«Acciaio contro
acciao» di Israel Joshua Singer, da Adelphi. Pubblicato nel
1927, il romanzo dello scrittore ebraico-orientale mostra la
«disgregazione» prima della Shoah.
Andrea Colombo
Massa e Shtetl nel
fuoco del secolo
Quando arrivò al fatale
appuntamento con l’industria nazista dello sterminio, la comunità
ost-juden era già stata squassata e minata irreparabilmente nelle
sue fondamenta dall’irruzione della Storia. La specificità
eminente dell’ebraismo orientale era stata proprio l’aver
costruito, più che nelle altre realtà della diaspora, una sorta di
«patria» nell’esilio, fondata sulla consapevolezza dell’esilio
e sull’esaltazione della propria radicale alterità.
Gli ebrei orientali
avevano eretto siepi più alte delle altre comunità ebraiche nel
mondo per difendersi dal flusso minaccioso della Storia: non si
poteva evitare di subirlo, quando si presentava sotto forma di pogrom
o di arruolamento forzato nell’esercito zarista, ma si trattava
sempre di un fenomeno esterno, non diverso dalle calamità naturali.
Non era e non doveva essere partecipato.
A cavallo tra gli ultimi
decenni dell’Ottocento e i primi del secolo seguente, quella
barriera iniziò a cedere. I racconti del ciclo Taiwe il lattivendolo
di Shalom Aleichem, l’opera più significativa della letteratura
yiddish prima dei fratelli Singer, descrivono appunto l’impatto
della Storia sulla comunità chiusa ost-juden e l’effetto di
progressiva dissoluzione che ne consegue. Taiwe fu pubblicato nel
1894. Un anno prima era nato Israel Joshua Singer, lo scrittore che
avrebbe poi raccontato in tutta la sua opera lo sfaldamento di quel
mondo.
Israel era il più adatto
ad assolvere a quel compito. Scriveva, a differenza del suo grande
fratello, prima della Shoah, dunque senza essere condizionato dalla
consapevolezza di quale sarebbe stata la tragica sorte degli ebrei
orientali. Il rifiuto della cutltura nella quale era nato e cresciuto
lo aveva coinvolto direttamente: l’insofferenza e la conflittualità
nei confronti delle corti rabbiniche, della mistica degli hassidim e
della rigida chiusura della cultura ost-juden sono il cuore
dell’autobiografia uscita postuma nel 1946, pubblicata in Italia da
Adelphi l’anno scorso, La pecora nera.
A lungo e a torto
considerato solo «il fratello di Isaac Bashevish», Israel Singer,
nonostante le somiglianze superficiali, è un autore molto distante
dal fratello minore e per molti versi ne è anzi l’opposto. La sua
poetica è del tutto scevra da aspetti fantastici o visionari, e non
si affida mai alla lente deformante della nostalgia. È uno scrittore
realista con robusta venatura epica, capace di delineare caratteri e
fisionomie interiori con pochissimi tratti di penna ma riportando
sempre, anche quando sembra raccontare solo saghe di famiglia, i
percorsi dei suoi personaggi nel grande flusso di quella Storia che
aveva travolto il mondo chiuso dello Shtetl.
Acciaio contro
acciaio (Adelphi, «Biblioteca», pp. 240, euro 16.00) è
il suo primo romanzo, pubblicato nel 1927 in yiddish. La traduttrice,
Anna Linda Callow, ha compiuto una lavoro straordinario, partendo
dalla traduzione inglese curata da Joseph Singer, figlio dell’autore,
per poi confrontarla minuziosamente con l’originale yiddish per
ripristinare e integrare almeno una parte dei tagli apportati dal
curatore americano, il cui lavoro di editing mirava a snellire un
testo giudicato altrimenti molto pesante. Il protagonista del romanzo
è Binyamin Lerner, soldato dell’esercito zarista impegnato nella
guerra mondiale, disertore non per viltà ma per incapacità di
tenere a freno la lingua al cospetto dei superiori, operaio dopo
l’occupazione tedesca di Varsavia, braccio destro di un miliardario
filantropo che si è dato come missione la trasformazione di una
moltitudine miserabile di rifugiati ebrei in armoniosa comunità di
lavoratori, carcerato, rivoluzionario nella Pietroburgo d’Ottobre.
Ma lo stesso Lerner è solo un «personaggio principale». Vere protagoniste del romanzo sono le masse, che campeggiano praticamente in ogni pagina: flagellate dalla guerra, martoriate dall’occupazione tedesca, dalla fame e dalle epidemie, costrette a un lavoro tanto simile alla schiavitù da far quasi rimpiangere a Lerner le trincee, traversate da sussulti di coscienza collettiva che per farsi largo devono scontrarsi con l’ignoranza, le rivalità etniche, il razzismo, la diffidenza reciproca, il nodo scorsoio della tradizione, il terrore atavico dell’autorità.
La vicenda si snoda nei
due anni centrali della Grande Guerra. Binyamin Lerner si ritrova
disertore, più per caso e circostanze fortuite che per scelta,
all’inizio del 1916. Lo lasciamo quando entra alla testa di una
milizia operaia nel Palazzo d’Inverno, mentre l’Aurora
cannoneggia Pietroburgo. Sono gli anni nei quali si verifica, sulla
spinta di una guerra di proporzioni sino a quel momento inaudite,
l’entrata in scena delle masse come protagoniste della Storia.
Comincia lì il secolo breve, quello che nel bene e nel male sarà
segnato e condizionato dal protagonismo delle masse sino a quel
momento relegate sullo sfondo e condannate al mero ruolo della carne
da cannone.
Il Singer del 1927 non è
quello che dieci anni più tardi, deluso dalla Rivoluzione, scriverà
A oriente del giardino dell’Eden, però non c’è nulla di
oleografico o di ingenuamente superficiale nella sua visione delle
masse. L’immagine che ne restituisce è colma di partecipazione ma
impietosa: alla vicinanza e alla rabbia per le condizioni in cui sono
tenute si accompagna sempre la percezione delle pulsioni minacciose
che le agitano, la messa a fuoco lucida dei limiti che possono
trasformarle in pericolo mortale. Anche per se stesse.
Tra il dissolvimento del
tessuto sociale e culturale ebraico-orientale e l’acquisizione di
protagonismo da parte delle masse il nesso è immediato. Il vento che
spinge verso il centro della scena le moltitudini anonime è lo
stesso che abbatte la siepe eretta dall’ebraismo orientale per
impedire alla Storia di contaminarne la diversità. Proprio perché
Singer ignora l’epilogo apocalittico della Shoah, nei suoi libri la
fine dell’ebraismo orientale figura come riflesso parziale in grado
di esaltare un sommovimento generale. Nella sua «separatezza», la
vicenda particolare degli «ebrei dell’Est» funziona come traccia
privilegiata per decodificare e interpretare il quadro complessivo.
A differenza che nei
grandi romanzi successivi, in Acciaio contro Acciaio il tema della
secolarizzazione e della conseguente disgregazione della comunità
ebraica non è affrontato direttamente, né citato esplicitamente,
pur rappresentando parte essenziale dell’insieme. Lo Shtetl è già
alle spalle e Israel, tanto più in questa fase giovanile, è del
tutto impermeabile al richiamo della sua mistica, che pervaderà
invece l’opera di Isaac. Gli operai ebrei che lavorano a Varsavia
sotto il comando tedesco sono una comunità etnica non diversa da
quelle polacche e russe con cui dividono un lavoro massacrante. I
miserabili rifugiati che Lerner, su mandato del miliardario e
filantropo ebreo Aharon Lvovic, tenta di trasformare in comunità
operosa e coesa sono e resteranno una ciurma ignorante, superstiziosa
e infida.
Lerner, come prima di lui
Aharon Lvovic, sono il prodotto più vitale della disgregazione dello
Shtetl: energici, intraprendenti, divorati dalla necessità di fare,
dall’urgenza di incidere sul mondo, ma anche soli e disancorati.
Nonostante disponga di forza, intelligenza e orgoglio in quantità,
Lerner non trova mai un controllo sulla propria esistenza. Finisce
sempre in situazioni che non dipendono da una sua scelta: è
disertore, operaio, educatore e rivoluzionario, sempre per caso. Una
scialuppa senza ormeggio, in balia della tempesta della storia del
ventesimo secolo.
Il manifesto – 19
giugno 2016
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