La fine delle ideologie, Gramsci e il pop, il '68 ormai lontano: l'incontro tra la signora del folk e il cantautore che ha riscoperto le sue origini
Capossela e Marini: "Si può ancora cantare per
fare politica"
di STEFANIA PARMEGGIANI
20 agosto 2016
Vinicio Capossela si
toglie il cappello di paglia e lo appoggia sul tavolo, sotto un pergolato di
uva. Abbraccia Giovanna Marini, la signora del folk italiano, del canto
contadino e delle lotte sociali. Lei sorride: "Ci dividono trent'anni,
generazioni di persone, un mondo intero...". Riempie i bicchieri: liquore
fatto in casa con il finocchietto selvatico. Immersi nel silenzio della
campagna laziale, lontani da Roma e vicinissimi a un mondo che forse non esiste
più, parlano di musica folk e resistenza culturale.
Tra qualche giorno, il 27 agosto, saliranno insieme sul palco dello Sponz Fest, il festival-happening che Capossela organizza in Alta Irpinia, nella terra di origine del padre. Marini sarà sua ospite per il concerto delle Canzoni della cupa, il disco- mondo a cui ha collaborato. "Qualcosa di più - dice Capossela, accarezzandosi la barba - è la madrina di questo lavoro".
Giovanna Marini: Addirittura? Ne sono felice.
Vinicio Capossela: Ricordi quando due anni fa ti ho chiesto di ascoltare le prime incisioni? Alcune rielaborazioni dei canti di Matteo Salvatore e altre ispirate ai sonetti della tradizione calitrana? Ero terrorizzato, mi hai dato la spinta ad andare avanti.
M: Mi era sembrato un miracolo. Al tempo del folk revival per noi esisteva la ricerca, la scoperta e il famoso ricalco. Non si osava fare quello che hai fatto tu, ma io ne avevo una voglia matta tant'è che mi sono inventata alcune canzoni popolari, dicevo di averle trovate in Abruzzo...
C: Infatti mi hai detto: beato tu che tante cose non le sai nemmeno... M: Noi eravamo pieni dello zelo del neofita. Eravamo quattro gatti, facevamo delle riunioni e dettavamo legge.
Tra qualche giorno, il 27 agosto, saliranno insieme sul palco dello Sponz Fest, il festival-happening che Capossela organizza in Alta Irpinia, nella terra di origine del padre. Marini sarà sua ospite per il concerto delle Canzoni della cupa, il disco- mondo a cui ha collaborato. "Qualcosa di più - dice Capossela, accarezzandosi la barba - è la madrina di questo lavoro".
Giovanna Marini: Addirittura? Ne sono felice.
Vinicio Capossela: Ricordi quando due anni fa ti ho chiesto di ascoltare le prime incisioni? Alcune rielaborazioni dei canti di Matteo Salvatore e altre ispirate ai sonetti della tradizione calitrana? Ero terrorizzato, mi hai dato la spinta ad andare avanti.
M: Mi era sembrato un miracolo. Al tempo del folk revival per noi esisteva la ricerca, la scoperta e il famoso ricalco. Non si osava fare quello che hai fatto tu, ma io ne avevo una voglia matta tant'è che mi sono inventata alcune canzoni popolari, dicevo di averle trovate in Abruzzo...
C: Infatti mi hai detto: beato tu che tante cose non le sai nemmeno... M: Noi eravamo pieni dello zelo del neofita. Eravamo quattro gatti, facevamo delle riunioni e dettavamo legge.
Capossela: “Ho fatto ascoltare le incisioni a
Giovanna, ma ero terrorizzato”
C: Il mondo era diverso, erano gli
anni prima e dopo il Sessantotto.
M: L'ideologia non esiste più e mi dispiace perché l'ideologia è un pensiero organizzato in cui credere. Al tempo noi pensavamo che i canti contadini fossero la vera cultura del popolo, tant'è che nel 1964 quando con il nuovo Canzoniere Italiano portammo lo spettacolo Bella Ciao al Festival dei Due Mondi di Spoleto, una signora si alzò e disse indignata: non ho pagato mille lire per sentire cantare la mia donna di servizio.
M: L'ideologia non esiste più e mi dispiace perché l'ideologia è un pensiero organizzato in cui credere. Al tempo noi pensavamo che i canti contadini fossero la vera cultura del popolo, tant'è che nel 1964 quando con il nuovo Canzoniere Italiano portammo lo spettacolo Bella Ciao al Festival dei Due Mondi di Spoleto, una signora si alzò e disse indignata: non ho pagato mille lire per sentire cantare la mia donna di servizio.
Giovanna Marini: “Oggi l’ideologia non esiste più”.
C: Non ho vissuto quella stagione e
così quando ti sento citare Gramsci dicendo che la musica contadina ha briciole
di classico, io non penso alla musica, ma al mondo classico. Ora sto leggendo
Sud antico, un saggio che analizza come la cultura classica sopravvive nei modi
di dire, nei proverbi, nelle superstizioni del mondo contadino del sud Italia.
Ecco, già le parole mi suonano diverse.
M: Musica classica e popolare sono nate assieme, ma in Italia il divario tra le due è stato lungo e costante, mantenuto così volontariamente dai conservatori e da chi ne aveva fatto motivo di potere. Per noi portare la musica contadina nei teatri e nei festival era un atto politico. Gianni Bosio sosteneva che dovevamo fare conoscere la voce del popolo e nello stesso tempo controllare che non venisse tradita.
C: Nelle musiche popolari ci sono continui rimandi a un passato non prossimo, ma di cento, duecento anni fa. Scavare, andare in profondità, è questo ad avermi affascinato.
M: Giustamente tu hai agito per fascinazione. Hai vanificato tutto quello che c'era da vanificare in noi e ti sei portato via la cosa giusta.
C: Solo adesso sto scoprendo il grande dibattito che c'era al tempo del folk revival, la discussione non solo sulle fonti, ma anche sul confronto con il mercato, con la televisione, con il Cantagiro che sembrava aprirsi alla musica folk e invece premiava solo il folkloristico.
M: Ci impegnavamo per rispettare le cose in cui credevamo. Facevamo dibattiti, gare... A Reggio Emilia nel '74 sfidammo gli Area: la Federazione dei giovani comunisti aveva chiamato a raccolta i ragazzi perché facessero il tifo per noi. Era veramente un altro mondo. La politica era importante ed era ovunque, anche nella musica che non aveva nulla di espressamente politico.
C: Per un anno sono andato in giro con la "Banda della posta", una formazione di vecchi musicisti che cantavano per i matrimoni quando i matrimoni duravano due o tre giorni. Abbiamo iniziato a contaminare il repertorio con canti del mondo operaio e anarchici.
M: Hanno un bellissimo linguaggio, così distante dall'abitudine che c'è oggi di ridurre tutto alla stessa parola.
C: Abbiamo inserito anche le canzoni dell'emigrazione: Salvatore Adamo, Celentano... Fare quella musica per me ha un valore politico. Anche le Canzoni della Cupa hanno un valore politico nel senso di resistenza culturale all'omologazione del linguaggio e del pensiero, a una plastificazione dei sentimenti e delle relazioni.
M: Questo si coglie nel tuo percorso. All'inizio sembravi cercare, adesso è come se ti fossi pacificato.
C: Sono arrivato al folk partendo da lontano, dalla musica di altre frontiere. Penso sia un fatto comune: l'interesse per il folk in Italia è nato anche come riflesso del successo del folk negli Stati Uniti, la figura di Bob Dylan e tutto il resto.
M: Dylan l'ho incontrato al Club 47 di Boston, una specie di Folkstudio dove andavo a cantare nel periodo in cui mi ero trasferita in America per seguire mio marito, un fisico. Faceva sempre la stessa cellula musicale, ripetitiva da morire. Eravamo tutti indignati, poi fece Blowin' in the Wind e ci trafisse. Ci siamo detti: poteva continuare a fare le sue melopee, adesso tocca farlo cantare per forza!
M: Musica classica e popolare sono nate assieme, ma in Italia il divario tra le due è stato lungo e costante, mantenuto così volontariamente dai conservatori e da chi ne aveva fatto motivo di potere. Per noi portare la musica contadina nei teatri e nei festival era un atto politico. Gianni Bosio sosteneva che dovevamo fare conoscere la voce del popolo e nello stesso tempo controllare che non venisse tradita.
C: Nelle musiche popolari ci sono continui rimandi a un passato non prossimo, ma di cento, duecento anni fa. Scavare, andare in profondità, è questo ad avermi affascinato.
M: Giustamente tu hai agito per fascinazione. Hai vanificato tutto quello che c'era da vanificare in noi e ti sei portato via la cosa giusta.
C: Solo adesso sto scoprendo il grande dibattito che c'era al tempo del folk revival, la discussione non solo sulle fonti, ma anche sul confronto con il mercato, con la televisione, con il Cantagiro che sembrava aprirsi alla musica folk e invece premiava solo il folkloristico.
M: Ci impegnavamo per rispettare le cose in cui credevamo. Facevamo dibattiti, gare... A Reggio Emilia nel '74 sfidammo gli Area: la Federazione dei giovani comunisti aveva chiamato a raccolta i ragazzi perché facessero il tifo per noi. Era veramente un altro mondo. La politica era importante ed era ovunque, anche nella musica che non aveva nulla di espressamente politico.
C: Per un anno sono andato in giro con la "Banda della posta", una formazione di vecchi musicisti che cantavano per i matrimoni quando i matrimoni duravano due o tre giorni. Abbiamo iniziato a contaminare il repertorio con canti del mondo operaio e anarchici.
M: Hanno un bellissimo linguaggio, così distante dall'abitudine che c'è oggi di ridurre tutto alla stessa parola.
C: Abbiamo inserito anche le canzoni dell'emigrazione: Salvatore Adamo, Celentano... Fare quella musica per me ha un valore politico. Anche le Canzoni della Cupa hanno un valore politico nel senso di resistenza culturale all'omologazione del linguaggio e del pensiero, a una plastificazione dei sentimenti e delle relazioni.
M: Questo si coglie nel tuo percorso. All'inizio sembravi cercare, adesso è come se ti fossi pacificato.
C: Sono arrivato al folk partendo da lontano, dalla musica di altre frontiere. Penso sia un fatto comune: l'interesse per il folk in Italia è nato anche come riflesso del successo del folk negli Stati Uniti, la figura di Bob Dylan e tutto il resto.
M: Dylan l'ho incontrato al Club 47 di Boston, una specie di Folkstudio dove andavo a cantare nel periodo in cui mi ero trasferita in America per seguire mio marito, un fisico. Faceva sempre la stessa cellula musicale, ripetitiva da morire. Eravamo tutti indignati, poi fece Blowin' in the Wind e ci trafisse. Ci siamo detti: poteva continuare a fare le sue melopee, adesso tocca farlo cantare per forza!
Giovanna Marini: “Bob Dylan? Era così ripetitivo”
C: Dylan diceva che il folk non era
per niente rassicurante, rose che crescono nel cervello... Un po' come nei
bestiari medievali, dove la realtà è una cosa molto diversa dalla verità, la
verità è inconoscibile ed è lo spazio dove possono esistere gli animali che
nella zoologia scientifica non esistono. Non sono reali ma sono veri. Il folk è
un ricettacolo di questo mondo della verità.
M: Ti hanno mai fatto conoscere Alfredo Bandelli? Ha fatto alcune canzoni poi riprese da Pino Masi che le ha rinchiuse nel mondo di Lotta continua di Pisa. Alfredo cantava le emozioni che gli dava il '68, incontrare persone che gli parlavano di un mondo possibile più bello e più giusto.
C: È un peccato che questa stagione straordinaria che voi avete vissuto non sia stata acquisita come patrimonio popolare.
M: C'è una ragione. Eravamo un po' settari, chiusi nel nostro mondo anche perché eravamo i primi e vantavamo questo fatto.
C: Oggi il ricalco non avrebbe senso, ma la poesia e la bellezza sono necessarie. Una bella canzone, che sia estratta o no dalla cultura contadina, ti ricorda l'unicità dell'essere uomo, la preziosità della vita, della fatica, del dolore. È importante che le canzoni veicolino qualcosa di profondamente umano, che attivino in noi il sogno, il senso dell'etica. Come diceva Enzo Del Re: dobbiamo fare di questo inferno un paradiso.
M: Se una canzone è estratta dalla cultura contadina è meglio perché è più vera. La gente si interessò al disco che feci con De Gregori e adesso si interessa al tuo disco perché sente che c'è qualcosa di vero, come dicevi prima: di vero e non di reale.
M: Ti hanno mai fatto conoscere Alfredo Bandelli? Ha fatto alcune canzoni poi riprese da Pino Masi che le ha rinchiuse nel mondo di Lotta continua di Pisa. Alfredo cantava le emozioni che gli dava il '68, incontrare persone che gli parlavano di un mondo possibile più bello e più giusto.
C: È un peccato che questa stagione straordinaria che voi avete vissuto non sia stata acquisita come patrimonio popolare.
M: C'è una ragione. Eravamo un po' settari, chiusi nel nostro mondo anche perché eravamo i primi e vantavamo questo fatto.
C: Oggi il ricalco non avrebbe senso, ma la poesia e la bellezza sono necessarie. Una bella canzone, che sia estratta o no dalla cultura contadina, ti ricorda l'unicità dell'essere uomo, la preziosità della vita, della fatica, del dolore. È importante che le canzoni veicolino qualcosa di profondamente umano, che attivino in noi il sogno, il senso dell'etica. Come diceva Enzo Del Re: dobbiamo fare di questo inferno un paradiso.
M: Se una canzone è estratta dalla cultura contadina è meglio perché è più vera. La gente si interessò al disco che feci con De Gregori e adesso si interessa al tuo disco perché sente che c'è qualcosa di vero, come dicevi prima: di vero e non di reale.
Da LA REPUBBLICA 20 agosto 2016
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