Lima, Ciancimino, Di Fresco e Gioia
a un raduno della Democrazia Cristiana palermitana
a un raduno della Democrazia Cristiana palermitana
I
marinesi, come la maggior parte degli italiani, hanno la memoria corta. Può
essere utile allora ricordare alcune cose. Sapete quanti voti prendeva la DC a Marineo?
Chi si ricorda più di Ciancimino e Lima? Chi cercava voti per Lima a Marineo?
Tra qualche giorno si presenta un libro sui LADRI DI SPERANZA a Marineo. Chi sono stati e chi sono i LADRI DI SPERANZA a Marineo?
Tra qualche giorno si presenta un libro sui LADRI DI SPERANZA a Marineo. Chi sono stati e chi sono i LADRI DI SPERANZA a Marineo?
Non
mi aspettavo che queste domande ricevessero risposta in un paese in cui regna
ancora l’omertà. Anche per questo antepongo queste risposte allo stesso
articolo:
Roberto
Li Castri: A chi ha la memoria corta, a chi era emigrato in USA o
altrove, a chi era troppo piccolo per capire come funzionava la macchina
elettorale della Democrazia Cristiana pigliatutto di quel tempo, basti dire che
Mario Fasino, di origine pugliese, negli anni '60, al culmine della sua
carriera politica in Regione Siciliana, quando veniva a Marineo per un comizio,
era accolto alla cappella di San Ciro da migliaia di marinesi adeguatamente
organizzati dalle famiglie più influenti del paese. Poi, casualmente, qualche
rappresentante di quelle famiglie finiva per essere assunto in Regione, oppure
in qualcuna delle banche controllate dall'apparato politico democristiano.
Nino Pepe: Casualmente tutti i parenti
stretti ma anche quelli larghi e gli amici di Alfano sono tutti belli e
sistemati in enti pubblici, e quindi pagati con i nostri soldi. Mi pare che
tutte le epoche in questo sono uguali. Fasino? Uno dei tanti e nemmeno il più
importante.
Roberto Li Castri: D'accordo! Il lupo perde il pelo
ma non il vizio. Se poi rimaniamo nel ristretto ambito locale, non credo che
sia cambiato granché, nonostante siano trascorsi da allora cinquantanni e
nonostante si sia passati da un contesto socio-politico-economico in cui in
ogni famiglia c'era un genitore analfabeta, o quasi, ad una situazione in cui
in ogni famiglia c'è un laureato, magari in attesa di un improbabile posto di
lavoro che, come manna, cada dal cielo.
Francesco Virga: Come si fa a non essere d'accordo
con quanto scrive Roberto?
Nino Pepe: Non è questione di essere d'accordo
o meno, Roberto ha fotografato una realtà.
Francesco Muratore: Ma che rivangate il passato .....
Pensiamo al futuro
Francesco Virga: Passato, presente e futuro si son
tenuti sempre per mano...e il futuro oggi sembra avere un cuore più antico di
ieri!
Roberto Li Castri: I francesi dicono: "c'est un
système où tout se tient”
Francesco Virga: Il Muratore poi fa finta di non
sapere che il dc Toto' Cuffaro ha ripreso a fare politica a Palermo e che Ciro
Spataro non ha mai smesso di farla a Marineo (secondo tanti, anzi, è il vero
sindaco del paese!)
Francesco Muratore: il primo e il secondo non li ho
votati ..... Sono problemi di chi li ha votati. Ho sbagliato con Crocetta....
Ma non lo rifarò più
Posto qui la seconda parte del racconto del “sacco di Palermo” negli anni 50 e 60 del secolo scorso fatto dallo storico inglese John Dickie. Il racconto è tutto politico e svolto senza il “non detto perché implicito” che talora caratterizza gli storici italiani, di solito indulgenti verso la Democrazia cristiana, il partito a lungo egemone nell'Italia repubblicana.
La prima parte si può trovare al
seguente link
La storia del sacco di Palermo è
nella sua essenza politica, non architettonica, e come tale ha inizio in
un’altra città. Quando gli italiani lamentavano che la mafia fosse «gestita da
Roma», formulavano una versione semplicistica di un’incontestabile verità. I
politici, gli appaltatori e i mafiosi responsabili del sacco di Palermo si
trovavano a un estremo di una catena che conduceva diritto alla sede centrale
della Democrazia cristiana, situata a Roma in piazza del Gesù. E qui che fu
inventata un’intera nuova struttura del governo clientelare a uso dell’epoca
democratica.
Il primo anello della catena era
Amintore Fanfani, un impettito professore universitario aretino di bassissima
statura. Nel 1954, quando diventò leader della DC, propose una generale
modernizzazione del partito il cui scopo era di accrescere il potere nelle sue
mani. Se dominava il governo, la DC era però esposta all’influenza di poteri
esterni: sopra di essa stavano il Vaticano e i magnati dell’industria privata,
sotto i notabili conservatori che controllavano pacchi di voti nelle città e
nei paesi. E i titoli della DC a invocare l’appoggio di questi poteri
poggiavano su basi molto esigue. Fanfani era convinto che per poter trattare
con loro su un piede quanto meno di parità, il partito dovesse diventare una
moderna organizzazione di massa e un potere autonomo.
In Sicilia, come in buona parte del
Mezzogiorno, la rivoluzione fanfaniana significò due cose. Innanzitutto, in
seno al partito emerse una nuova specie di dirigenti politici: i Giovani
Turchi. Secondariamente, questi uomini s’impadronirono di ogni singolo posto su
cui riuscirono a mettere le mani, così nel governo nazionale come in quello
locale, negli enti parastatali e nelle imprese nazionalizzate. Il risultato fu
che nella nuova DC i vecchi notabili, con tutto il loro carisma, dovettero
scendere a patti con i dinamici giovani burocrati dalle mani sporche impegnati
a «occupare lo Stato» per conto del partito e di sé medesimi. I Giovani Turchi trasformarono
le risorse pubbliche in risorse della Democrazia cristiana.
Il Giovane Turco che più di ogni
altro si adoperò ad attuare il programma fanfaniano in Sicilia, nonché l’anello
successivo nella catena di corruzione che collegava Roma al saccheggio di
Palermo, era Giovanni Gioia. Gioia manteneva un basso profilo pubblico - di lui
Tommaso Buscetta dice soltatanto che aveva un «carattere glaciale» - e non
ricoprì mai cariche comunali; eppure occupa un posto fondamentale nella storia
della città in quegli anni. I bene informati lo chiamavano «il viceré», ed
erano convinti che detenesse in esclusiva il potere di scegliere il sindaco di
Palermo. Nel 1954, a ventot-to anni, Gioia diventò il segretario della
Democrazia cristiana per la provincia di Palermo, e, cosa altrettanto
importante, il capo dell’Ufficio Organizzazione del partito, che vigilava sulle
tessere. Gioia, o uno dei suoi seguaci, controllò l’Ufficio Organizzazione per
quasi un quarto di secolo. Fu da questa posizione chiave che il glaciale Gioia
reinventò la politica degli apparati in Sicilia.
In attuazione delle riforme
fanfaniane, per la prima volta furono create sezioni locali della DC in tutta
l’Italia; a Palermo, per fare un esempio, ce n’erano cinquantanove. Lo scopo
dichiarato era permettere al partito di penetrare nelle comunità, e così
facendo reclutare nuovi iscritti. I seguaci di Fanfani coniarono nuovi slogan
di partito, che proclamavano la fine della «politica dei maccheroni» (voti in
cambio di favori). La meccanica di questa modernizzazione politica era
semplice: la nuova struttura della DC significava che gli iscritti provvisti di
tessera eleggevano i dirigenti del partito; non solo, ma votavano per i
delegati che a loro volta selezionavano i candidati alle elezioni. O almeno
così voleva la teoria. In pratica, a Palermo il potere non stava nelle mani
degli iscritti, ma in quelle di Gioia. Con Gioia al timone dell’Ufficio
Organizzazione, le tessere venivano distribuite agli amici, ai parenti, ai
morti, a persone i cui nomi erano stati presi dall’elenco telefonico. Quanti
più iscritti contava, tanto maggiore era il numero dei delegati che una sezione
poteva inviare alle assemblee del partito. In altre parole, quanto maggiore era
il numero delle tessere che un capopartito come Gioia poteva vantare, tanto più
potere era in grado di offrire al capo di una corrente della DC nazionale, come
Fanfani. La prodigiosa crescita degli iscritti al partito verificatasi
nell’isola conferì in seguito alla DC siciliana, e a Fanfani, un’influenza
sproporzionatamente grande in seno alla DC nazionale. (Il piccolo professore
universitario aretino fu per sei volte presidente del Consiglio.)
Di per sé, tutto questo potere,
conquistato dal «viceré» Gioia all’interno della nuova Democrazia cristiana
siciliana, non contava nulla; perché fosse concretamente redditizio, bisognava
che il partito fosse in grado di distribuire i posti di lavoro, le licenze, i
sussidi e gli altri beni preziosi che dipendevano dal controllo del governo
locale e regionale. La scena era pronta per il sacco di Palermo, e per
l’emergere dei due principali felloni della vicenda: Vito Ciancimino e Salvo
Lima, entrambi eletti al consiglio comunale palermitano per la prima volta nel
1956, ed entrambi sostenitori di Gioia. Furono loro a trasformare la politica
dei maccheroni nella politica del cemento.
Sul piano del carattere, Ciancimino
e Lima erano quasi diametralmente opposti. Ciancimino era il figlio di un
barbiere di Corleone. Era un tipo arrogante, rozzo di modi, sveglio e
ambizioso. Le fotografie degli anni del sacco di Palermo mostrano un uomo
dall’aria equivoca inguainato in un completo alla moda, con tanto di panciotto,
cravatta sgargiante, capelli pettinati lisci all’indietro e sottili baffi
scuri. Lima, figlio di un archivista del comune, era laureato in legge, e la
sua vita lavorativa cominciò al Banco di Sicilia. Occhi sporgenti sotto una
chioma ricciuta perfettamente in ordine, era paffuto, distinto e sfuggente
quanto Ciancimino era smilzo, ruvido e caustico.
Sebbene Ciancimino e Lima
appartenessero entrambi alla corrente fanfaniana, i loro legami con la mafia
erano diversi. Ciò spiega come mai Buscetta giudicasse i due in maniera
opposta. Ciancimino lo ricordava come «un corleonese invadente e prevaricatore»
che badava soltanto ai propri interessi e a quelli degli uomini d’onore del suo
paese natale. Buscetta - un antico avversario dei Corleonesi - indirizzava il
pacchetto di voti sotto il suo controllo verso Lima. I due non si dettero mai
del tu, ed erano entrambi uomini di poche parole; ma i loro rapporti d’affari
erano basati - se dobbiamo credere a Buscetta - su «rispetto reciproco e
sincera cordialità». Conoscendo la passione di Buscetta per l’opera, Lima si
preoccupava di fargli avere regolarmente dei biglietti per il Teatro Massimo.
Insieme, Ciancimino e Lima fecero
della carica, apparentemente umile, di assessore ai Lavori pubblici la più
impudente e lucrosa fonte di potere clientelare in Italia. Tra il 1959 e il
1963 - gli anni più caldi del boom edilizio, e quelli in cui prima Lima e poi
Ciancimino furono assessori ai Lavori pubblici - il consiglio comunale concesse
4.205 licenze edilizie, l’80 per cento delle quali andò a soli cinque uomini. E
siccome in quel periodo il grosso dell’economia palermitana dipendeva
dall’edilizia sovvenzionata con fondi pubblici, per le mani di queste cinque
persone passò una quota enorme della ricchezza della città.
Ma non si trattava, come ci si
potrebbe aspettare, di grandi costruttori, di imprenditori di rilevanza
nazionale. In realtà erano dei signor nessuno. Le norme vigenti prevedevano che
l’assessorato ai Lavori pubblici concedesse licenze edilizie soltanto a
ingegneri civili qualificati per il tipo di lavoro in questione. Ma qualcuno
aveva ripescato un regolamento risalente al 1889, ossia a un’epoca in cui le
qualifiche moderne nel campo dell’ingegneria civile non esistevano. Secondo
questo regolamento, per ottenere una licenza di costruire un’azienda doveva
avere sul suo libro paga un «capomastro» o un «appaltatore competente». La
giunta teneva gli elenchi delle persone autorizzate. Tutti e cinque i grandi
concessionari di licenze del sistema Lima-Ciancimino figuravano in una lista
risalente a prima del 1924. La netta impressione è che anche allora le
qualifiche addotte fossero false; uno dei cinque sembra essere stato nulla più
che un commerciante di carbone. Un altro si rivelò per un ex muratore, che
successivamente trovò lavoro come portinaio e custode in uno dei caseggiati
d’appartamenti la cui costruzione aveva in teoria diretto. Interrogato, si
limitò a dire che era uno che faceva ciò che bisognava fare per tirare avanti;
aveva firmato le licenze per fare un favore a certi «amici».
Guardato dal punto di vista degli
«amici» anziché da quello degli uomini politici, il sacco di Palermo cominciò
sul campo, con i mafiosi che ora pensavano a tener d’occhio i cantieri,
esattamente come in passato avevano sorvegliato le piantagioni di limoni.
Azioni vandaliche e furti potevano bloccare qualunque progetto edilizio, se il
boss locale decideva in questo senso. Il secondo livello dell’influenza della
mafia era un fitto strato di piccoli subappaltatori che fornivano le braccia e
i materiali. Quand’anche Lima e Ciancimino non fossero esistiti, a questo
livello uomini politici e imprese di costruzioni avrebbero comunque dovuto
venire a patti con il potere della mafia. Al livello ancora superiore c’erano i
grandi imprenditori edili, uomini inseriti in corrotte reti di amici, parenti,
clienti e sodali in traffici illeciti. Quanto più a fondo si spinge lo sguardo,
tanto più fitte appaiono le maglie di queste reti, che legano insieme uomini
politici locali, funzionari municipali, avvocati, poliziotti, appaltatori
edili, banchieri, uomini d’affari e mafiosi.
Al centro di queste reti stavano
Gioia, Lima e Ciancimino. Il metodo dei Giovani Turchi era una forma di caos
accuratamente pianificato, come mostra la storia del piano regolatore di
Palermo.
Tutto cominciò nel 1954. Nel 1956 e
nel 1959 il piano sembrò prossimo ad andare in porto, ma entrambe le volte
furono apportati centinaia di emendamenti in accoglimento di istanze di privati
cittadini, molti dei quali erano in realtà uomini politici democristiani e
mafiosi, cui si aggiungevano i loro parenti e associati. Il piano fu
definitivamente approvato nel 1962. Ma a quella data l’assessorato ai Lavori
pubblici aveva concesso un gran numero di licenze edilizie sulla base della
versione del 1959, col risultato che in molte aree la cui destinazione il piano
era presunto disciplinare sorgevano già interi caseggiati d’appartamenti.
Ancora dopo il 1962, chi avesse accesso a Gioia, Lima e Ciancimino poté far
modificare il piano in suo favore, o farsi condonare retrospettivamente
violazioni già compiute. In un solo caso fu ordinata la demolizione di un
complesso costruito illegalmente. Ma nessuna azienda osò farsi avanti per
chiedere la concessione del relativo appalto.
Bisogna riconoscere che in questi
metodi c’era un pizzico di genialità. Il piano regolatore cittadino, come le
norme che stabilivano chi poteva ottenere una licenza edilizia, avevano lo
scopo di impedire costruzioni illegali. Sotto Lima e Ciancimino, esse servirono
soltanto a mettere saldamente nelle mani dei politici la facoltà di edificare
illegalmente. Abbiamo qui un amaro paradosso, fin troppo noto agli italiani:
quanto più severa è la regola, tanto più elevato è il prezzo che il politico è
in grado di esigere per trovare il modo di aggirarla.
C’è poi il fattore paura. Un’idea
della paura che Ciancimino, il «corleonese invadente e prevaricatore», poteva
incutere ce la dà il caso Pecoraro. Nell’agosto 1963 Lorenzo Pecoraro, socio di
un’azienda di costruzioni, inviò una lettera al Procuratore capo di Palermo in
cui accusava Ciancimino di corruzione. I fatti risalivano a quasi due anni
prima, quando, secondo Pecoraro, Ciancimino aveva illegalmente negato una
licenza edilizia alla sua ditta. Ciò mentre a un’altra impresa, la Sicilcasa
S.p.a., veniva accordato il permesso di costruire su un lotto di terreno
contiguo, malgrado il progetto violasse in più punti le clausole del piano
regolatore.
L’azienda di Pecoraro reagì all’alt
imposto al suo progetto avvicinando Ciancimino per mezzo di un intermediario,
che era poi il boss mafioso della zona in cui si voleva costruire. La manovra
sembrò aver successo: Ciancimino promise di concedere la licenza. Ma ci fu un
ritardo causato da uno sciopero degli impiegati comunali. Quando lo sciopero
finì, Pecoraro, per motivi che rimangono ignoti, aveva perso l’appoggio del
mafioso. E dal canto suo Ciancimino aveva adottato una nuova tattica: ai
dirigenti dell’impresa di Pecoraro fu fatto sapere che potevano avere la loro
licenza soltanto se versavano una cospicua tangente nelle casse della
Sicilcasa.
Nella lettera al magistrato
inquirente, Pecoraro fece il nome di un testimone il quale aveva affermato che
Ciancimino era un socio occulto della Sicilcasa. Pecoraro diceva altresì di
essere in possesso di una registrazione su nastro in cui si udiva Ciancimino
vantarsi che la Sicilcasa gli aveva regalato un appartamento. In un altro nastro
si udiva un notaio confessare di essere il tramite attraverso il quale le
enormi tangenti pagate per le licenze edilizie finivano all’assessorato ai
Lavori pubblici di Ciancimino. Nell’intervallo tra gli eventi del caso
Sicilcasa e la lettera di Pecoraro al Procuratore il boss mafioso e tre soci
della Sicilcasa erano stati arrestati con l’accusa di omicidio.
Malgrado tutti questi elementi, il
magistrato cui Pecoraro aveva inviato il suo rapporto originario non trovò
motivi sufficienti per un’incriminazione. L’anno successivo accadde però che il
caso capitasse sotto gli occhi di una commissione d’inchiesta parlamentare. Ma
a questo punto Pecoraro presentò alla commissione una lettera in cui affermava
che le sue passate accuse contro Ciancimino erano «il frutto di errate
informazioni». Non solo, ma le voci secondo le quali Ciancimino si faceva
corrompere erano state messe in circolazione da individui che nutrivano
risentimenti personali e politici nei suoi confronti. Ciancimino, concludeva
Pecoraro, era sempre stato un uomo «esemplare per correttezza ed onestà». La
faccenda finì lì.
Ciancimino e Lima furono i più
scellerati politici democristiani di quel periodo, quelli che avanzarono più in
fretta su una nuova, tortuosa strada alla ricchezza e al potere. Per decenni,
un’orda di politici mediatori di favori fece della Democrazia cristiana
siciliana un labirinto di clientele, consorterie, fazioni, contro-fazioni,
alleanze occulte e faide palesi. Perfino giornalisti esperti disperavano di
poter mai riuscire a trovare il bandolo di una matassa così aggrovigliata. Sul
finire degli anni Sessanta uno di questi giornalisti pubblicò un’inchiesta su
quello che chiamò un eminente «personaggio» democristiano. Entrando nel nuovo
appartamento palermitano dell’uomo politico, il giornalista trovò
Marmi... e quadri di buona epoca,
mobili di ogni stile, ori antichi intatti nel loro splendore, esposizioni di
gioielli, monete, reperti archeologici, preziosissimi crocefissi in avorio in
profana promiscuità con panciuti Budda di giada. Avevo la sbalordita
impressione di trovarmi dinanzi al pingue e disordinato bottino di un corsaro.
E il personaggio era lì, in vestaglia lunga; si sbaciucchiava con i suoi capi
elettori convenuti dal circondario. Era proprio lui, l’uomo che avevo conosciuto
agli inizi della sua carriera politica, povero come un Giobbe: mi chiedevo
quale sortilegio gli avesse fatto scaturire attorno quel fiume d’oro.
Il potere che, insieme con altri,
negli anni Cinquanta Ciancimino e Lima furono i primi a creare per sé sarebbe
durato decenni. Ciancimino fu arrestato soltanto nel 1984, e per una sentenza
di condanna definitiva bisognò aspettare il 1992 (fu il primo uomo politico mai
condannato sulla base di accuse di collaborazione con la mafia). Il 12 marzo di
quello stesso anno Salvo Lima (all’epoca membro del Parlamento europeo) cadde
vittima di un sistema giudiziario meno macchinoso: fu ucciso a colpi di pistola
nei pressi della sua casa di Mondello, il sobborgo di Palermo che è anche un
luogo di villeggiatura sul mare. Se Lima fosse davvero un uomo d’onore, come
affermano alcuni pentiti di mafia, non sappiamo con certezza. Buscetta lo
riteneva improbabile, ma disse che suo padre era appartenuto alla Famiglia di
Palermo Centro. Ciò di cui nessuno dubita è che siano stati i suoi ex amici a
porre bruscamente fine alla carriera politica di Salvo Lima.
Da Cosa nostra. Storia della
mafia siciliana, Laterza 2009
Riprendo da FB una parte del dibattito che ha suscitato questo post:
RispondiEliminaAntonio Dragonetto: Grazie!! Una testimonianza storica di gran valore
Marisa Sapienza: Bravo !
Giovanni Canzoneri: In molti la rimpiangono. Esprimendosi, ancor oggi, con nostalgia: ...però, iddi, manciavanu e facevanu manciari.
Francesco Virga: Caro Giovanni, è in parte vero quello che dici...Comunque, permettimi di ricordare che, ai tempi in cui in Sicilia dominava Lima, il sottoscritto ha avuto il coraggio di schierarsi contro i limiani del proprio paese. E della mia persona il leader di quel gruppo, che aveva già corrotto tanti altri, ebbe a dire un giorno: CU CHISSU NUN CI POSSU, PICCHI' CHISSU NE' MANCIA NE' FA MANCIARI!
La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. Taccio su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel "Politecnico": la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione.
RispondiEliminada "Il vuoto del potere" ovvero "l'articolo delle lucciole" Corriere della Sera, 1 febbraio 1975.
Quando ho pubblicato questo post non credevo che avrebbe destato tanto interesse. Ancora oggi sono pervenuti nel mio diario fb dei commenti che, almeno in parte, ripropongo di seguito:
RispondiEliminaValeria Sara Lo Bue: Qualcuno rimpiange la vecchia DC? #azz #amaresiamo
Francesco Virga: Più di qualcuno, Vale'...e tanti pensano che il PD sia già la nuova DC!
Valeria Sara Lo Bue: Certo nulla si crea e nulla si distrugge ma quel mondo a mio parere è finito... fortunatamente direi...la rivoluzione è permanente :)
Francesco Virga: Talora si fa finta di cambiare per conservare meglio l'esistente...Saro' cieco e sordo: non vedo ne' sento alcuna aria di rivoluzione in giro
Valeria Sara Lo Bue: no no...dico che dovrebbe esserlo...però, caro Franco, non ci attacchiamo a ciò che non ci rappresenta più...portiamo la testimonianza fino alla fine ma non dobbiamo avere paura che il mondo cambi...l'essere umano non è buono ma è anche buono. ti stimo tantissimo per la tua energia.
Francesco Virga: Ti ringrazio tanto anche per la pazienza che mostri seguendo i miei antichi miti oltre alle mie paranoie...Anch'io ti stimo tanto e ti voglio bene, carissima Valeria. E spero ancora che i giovani come te riescano a fare meglio e più di quanto non siamo stati capaci di fare noi.
Domenico Passantino: " La Democrazia cristiana è un nulla ideologico mafioso: perduto il riferimento alla Chiesa, essa, comealeodorante cera, può modellare se stessa secondo le forme necessitate da un più diretto riferimento al Potere economico reale, cioè il nuovo modo di produzione (determinato dall'enorme quantità e dal superfluo) e la sua implicita ideologia edonistica (che è esattamente il contrario della religione."
RispondiEliminaPasolini, Lettere luterane, p.90