Nel corso della presentazione che ho avuto il piacere di fare della prima edizione della Storia di Bolognetta dell'amico Santo Lombino ho già avuto modo di sottolineare il peso enorme che ha avuto la mafia o, più precisamente, la borghesia mafiosa di quel paese nel corso della sua storia. Nella nuova edizione della stessa storia Lombino offre un inedito contributo alla migliore comprensione del complesso problema fornendo una serie di documenti reperiti nell'Archivio di Stato di Palermo dai quali risalta l'uso spregiudicato del potere locale, da parte delle classi dirigenti, per accrescere il loro consenso.
Sono convinto che ciò che rende particolarmente interessante la lettura dei libri di Santo, oltre al fatto che sono ben documentati, è il suo approccio metodologico ai problemi esaminati. L'essere riuscito a fondere insieme fonti diverse (fonti orali, archivistiche, letterarie, antropologiche, ecc.) rende particolarmente originale il risultato finale che stimola, oltrettutto, il lettore a provare a fare ricerche simili nel proprio territorio.
Per gentile concessione dell'Autore, pubblico un capitolo di questa storia che mostra come la privatizzazione dei terreni demaniali e comunali (come di tutti i beni comuni) sia stata una delle principali leve usate dagli amministratori locali del paese ( e non solo di Bolognetta!), dall'Unità d'Italia ai nostri giorni, per accrescere e conservare il loro potere.
fv
Santo Lombino
L’usurpazione delle terre comunali
Lo scarso rispetto per le regole impronta per altro anche l’attività dei notabili e di tanti cittadini del paese. Lo testimonia un esposto del 1870 alla Deputazione provinciale, che denunciava le usurpazioni commesse dal sindaco Antonino Monachelli - Traina, dagli assessori e dai consiglieri in carica. “Se volessero in effetto mettere impegno a reintegrare i diritti comunali interessati - scrive l’esponente -, dovrebbero cominciare dal distruggere le opere abusivamente da essi fatte”. Il documento elenca minuziosamente gli abusi edilizi che sarebbero stati commessi in via Romano per opera del sindaco pro-tempore e dai “due consiglieri Giuffrida e Margagliotti (o Macagliotta). Quest’ultimo avrebbe costruito sul marciapiede dello “stradone principale” e davanti alla sua taverna un murello, una pennata (tettoia sporgente) ed una scala sporgente più d’un metro, costruita senza autorizzazione”. L’elenco prosegue con le opere degli assessori: Ciro Benanti “fabbricò sul suolo pubblico la casa dove attualmente abita, intercettando quasi interamente la strada che conduce alla matrice”, cioè alla Chiesa madre; Benedetto Fiumefreddo “guastò lo allivellamento delle due strade Sinagra e Cannolicchio per costruirsi uno stereobate (cioè un muo di sostegno) innanzi la sua casa a piano parallelo”.
Pesanti accuse vengono poi rivolte ai componenti del Consiglio comunale in carica: il consigliere Bruno ha costruito una scala usurpando il suolo della via Sinagra, Lo Brutto edificò due scale, una nella via Sinagra, l’altra nella via Occiditore, ingombrando le due strade. Ha poi fabbricato una casa sopra suolo comunale e chiuso una strada parallela allo stradale grande, che serviva da passaggio del bestiame, E’ accusato inoltre di aver usurpato una zona di terreno comunale larga due e lunga metri trenta, elevando un muro di sei palmi. E continuando: “Francesco Orobello si costruì delle case sopra suolo comunale…, maestro Gaetano Sinagra… ha usurpato parte del suolo a comune per fabbricarvi due case, deviando il corso dell’acqua che dal così detto gorgo viene a scaricarsi sotto il ponte vicino la casa degli eredi Manfrè. Non si prese pur pensiero di costruire un nuovo corso, e le acque scorrono senza direzione danneggiando pria lo stradale, e poi le case circostanti”. Le accuse, non sappiamo se e quanto fondate, non risparmiano neppure il segretario comunale Pravatà, il quale “costruì uno stereobate nella strada Monachelli innanzi la sua casa, senza riguardo a livello di strada, ad impedimento di transito, ed alla uscita delle case laterali”.
Il reclamo rimase lettera morta, tant’è vero che sei anni dopo il regio delegato Patricolo dovette prendere atto della relazione redatta dall’agronomo Giannino in cui si fanno ammontare i terreni usurpati “ad are 28,68 per la somma di lire 939,25”. Dalla relazione si evinceva che da parte degli amministratori comunali non fu preso mai un provvedimento per contrastare gli abusi. È facile, a suo giudizio, comprendere perché: molti consiglieri e assessori erano colpevoli delle illegalità stesse. La terapia proposta era chiara: “le usurpazioni deggiono cessare e procurarsi dee invece al Comune un introito annuo con cui poter diminuire qualche balzello e recar sollievo alla cittadinanza”. In parole povere, se gli usurpatori avessero pagato l’acquisto, era possibile ridurre le tasse, con beneficio degli abitanti tutti.
Il problema viene affrontato in Consiglio comunale anche nel 1878 e nel 1879. In quest’ultima occasione vengono convocati i proprietari che hanno compiuto le usurpazioni e invitati a dichiarare se, allo scopo di evitare un lungo e costoso contenzioso con l’Amministrazione, siano disponibili a un “equo accomodamento”, cioè una transazione finanziaria con il Comune. Francesco Orobello, ad esempio, si sarebbe impossessato di 5 are e 42 centiare, per un valore di circa 300 lire, Lorenzo Bannò di 1 ara e 20 centiare, causando “pericolo per il paese, perché il dissodamento del terreno aggevola (!) la frana che minaccia il paese”. Il Consiglio decide di fargli diroccare il muro a secco che egli ha alzato per chiudere il terreno usurpato, definendo tale costruzione ”una vera mostruosità”. Antonino, erede di Giusto Rigoglioso, ha incamerato 6 are e 82 centiare di terreno ed è accusato di aver deviato il torrente che divideva la sua proprietà da quella del comune. “La frana, che dalla parte orientale ha abbattuto varie case, coll’avvicinarsi dell’alveo del torrente all’abitato può farsi più terribile per lo scoscendimento della terra”.
Non si arriva invece ad alcun accomodamento con Francesco Lo Brutto fu Arcangelo, anch’egli consigliere comunale, accusato di essersi “annesse” alcune parti “della trazzera comunale che serve da via di comunicazione per Baucina, Ventimiglia ed altri comuni. Le aveva recintate con un muro, includendo un torrente nella sua proprietà. Il consigliere rifiuta di pagare quanto richiesto dalla giunta municipale, sostenendo che “la trazzera di cui si è appropriato non appartiene al terreno comunale”. Gli altri consiglieri gli fanno osservare che non si tratta di regia trazzera, ma di trazzera vicinale, cioè di collegamento con altri comuni, e delegano il sindaco di “procedere contro di lui con i mezzi forniti dall’art. 378 della legge sui lavori pubblici”.
Nel maggio 1884 il prefetto di Palermo, riprendendo una nota del Regio delegato Stoppani risalente a cinque anni prima, fa presente la necessità di far pagare agli abitanti di ogni categoria una tassa annuale o una tantum per aver occupato con edifici e manufatti porzioni più o meno ampie di suolo pubblico. Intervenendo nell’assemblea municipale, l’assessore Saverio Bongiorno afferma però, non sappiamo con quanta convinzione, che chi ha costruito senza permesso è in genere “persona di bassa condizione” che con tale attività edilizia ha portato solo vantaggi alla comunità. Ha riparato fabbricati rovinati dai movimenti franosi, ridotto le cause di insalubrità dovuta ai cumuli di immondizie nei terreni comuni (‘u cummuni), cercato di ingrandire il “ristretto paese”. La proposta prefettizia, che impone il rispetto di leggi e regolamenti, viene quindi unanimemente considerata irricevibile dal Consiglio comunale in carica, che revoca anche una precedente delibera riguardante le tasse per l’occupazione irregolare di suolo pubblico.
Nel 1892, quando il tema verrà posto ancora all’ordine del giorno dell’assemblea municipale, il consigliere Francesco Lo Brutto denuncia il fatto che “molti comunisti (= abitanti del comune), abusando dello sfacelo dell’Amministrazione comunale, molto spesso commissariata, hanno usurpato una grandissima parte del terreno pubblico, tanto che più di cento case, come “per esempio quella dei fratelli Carmelo e Giovanni Greco, e di Pietro Salerno... sono fabbricati sopra suolo comunale”. L’intervento del consigliere si conclude con la proposta di incaricare un ingegnere dell’Ufficio tecnico dell’Intendenza di Finanza per la redazione di un esatto ruolo dei terreni usurpati e avere così le basi per denunciare gli usurpatori e chiedere loro di pagare gli indennizzi. La minoranza consiliare si associa volentieri a tale proposta, ma il notar Benanti fa presente che a suo giudizio non si andrà oltre le pie intenzioni, visto che sono “tanto la Giunta, quanto il Consiglio, interessati tutti nella usurpazione del suolo comunale”. Il consigliere Orobello, nel confermare tale impressione, afferma che è giusto far pagare a chi si accinge a costruire un censo per i “terreni occupati od usurpati”, ma data la “miseria della popolazione”, esprime l’augurio che la municipalità “voglia rimandare ad altri tempi l’applicazione di questa nuova imposta” che sarebbe certamente per il paese “una novità mal accolta ed odiosa”. La votazione conclusiva vede la maggioranza (Mosca, Cigno, Bifarelli, Romano, Greco, Bannò), con sei voti su undici, favorevole alle iniziative anti-usurpazione.
A metà agosto 1900 si dovrebbe discutere dell’argomento, ma la seduta consiliare va deserta. Le ragioni? Ci sono da fare lavori nei campi ed inoltre è “tempo di lutto per la morte dell’amato Sovrano nostro Umberto Primo”. Un chiaro pretesto, tanto è vero che i consiglieri non si presenteranno neppure alla convocazione del 7 settembre. La seduta si terrà infine l’8 settembre: in essa la giunta propone che “visto che il canone sulle terre comunali verrebbe a colpire principalmente la classe meno abbiente dei cittadini, si farà una delegazione dal prefetto per insistere sull’abolizione del ruolo e della tassa stessa!”.
Nell’assemblea municipale di metà maggio del 1906, prende la parola sull’argomento Carmelo Greco, che fa parte, assieme a Lorenzo Bannò, Arcangelo Benigno, Giuseppe Malleo, Antonino Sinagra, dell’opposizione al sindaco Giovanni Orobello. Il consigliere attacca la famiglia Monachelli, i cui esponenti sono accusati di usurpare le terre comunali “nel cozzo Santa Rosalia”. Il consigliere Bannò fa presente che non sono solo i “signori Monachelli” a compiere tali abusi, ma anche altri, di cui però evita accuratamente di fare i nomi. Conclude proponendo che il Consiglio vari la formazione di una Commissione di indagine sui troppi “sconfinamenti” ai danni del pubblico demanio. Formare una commissione, come è noto, equivale in Italia, nella maggior parte dei casi, a rinviare per sempre la soluzione di un problema.
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