Peccato che in Italia ci siano stati pochi poeti incivili come Pasolini! (fv)
Pasolini poeta “incivile”. Il discorso del corpo vivo
Gianni D'Elia
Pasolini poeta continua ad essere
oggetto di contrasti. Ora con Bestemmia. Tutte le poesie (a cura di
Gabriella Chiarcossi e Walter Siti, Garzanti, 1994), e cioè con la raccolta di
tutta la produzione poetica pasoliniana edita, più inediti e testi dispersi in
riviste e altrove, i contrasti si riaccendono. Troppo contemporaneo per essere
classico. Troppo vicino a noi per poter sopravvivere come poeta dopo di noi. O
addirittura mediocre poeta, migliore regista e prosatore (ma saggista non
romanziere), miglior critico che autore. Sarà proprio così?
Giovanni Giudici, nella bella
prefazione ai due volumi recenti, ci parla di un vero e poliedrico poeta,
attirato dall’«inespresso esistente», e cioè dal segreto mai rivelabile della
realtà, dal suo mistero. Perché di Pasolini si può anche dire che è stato un
grande poeta del secondo Novecento, nell’aver vissuto la lacerazione della
poesia, sentita come carente alla vita.
La poesia è, per Pasolini, il discorso
del corpo vivo. Il discorso, e non il corpo («E’ Parola, non Carne...», da un
inedito del 1949). E’ in questa espulsione del corpo dalla scrittura che vive
la parola poetica. È nella coscienza di questa espulsione che si riproduce la
contraddizione insanabile del verso (che significa proprio spezzato, piegato).
Dunque è altro che ci interessa, rileggendo la (a volte grandissima, altre
meno) poesia di Pasolini, come del resto la poesia di Montale, Caproni.
Forse, chiusi nel mito del
formalismo della critica letteraria, non possiamo capire l’apporto vero di un
poeta alla sua cultura, alla lingua in cui si è insediato. Con Pasolini, come
del resto in Francia con Artaud, dobbiamo usare un’altra chiave. Sono casi che
hanno messo alla prova la lingua e l’unità del soggetto, e con essi la menzogna
letteraria.
Vivendo con il corpo la cultura,
certi autori del Novecento hanno dato la vera avanguardia del cuore, mentre la
critica correva dietro a quelle ufficiali. Le fonti seccate hanno ricevuto
nuova acqua dalla violenza espressionistica e dal manierismo vitalistico. Per
Artaud, Genet, Pasolini, la «poesia» ha significato il discorso del corpo vivo.
La polemica è stata contro uno statuto del sapere, che si organizza e si
sviluppa invece come discorso sul corpo morto, come discorso del corpo morto.
Poche opere come quella di Pasolini,
in questo secolo, portano dentro di sé l’istanza della ragione vitale, l’evento
ossesso del corpo. Di questo fa esperienza il linguaggio pasoliniano.
Attraverso i gradi della nostalgia delle origini (il friulano romanzo
dell’apprendistato), della emulazione metrica (le raccolte italiane «incivili»,
più che civili, poiché sempre in dissidio e mai mediatorie), degli ultimi
abbassamenti alla prosa, Pasolini corre tutti i rischi, ma li supera per
evidenziare sempre meglio il suo fuoco. Non si tratta, come alcuni critici
sostengono, di fallimento formale, ma di strategia consapevole di dissipazione.
Perché si dovrebbe scrivere, se non per piacere o per necessità, perché non se
ne può fare a meno? Non c’è altro giudizio che quello di sentire veri certi
percorsi, e percorrerli fino in fondo.
Di che cosa è stato poeta Pasolini?
Del corpo vivo che non si sa rassegnare all’estrema unzione di tutte le
istituzioni, fino alle culturali e linguistiche, perché c’è qualcosa che fonda
e precede la stessa cultura: il rapporto prelinguistico e mistico con le cose.
«Gettare il proprio corpo nella lotta» sta allora per «Gettare il proprio corpo
nel linguaggio». E’ questo il vero scandalo, la pietra di eresia che fa uscire
dalla rilettura dell’opera di Pasolini, al di là della stucchevole
rappresentazione di «poesia civile» che gran parte della critica le ha
assegnato, con un convincimento opposto: si tratta della poesia meno «civile»
che sia data nel Novecento, perché meno compromessa con qualsiasi mediazione
mondana. La contraddizione corpo/Storia è insanabile, così come uno stile da
allucinazione del reale («la realtà - l’irreale Qualcosa», dai Quadri
friulani, altro che «realismo sociale»!). Si tratta di una poesia
violentemente inclusiva dell’altro , che si sa per sempre cancellato, nell’atto
stesso che lo si nomina: il corpo vivo.
Ed è proprio il discorso del corpo
vivo (che si sa in perenne scissione con l’essere del corpo) ad essere nella
poesia di Pasolini continuamente evocato. Nella cultura, il rapporto tra segno
e cosa prende l’aspetto del rapporto tra segno e segno: quest’ultimo, esclude
dal proprio sistema il corpo, la vita, la fisica tridimensionalità con cui
lavora il cinema, tridimensionalità che lo stesso cinema, diventando scrittura,
riduce. E’ l’ossessione della «semiologia della realtà», e non della semiologia
del cinema: la realtà è il linguaggio (il figlio è la madre?), è il linguaggio
più grande, «la mia vera passione».
Pasolini vive così aperto dentro la
contraddizione corpo/Storia, fino a quando questa non lo sopprime e se lo porta
via, lasciandoci un’opera ancora molto da capire e saggiare, grazie anche a
questa ottima edizione ormai indispensabile del suo corpus poetico.
“la talpa libri – il manifesto”, 10
febbraio 1994
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