06 agosto 2016

STRATEGIA DEL CONTAGIO





La strategia del contagio e la corta memoria occidentale

di Andrea Arrighi

Sarà difficile sapere se l’Isis aveva programmato o previsto la creazione di una simile sensazione di incertezza e paura nei paesi occidentali e non solo. Sto parlando del contagio che l’azione di un soggetto suicida esercita, sia esso un singolo cittadino dilaniato da disagio personale o un fiero combattente in nome di qualche religione. E’ ormai patrimonio della psicologia più comune il fatto che è meglio non rivelare pubblicamente l’avvenuto suicidio di qualcuno. Altre persone gravemente disagiate potrebbero infatti pensare che è venuto il momento “giusto” per potare a termine anche la loro vita. Così, nelle metropolitane delle città più popolate non viene mai comunicato esplicitamente che la circolazione dei treni è interrotta per un suicidio portato a termine; talvolta non si parla neppure di “incidente”, ma quasi sempre di “guasto tecnico”.
Ecco che, con clamoroso ritardo, i mezzi di informazione capiscono il pericolo di un contagio al di là di ogni immaginazione, legato proprio alla diffusione della mania di pubblicizzare foto, immagini di ogni tipo e informazioni o commenti su quanto di peggio accade nel nostro quotidiano. E’ proprio grazie alla diffusione di immagini e notizie macabramente dettagliate di soldati fondamentalisti che si  fanno esplodere uccidendo civili,  che è possibile sollecitare suicidi simili in soggetti non necessariamente  ispirati da qualche fanatismo religioso. Il suicida, nel suo isolamento sociale, appare strettamente quanto  letalmente collegato a quella  società che lo ignora, non lo valorizza abbastanza, ma che tuttavia lo circonda e resta importante per lui.
Già gli studi classici di E.  Durkheim ci raccontano di questo collegamento dell’aspirante suicida con gli altri. Il suicidio può apparire egoistico se l’individuo si suicida per una mancata integrazione nel suo contesto; ma può essere altruistico quando l’individuo si suicida, invece, identificandosi con l’ideale del gruppo di appartenenza; così il suicidio è anomico quando l’individuo, in seguito al disgregarsi delle sue relazioni sociali, perde anche la propria identità. Il suicida, nota la psicologia kleiniana, compie sia una vendetta che un’espiazione. Si vedica di torti subiti, portando su di sé la colpa di uccidersi e uccidere e si sente tuttavia anche vittima innocente sempre di quei torti che ritiene gli siano stati indirizzati nelle più svariate maniere. Il suicida, come appare spesso evidente, in molti casi si uccide provocando almeno problemi più o meno gravi alla collettività che lo circonda: blocca i mezzi pubblici, fa saltare in aria la palazzina dove abita con il gas, ecc. L’Isis ha offerto una motivazione in più per un suicidio spettacolare, che danneggia gravemente chi viene coinvolto, senza distinzioni di razza o di appartenenza religiosa (i musulmani risultano tra i più colpiti) e sembra garantire al suicida anche una relativa celebrità post-mortem. Il che si inserisce nelle tematiche di molti suicidi che, nel loro disturbare la quotidianità, esprimono in maniera definitiva e massima il loro odio e rimprovero a tutti quelli che rimangono.
Frustrazione e rabbia albergano in ognuno di noi e come psicoterapeuta spesso mi capita di occuparmene clinicamente. Il classico pensiero distruttivo “vorrei uccidere quasi tutti, cioè genitori, partner, colleghi di lavoro o capiufficio”, legato a motivazioni di vario genere, più o meno consapevoli, se non elaborato, può facilmente sfociare nel  progetto indicibile: “per uccidere gli altri uccido anche me stesso, così –  come si accennava –  divento carnefice e vittima!” L’Isis ha quindi creato uno stato di tensione che probabilmente non immaginava. In Europa, non siamo abituati – e facciamo di tutto per non abituarci – all’idea di essere in una situazione di guerra. In Iraq o in Siria, per citare solo due esempi, la situazione è inequivocabile: nessuno è sicuro di essere vivo nel futuro prossimo. Da noi no: è troppo angosciante immaginare di essere coinvolti in una guerra di un genere nuovo: non c’è un esercito “nemico” che arriva nel nostro paese a cui   arrendersi o coi cui eventualmente collaborare.
Si pensi alla controversa storia italiana nel suo rapporto col nazifascismo, ad esempio. (Si veda il recente saggio di F. Focardi Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale. Laterza, Bari, 2013). Qui il “soldato nemico” è un apparentemente innocuo partecipante ad una manifestazione nel nostro tempo libero che improvvisamente ci uccide, uccidendo se stesso. Oppure, aspetto ancora più inquietante, è un nostro concittadino, interessato al fondamentalismo religioso solo per quanto gli può servire a rendere  importante mediaticamente il suo gesto. L’attentato di Nizza o quello di Monaco di Baviera (Luglio 2016) sono infatti compiuti da soggetti ispirati da tematiche razziste e religiose, ma non da convinti soldati di un qualche Dio, come possono essere gli appartenenti alle truppe del califfato che lottano a Sirte, in Libia.
Se non c’è allora nessun “nemico riconoscibile” da affrontare e la sicurezza è affidata a soggetti che non solo non sono riusciti a impedire i diversi attentati, ma che, in alcuni casi, come quello nella chiesa di Saint- Etienne du Rouvray, avevano schedato e conoscevano bene gli attentatori e le loro intenzioni, allora la sensazione è quella di essere in periodo simile a quello degli anni ’70 in Italia, caratterizzato da quella che, secondo alcune opinioni, veniva definita come la strategia della tensione. Noi italiani dovremmo almeno conoscere e ricordare alcune stragi compiute non da fondamentalisti islamici ma da terroristi made in Italy, che non si suicidavano ma provocavano stragi ben più gravi di quelle attualmente compiute in Europa o almeno non meno drammatiche: alludo, per citare quelle più importanti, alla strage di Bologna ( 2 agosto 1980, un ordigno esplode alla stazione di Bologna e provoca il crollo dell’ala ovest: 85 morti, 200 feriti.), Piazza Fontana ( 12 dicembre 1969, un ordigno all’interno della Banca nazionale dell’Agricoltura uccide 17 persone e ne ferisce 88). Ovviamente diversi sono i contesti, i periodi storici e le motivazioni e dolorosamente controverse sono tuttora le interpretazioni storiche di quel periodo e di quei fatti: ma l’obiettivo sembra assai simile, cioè creare una situazione di incertezza generale nella popolazione civile. Come anche gli opinionisti di destra notano, neppure le forze di polizia, per quanto potenziate, esaltate e lasciate libere di compiere significative restrizioni nelle comuni libertà civili, come quella di partecipare a manifestazioni, sembrano garantire una sicurezza minima auspicata da ogni posizione politica. Questa strategia della tensione è infatti congruente con gli obiettivi dell’Isis che, contrariamente a quanto propaganda, non sembra mirare ad una conquista dell’Occidente – per ora neanche lontanamente raggiunta, se paragonata all’ascesa rapida della Germania nazista in Europa dal 1939 al 1944 – ma ad un suicidio collettivo in nome di paradisi fantasticati. Oppure l’obiettivo dell’Isis è, in termini sempre corrispondenti alla letteratura sul suicidio accennata, psicoanalitica ma non solo, quello di essere vendicatori e vittime suicidali di torti subiti. Quali possono essere questi torti? Le diseguaglianze planetarie che da secoli vengono confermate da politiche economiche gestite dall’Occidente, soprattutto a suo favore? Identità e integrazione sociale promesse e mai mantenute ai figli di migranti di prima, seconda o terza generazione in stati europei? Probabilmente entrambe queste motivazioni, ma anche altre, scarsamente conosciute dal pubblico italiano. Ricordiamoci che ogni fonte di informazione è solo una delle tante “finestre sul mondo”, non l’unica.
Restando invece sul tema dell’identità, credo interessante ricordare che in nome di ideali e di identità nazionali più o meno solide anche in Occidente non si è certo risparmiato in termini di perdite inutili di vite umane. Si pensi alle operazioni di guerra palesemente suicide gestite dal nostro generale Cadorna che, nel suo “Libretto Rosso sosteneva esplicitamente che negli attacchi “le prime file dei soldati servivano soltanto a fare da scudo alle seconde file”. Quindi alcuni soldati – non pochi – erano inevitabilmente destinati a morire, indipendentemente dalla loro capacità di combattere e dalla fortuna in combattimento. Del resto, lo stesso psicoanalista e polemologo Risè sostiene che “L’uomo è stato disponibile a morire per millenni, per avere un’identità, ed evidentemente lo è ancora”.
Quindi la situazione si fa sempre più drammatica. Non si tratta quindi di blindare ulteriormente le nostre frontiere. Il pericolo può arrivare da giovani, anche di origine europea, in cerca di un’identità “forte” per riscattare una vita anche economicamente agiata, ma priva di senso. Ecco che l’Isis propone proprio questo: chiunque può diventare soldato di Allah, se disposto ad immolarsi. Del resto, l’idea di avere “Dio dalla propria parte” non è per niente originale: l’Occidente quasi in tutte le sue guerre di conquista e civilizzazione passate e recenti  si è  sempre presentato come guidato da Dio; naturalmente, quello a sua immagine e somiglianza.
Che fare dunque? Se polizia ed eserciti vivono nella consapevolezza che non possono neppure agire come nel più totalitario degli stati, dato che se è (forse) possibile incarcerare tutti i possibili sospetti di simpatie fanatico religiose o tutti i possibili soggetti contrari ad un governo (come sta avvenendo in Turchia), è credo impossibile controllare e segregare tutti i soggetti con possibili turbe psichiche (spesso non facili da diagnosticare con certezza), tendenze suicidali o variamente emarginati. Il rischio che corriamo lo possiamo comprendere leggendo tra le righe un altro punto della definizione generale di suicidio:
“Siccome l’isolamento favorisce il suicidio, si è constatata una maggiore incidenza nei grossi centri urbani e tra persone che vivono sole rispetto ai coniugati; più numerosi si sono rivelati i suicidi nelle classi economicamente più agiate rispetto a quelle meno abbienti.” Quindi le persone da “controllare scrupolosamente” diventano davvero troppe per qualunque paese. Ecco che allora il gesto “jihadista”, come nota anche Recalcati, suscitando emulazione “si moltiplica coinvolgendo anche chi non professa quella ideologia”. Verrebbe da commentare, con una certa ironia, che sarebbe meglio indirizzare quei (numerosi) giovani in cerca di un’appartenenza “forte” alle tante altre sette occidentali esistenti certamente meno suicidali rispetto all’Isis. Purtroppo, sempre con amara ironia, appare anche poco credibile, data l’inarrestabile diffusione di mezzi tecnologici e il sempre vivo interesse per il macabro, raccomandare, come hanno  anche fatto recentemente le forze di polizia tedesche, la non trasmissione e diffusione di immagini di attentati, violenza e azioni terroristiche di vario genere. Come possiamo attenerci a questo consiglio, se stampa e (soprattutto) televisione o mezzi audiovisivi in generale prosperano soprattutto mostrando, in modo dettagliatamente morboso, quasi come un macabro mantra ripetuto ad orari regolari, (quasi) solo il peggio di quello che avviene nel pianeta? Forse una volutamente semplice risposta potrebbe essere cominciare a prendere consapevolezza dell’esistenza delle tante contraddizioni sociali, politiche, etiche , economiche per citarne solo alcune, della storia dell’Occidente che di vittime militari e soprattutto civili ne hanno prodotte tante.

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