Alberto Burri
Tra le grandi novità simboliche del Novecento c'è l'abbandono del quadro come contenitore
dell'arte pittorica. Artisti come Burri, Pollock e Fontana ne
squarciano la superficie o la contaminano con altri oggetti.
L'incandescenza della materia viola così la neutralità dell'opera
trascinandola verso la vita.
Massimo Recalcati
Il secolo breve che
rivoluzionò l'idea di spazio
Vincent Van Gogh
descriveva al fratello Theo lo stato di prostrazione, al limite del
sentimento di persecuzione, che talvolta provava di fronte al bianco
della tela. Il quadro gli si ergeva di fronte come una parete ripida
che rendeva vano ogni tentativo di scalarla. La nota metafora
albertiana del quadro come "finestra aperta sul mondo"
lasciava il posto all'esperienza di una impossibilità della visione.
Eppure lo stesso Van
Gogh, tormentato dal ghigno beffardo della tela, non ha mai
abbandonato né la tavolozza, né il pennello, né l'idea stessa del
quadro. La sua esperienza artistica per quanto sovverta i canoni
della rappresentazione consolidata nella tradizione umanistico-
rinascimentale, per quanto problematizzi la luminosa, ordinata e
pacifica idea del quadro- finestra, non abbandona mai il territorio
del quadro. Quando il concetto stesso di "quadro" viene
davvero violato, traumatizzato, oltrepassato nella storia della
pittura occidentale? Quando il tabù del quadro viene infranto?
Possiamo ricordare i tre
gesti che probabilmente più di altri hanno sancito la morte del
quadro, o, meglio, la morte del tabù del quadro come finestra sulla
realtà del mondo. Essi si concentrano nel giro di un decennio, tra
la fine degli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento. Sono tre gesti
che appaiono come violazioni aperte dell'ordine canonico del quadro e
della relativa centralità prospettica dello sguardo del suo autore —
il pittore -.
Burri, Sacco (1954)
Il primo di questi gesti
è quello di Alberto Burri che sul finire degli anni Quaranta grazie
al ciclo dei suoi divenuti celebri Sacchi di juta, sconvolge la
compattezza astratta e teoretica della superficie bidimensionale del
quadro introducendovi la forza palpitante di materiali poveri,
extra-quadro, che sino ad allora non avevano avuto alcun diritto di
cittadinanza in pittura. Non solo i sacchi di juta, ma, in seguito,
anche catrami, muffe, colle, legni, ferri, plastiche.
Una serie di materiali
sino ad allora estranei al mondo dell'arte, fanno irruzione nello
spazio del quadro dilatandolo verso l'esterno, come accade in modo
eloquente coi cosiddetti Gobbi, ovvero con opere costruite con una
impalcatura interna che curva la superficie della tela inserendovi un
rilievo evidente e che anziché offrire l'immagine del
quadro-finestra organizzato su di un punto di vista prospettico
interno balzano anamorficamente verso l'esterno, accostando la tela
più ad un'opera di scultura che ad un'opera di pittura.
Il tabù dello spazio
concettuale, meramente rappresentativo è così violato senza indugi:
l'incandescenza della materia contamina la neutralità astratta del
quadro trascinandola verso la vita, come quando Burri sostituisce
traumaticamente al pennello e alla tavolozza la fiamma ossidrica che
spara senza indugi sulla plastica generando il ciclo straordinario
delle sue Combustioni.
Il secondo gesto è
quello compiuto — pressoché negli stessi anni in cui Burri inizia
le sue sperimentazioni — , da Jackson Pollock che è stato uno dei
maggiori rappresentanti della cosiddetta Scuola di New York
dell'espressionismo astratto che riunisce figure, in realtà tra loro
molto diverse, come De Konning, Kline, Rothko e Congdon. Il suo gesto
è quello di togliere il quadro dal cavalletto e di situarlo a terra
dipingendo mentre muove il proprio corpo attorno al quadro. L'azione
pittorica non è più quella di un pittore- autorale che osserva la
realtà attraverso la linea prospettica del quadro-finestra.
Piuttosto il passaggio dalla verticalità del quadro, sostenuto dal
cavalletto, all'orizzontalità della sua disposizione a terra libera
il gesto dell'artista dal vincolo della prospettiva; il focus
percettivo si moltiplica, l'opera si apre ad una pluralità anarchica
di prospettive come in letteratura accadde vent'anni prima con la
grande lezione di James Joyce.
Pollock inventa una nuova
tecnica pittorica definita dripping: opera sgocciolando il colore
sulla tela usando pennelli induriti, bastoni o anche siringhe da
cucina. Le colonne d'Ercole del quadro sono superate. Non è più
l'opera d'arte che mima la realtà, ma essa realizza in se stessa,
nella sua più radicale immanenza, una nuova realtà. Violando il
tabù del quadro l'artista entra in una zona sconosciuta, non
garantita da nessuno, inaccessibile prima di allora. Questo significa
che l'opera non rappresenta altro se non se stessa; non è più il
mondo che trova raffigurazione nell'opera ma è l'opera che assorbe
il mondo, che diviene incarnazione di un nuovo mondo.
Il terzo gesto è quello
di Lucio Fontana che negli stessi anni in cui appaiono i gesti di
Burri e di Pollock viola a suo modo lo spazio tabù del quadro
lacerando con un coltello la sua superficie immacolata. Si tratta di
un gesto che contesta radicalmente l'idea hegeliana dello spazio
pittorico come astrattamente bidimensionale. Fontana mostra che il
quadro ha una consistenza materiale, vissuta, carnale, che il suo
spazio si lascia perforare, tagliare, aprire.
Non a caso, commentando i
suoi tagli, Jannis Kounellis ha paragonato questo gesto al dipinto di
Caravaggio intitolato L'incredulità di San Tommaso, dove si vede il
dito del discepolo infilarsi nel costato aperto di Cristo. La
superficie del quadro acquista così lo stesso spessore materico del
corpo; la maschera della sua astratta teoreticità cade mostrando
quella ferita della vita che resta al cuore di ogni grande arte.
La Repubblica – 24
luglio 2016
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