di Gus sia semplicemente quello di aiutare Mickey ad avere un rapporto con il proprio godimento. Love in questo sembra dare quasi ragione a Slavoj Žižek quando sostiene che il vero modello di rapporto sessuale soddisfacente non è quello dell’orgasmo sincrono ma quello di due persone che si masturbano insieme.
L’interesse e la novità di Love sta proprio qui: nonostante presenti tutte le caratteristiche della classica rom-com “alla Apatow” (protagonista maschile nerd e nevrotico che incontra una ragazza molto più attraente di lui ma molto più scombinata, e che alla fine viene “salvata” e redenta da lui) la sua struttura è quella del non-rapporto tra uomo e una donna molto più che del loro “incontro”. I due protagonisti – Gus, trentenne con la velleità di fare lo sceneggiatore e che nel frattempo dà lezioni private sui set a star adolescenti viziate e svogliate – e Mickey – produttrice radiofonica con più di qualche problema di dipendenza da alcol e sesso occasionale – si incontrano per caso e sembrano per tutta la serie mancarsi in continuazione. Una sorta di “boy doesn’t meet girl”. Se prima è lui che si prende una cotta per questa ragazza fuori dagli schemi e un po’ wild che sembra essere tutt’al più incuriosita ma non certo affascinata da lui, ben preso le parti saranno rovesciate con esiti quasi drammatici. Gli unici momenti in cui si potrebbero e dovrebbero incontrare sono quelli in cui le nevrosi e idiosincrasie di entrambi finiscono per rendere impossibili anche le cose che appaiono più semplici. L’incontro d’amore pare essere sempre un incontro mancato.
Questo incontro mancato tra Mickey e Gus è anche una questione storica. Love ci fa vedere una relazione in un “an age of diminishing expectations”, citando The culture of Narcissism di Christopher Lasch. Uno dei temi fondamentali della serie è infatti il rapporto tra la costruzione narcisistica e il proprio desiderio: Gus e Mickey oscillano tra crolli di autostima e senso di onnipotenza, tra l’ostinata adesione al proprio life-style e desiderio impellente di rivalsa o crescita. Tutta quest’ansia di autodefinizione, che sembra assorbire gran parte delle loro energie – un aspetto tipico della riflessività delle upper middle-class urbane americana – funziona da schermo per evitare l’angoscia che provoca l’incontro con l’altro sesso.
Ormai è diventato un luogo comune dire che il narcisismo sia la malattia del nostro tempo quasi a volerne dare una caratterizzazione morale, eppure spesso ci si dimentica di quanto la dialettica narcisistica si basi sull’indistinzione tra il culto di sé e una ben più profonda – anche se spesso denegata – competizione e sospetto nei confronti della propria immagine. La costruzione narcisistica del sé è infatti un progetto impossibile prima ancora che egoista o poco desiderabile. E tuttavia faremmo un errore a ridurre le nevrosi di Gus e Mickey a delle semplici idiosincrasie personali.Love mette sempre la relazione tra i due protagonisti dentro al mondo e ci mostra come il loro narcisismo non sia solo una questione individuale ma faccia parte a tutti gli effetto dello spirito dei tempi. Lo vediamo soprattutto nel modo con cui vengono rappresentati nella serie i rapporti di lavoro: Mickey cede calcolatamente alle avances del suo capo per poterlo ricattare in caso di licenziamento, Gus conserva il suo posto di lavoro solo grazie al rapporto di amicizia costruito con la ragazzina attrice a cui fa da tutor. Assistiamo insomma a una progressiva indistizione di vita e lavoro, costruzione della propria identità e della propria carriera professionale. In un mondo del lavoro che si basa esclusivamente sul concetto di “network” e auto-imprenditorialità ma che in realtà coltiva solo la competizione orizzontale al ribasso tra pari, la costruzione del proprio sé e delle proprie relazioni è a un tempo una questione personale e sociale. Il risultato è che ogni che ogni volta che sorge un problema, questo diventi immediatamente segno di un proprio fallimento individuale. È anche per questo che Mickey e Gus sono sempre in guerra con il mondo: si sentono perennemente minacciati e per questo aprirsi all’incontro con l’altro e sostenere l’angoscia che provocherebbe sembra essere un ostacolo insormontabile.
I personaggi di Love hanno anche tutti i tratti tipici dell’autoriflessività delle classi colte urbane. Ogni esperienza viene mediata dall’autonarrazione di sé, dalla foto postate su instagram, dai messaggi che vengono mandati agli amici. La vita e la narrazione della propria vita diventano un tutt’uno indistinto (che viene significativamente “raddoppiato” dall’identificazione da parte di uno spettatore o spettatrice che verosimilmente appartiene alla stessa estrazione sociale dei personaggi rappresentati). È come se la vita non possa che essere vissuta tramite un “vedersi vivere” – come si vede nella scena in cui Gus si disfa dei suoi blue ray lanciandoli dalla macchina – in un gioco continuo di rappresentazione di rappresentazioni e di scatole cinesi dal quale pare non esserci via d’uscita. In questo senso l’ossessione per l’autenticità – un topos cruciale del cinema indie americano post-anni Novanta, si veda a proposito il cinema di Noah Baumbach – è una figura non solo della sua perdita ma anche del fatto che la consapevolezza è diventata una forma di dissimulazione della propria vita più che contenere una sua possibilità di cambiamento. La scena più importante in questo senso è quella del nono episodio in cui il disincanto avviene sotto ai nostri occhi. Mickey, dopo i ripetuti rifiuti di Gus, si ribella al cliché che lui si è costruito di lei: “Surprise, I’m not the cool girl. I’m not some girl that you can fuck for a while to prove to yourself that you can be dangerous, and edgy, and you’re not some huge dork, and then you go off and marry whatever boring lady” (“Sorpresa! Io non sono la tipa cool. Quella che ti scopi per un po’ solo per fare quello trasgressivo e pericoloso e non essere solo lo sfigato che sei; e poi magari chiudi tutto e ti sposi la prima che capita”). Lui le fa notare di essere stato idealizzato (e usato) da lei a sua volta: “That’s what I am to you. I’m just this fucking dork, huh? I’m this fucking dork who you fuck and then you can feel like you’re getting your life together ’cause you’re fucking a nice guy and you’re not fucking a piece of shit anymore” (“Ah, perché io sono questo per te? Sono solo uno sfigato, eh? Sono uno sfigato di merda che ti puoi scopare solo per illuderti di tirare insieme la tua vita perché ti stai scopando un tipo normale e non più un coglione”). In questo senso Love sembra un saggio sul momento in cui l’ironia smette non solo di essere dissacrante ma anche di essere rassicurante.
La consapevolezza auto-riflessiva dei protagonisti di Love li rende anche perfettamente liberal, fedeli al contesto progredito e colto di cui fanno parte. In questo senso, oltre che postmoderni, sono anche “postpatriarcali”. Mickey e Gus non sono la tipica (e demodé) combo maschio alfa/donna romantica, anzi, la resistenza di lei a lasciarsi andare all’illusione e all’idealizzazione della coppia, allegorizzata dal suo scetticismo nei confronti dei giochi di prestigio, è il perfetto contraltare alla prudenza impacciata e poco virile di Gus.
Ma anche questo scambiarsi di ruolo è in realtà ormai diventata una nuova norma proprio per via della sua consapevolezza autoriflessiva ribaltatasi in dissimulazione. È ormai un genere, un brand, cui segue un irrigidimento sia a livello estetico (il contesto produttivo del resto lascia spazio a pochi dubbi su che tipo di prodotto aspettarsi) che a livello di una riflessione sul genere che non scioglie nessuno dei nodi delle rappresentazione patriarcali più “classiche”. Che anche il mondo “alternativo” del cosiddetto indiewood non fosse sempre immune a un certo tipo di discriminazione della figura femminile lo dimostrano serie come New Girl (http://www.grazia.it/stile-di-vita/cinema-e-tv/zooey-deschanel-fanciulla-da-salvare-2-0) in cui Zooey Deschanel è in fondo la solita damsel in distress, la ragazza abbastanza svampita da essere inconsapevole del proprio fascino, bisognosa di un uomo che la riporti sulla terra. Così come legata alla dipendenza dalla figura maschile ma diametralmente opposta nella sua aggressività è la figura della cool girl,http://www.buzzfeed.com/annehelenpetersen/jennifer-lawrence-and-the-history-of-cool-girls#.aw9kWYMYZ7, a cui Mickey, con la sua aria wreckless e bad ass appartiene di diritto. In questo senso Mickey sembra sottostare a quello che Angela McRobbie chiama “new sexual contract”, il nuovo tacito accordo su cui si negozia oggi la femminilità: l’indipendenza (simulata, nel caso di Mickey) della donna è permessa solo al prezzo di essere attraente e sessualmente disponibile, disposta cioè a considerare il proprio corpo come una merce di scambio in una perversione postfemminista del principio di autodeterminazione.
Damsel in distress e cool girl si incontrano non a caso nel concetto di manic pixie dream girl. Il tropo, individuato dal critico Nathan Rabin, non ha dei tratti necessariamente definiti, può spaziare dalla donna naif al maschiaccio alla femme fatale: quello che conta è che incarni e renda possibile un cambiamento nel protagonista maschile del film. La pixie, a differenza di quest’ultimo, non è un individuo, è una proiezione. Una figura che potrebbe essere stata partorita direttamente dalla mente del protagonista (lo dimostra l’iperbole di un film come Ruby Sparks, che parte proprio da questa premessa). Anche Love non è immune da questo immaginario nel mostrarci il rapporto tra Mickey e Gus – non è probabilmente un caso che l’attore che impersona quest’ultimo, Paul Rust, sia anche sceneggiatore (insieme a sua moglie Lesley Arfin e ad Apatow) della serie.
Per questo, tornando all’Hitachi Magic Wand di cui sopra, se si volesse trovare una scena speculare di Mickey che osserva il solipsismo del godimento di Gus sentendosene esclusa dovremmo forse tornare a Magic, la settimana puntata della serie diretta da Steve Buscemi, dove al primo appuntamento Gus porta una Mickey per nulla entusiasta a un super-esclusivo spettacolo di magia. In quel frangente vediamo che Gus letteralmente gode nel vedere i numeri di magia susseguirsi sul palco, mentre la presenza di Mickey non solo non si fa “strumento” del suo godimento (come fa Gus nella scena dell’Hitachi Magic Wand) ma addirittura ne diventa un ostacolo quando finisce per farsi cacciare fuori dal locale dai buttafuori.
Se al termine della puntata Gus “accetta” quasi magnanimamente di diventare “strumento” del godimento femminile della sua partner, Mickey invece se ne fa “ostacolo” nel momento in cui si tratta di dover “aiutare” il godimento masturbatorio maschile. Il rischio è che – proprio perché la serie segue molto più da vicino e con sensibilità molto maggiore la personalità di Gus, che è il vero detentore del punto di vista sull’intera vicenda – venga insinuato un po’ subliminalmente nello spettatore un certo rimprovero per una femminilità minacciosa, emotiva, instabile e tutto sommato poco affidabile che non sottosta alla regola aurea hollywoodiana della specularità dei godimenti (“se tu mi fai godere del mio piacere masturbatorio nel vedere lo spettacolo di magia, io poi ti farò godere del tuo”). Ma se la sessualità speculare esiste anche in una serie tutta “al femminile” e famosa per le scene di sesso akward come Girls – dove in una puntata dell’ultima serie assistiamo a una scena stranamente erotica di masturbazione “in sincrono” – ciò che rende Love così interessante è proprio l’inevitabile asimmetria dei godimenti.
Che ne sarà del rapport sexuel nella fase della post-postmodernità? Lo scopriremo, forse, nella prossima stagione. Ma qualche indizio c’è anche in questa, anche se i due non stanno ancora insieme. O forse proprio per questo motivo. Ian Crouch ha scritto sul New Yorker che Love sembra volerci dire che una storia d’amore riguarda soprattutto i due innamorati presi singolarmente. Come dice Badiou l’amore è soprattutto un’esperienza della differenza. Per la maggior parte del tempo noi vediamo Gus e Mickey stare con i loro amici, avere problemi o momenti di svago con i propri coinquilini e con i vicini, con i colleghi di lavoro, con i passanti per strada. Perché l’amore è soprattutto una passione della differenza che cambia radicalmente il proprio stare al mondo – anche quando in questo stare al mondo il proprio partner non c’è – più che essere (solo) un’esperienza di unione e di simbiosi.

 

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