Nel 1950 Cesare Pavese
concesse una lunga intervista alla radio (la televisione non c'era
ancora) che presenta elementi di grande interesse per la comprensione
dello scrittore. Pasquale Briscolini ne ripercorre gli elementi
portanti.
Pasquale Briscolini
“Intervista alla
radio” Ovvero, la sua ultima auto-interpretazione
Siamo a giugno del 1950
quando Pavese prepara il manoscritto per un’intervista alla radio,
con Leone Piccioni e la sua rubrica “Scrittori al microfono”.
Sembra un’analisi molto lucida, serena, che esprime per certi versi
anche le linee guida per un programma di lavoro da portare avanti,
salvo per un punto sul quale, con il senno di poi, “vengono i
brividi”. Dirà infatti, parlando dei suoi personaggi, in un punto
che anticipiamo e sul quale ritorneremo poi procedendo con ordine: “…
così egli spera di continuare a farli, fin che gli bastino le
forze”. Quelle forze finiranno in meno di due mesi.
L’intervista era stata
preventivamente strutturata su alcune grandi domande che riguardavano
il lavoro dello scrittore; la prima era la seguente:
“La
critica abbastanza concordemente ha indicato le varie fasi attraverso
le quali è passato il Suo lavoro: dall'influsso degli americani, ad
un neorealismo polemico, fino a toni schiettamente nostrani e talora
regionalistici. Vuol parlare Lei stesso agli ascoltatori del Suo
cammino e dei Suoi propositi?”
Sarebbe stato
interessante poter riascoltare l’intervista dalla viva voce dei due
dialoganti, Leone Piccioni e Cesare Pavese, ma purtroppo non è più
possibile in quanto la RAI non ha conservato alcuna registrazione con
la voce di Pavese. Non solo di questa intervista (ammesso che sia
stata registrata, e che non si sia concretizzata solo nella consegna
di un manoscritto), ma di ogni altra intervista, ad esempio in
occasione della consegna del Premio Strega del ’50.
Insomma, non è
più possibile ascoltare la voce di Pavese; abbiamo un grande
rammarico, ma questa è la nuda verità. In questo caso dobbiamo
accontentarci del manoscritto preparato per l’occasione. Ecco come
Pavese risponde alla prima domanda di Leone Piccioni:
“Sono ormai dieci
anni che la critica ha la bontà di occuparsi regolarmente di me, dei
vari racconti che vado scrivendo, e negli ultimi anni ha detto su
qualcuno di questi racconti cose assai lusinghiere e fini, cose che
sarei felice di sottoscrivere io stesso. Sia quindi chiaro che se
oggi farò un appunto a questa critica - presa nel suo insieme - ciò
non nasce da sciocca insofferenza di giovane autore, bensì - oso
dire - dal desiderio di collaborare al chiarimento di uno dei
problemi più discussi della nostra odierna cultura.
Parlo del cosiddetto
influsso nordamericano, cioè non soltanto di me, Cesare Pavese,
bensì di quella piccola rivoluzione che, intorno agli anni della
guerra, ha mutato - dicono - la faccia della nostra narrativa. Quando
si parla di Hemingway, Faulkner, Cain, Lee Masters, Dos Passos, del
vecchio Dreiser, e del loro deprecato influsso su noi scrittori
italiani, presto o tardi si pronuncia la parola fatale e accusatrice:
neo-realismo. Ora, vorrei ricordare che questa parola ha soprattutto
oggi un senso cinematografico, definisce dei film che, come
Ossessione, Roma città aperta, Ladri di biciclette, hanno stupito il
mondo - americani compresi - e sono apparsi una rivelazione di stile
che in sostanza nulla o ben poco deve all'esempio di quel
cinematografo di Hollywood che pure dominava in Italia negli stessi
anni in cui vi si diffondevano i narratori americani.
Come avviene che la
stessa etichetta definisca con lode una cinematografia e con biasimo
una narrativa, che pure sono nate contemporaneamente sullo stesso
terreno intriso di succhi nordamericani?
L'appunto che vorrei
fare alla nostra critica è questo: si è mai provata questa critica
a definire lo stile, la maniera narrativa nordamericana, ricercandone
le radici e i modelli storici? Lo sa questa critica che senza Kipling
non si spiega Hemingway, senza l'espressionismo tedesco e i russi non
si spiegano né O' Neill né Faulkner, senza Maupassant non si
spiegano Fitzgerald, Cain e tutti gli altri? Non occorreva affatto
uscire dall'Europa per diventare, come si dice, neorealisti. Ancora
un passo e potremo sostenere, con ragione, che furono gli americani a
imparare in Europa il neo-realismo narrativo (beninteso, come
tecnica, non come spirito), così come adesso stanno di fatto
rimparando da noi quello cinematografico.”
Certo, si può
condividere o meno il contenuto dell’analisi, ma è innegabile la
profondità della stessa. Ci si rende conto di quanto i dieci anni di
traduzioni intensive siano in realtà servite a Pavese per
“studiare”, in particolare le letterature delle due parti del
mondo, per confrontarle e capirne i collegamenti. Questo in generale;
poi passa al suo caso personale per il quale commenta la valutazione
dei critici con un certo risentimento:
“Resta il mio caso
personale. Chiedo scusa ma, quando mi si descrive come uno che
sarebbe passato dall'americanismo al neo-realismo polemico e poi
addirittura al regionalismo nostrano, io confesso di non capire.
Cominciando
dall'americanismo, suppongo si pensi alla dozzina o circa di
narratori anglosassoni, che ho tradotto dal 1930 al '40. Ma,
lasciando stare che in quegli anni componevo pure le poesie di
Lavorare stanca per cui sarebbe difficile trovare un modello
anglosassone nel nostro secolo, è grossolano credere che il tradurre
abbia l'effetto di avvezzare la mano a quel dato stile da cui si
traduce. Il tradurre - parlo per esperienza - insegna come non si
deve scrivere; fa sentire a ogni passo come una diversa sensibilità
e cultura si sono espresse in un dato stile, e lo sforzo per rendere
questo stile guarisce da ogni tentazione che si potesse ancora
nutrire di sperimentarlo in proprio. Alla fine di un periodo intenso
di traduzioni — Anderson, Joyce, Dos Passos, Faulkner, Gertrude
Stein - io sapevo esattamente quali erano i moduli e le movenze
letterarie che non mi sono consentiti, che mi restano esterni, che mi
lasciano freddo. Come sempre quando ci si mescola e avvezza a gente
molto esotica e impensata, mi ritrovavo alla fine più isolato, più
scontroso, ma anche più furbo, nel vecchio senso piemontese del
termine.”
Viene da riflettere sul
lavoro del traduttore e sulla sua fatica “per rendere uno stile”.
Rosa Calzecchi Onesti, riferendosi alla traduzione dell’Iliade e
alla laboriosissima interazione con Pavese, così parlava di questo
lavoro:
“il
traduttore che cosa fa? “Sente” profondamente la bellezza del
testo da cui parte e conosce le possibilità della lingua d’arrivo:
possibilità musicali, fantastiche, evocatrici. La questione diventa
questa: le evocazioni delle parole italiane possono essere le stesse
di quelle della lingua d’origine ma possono anche non esserlo, e
quindi le armoniche che si suscitano sono diverse, sono altre e
possono essere bellissime, assolutamente bellissime anche quelle.
Però non c’è mai la possibilità di rendere completamente la
poesia o il brano scritti in un’altra lingua. C’è questa
“impossibilità”, che però è una impossibilità – come dire –
ricca, invece che impossibilità povera. E allora il traduttore
deve sempre in qualche maniera giustificare il perché ha tradotto in
un certo modo, che cosa nel risultato ottenuto non “si sente” più
e che cosa invece magari “si sente meglio”, rispetto alla resa
che dava la lingua originale”.
Ma ritorniamo a Pavese,
che insiste sul proprio lavoro per rivendicarne con forza
l’autenticità:
“E poi, guardiamo
alle date. Nessuno dei miei critici vuol credere che il mio racconto
Carcere sia stato scritto, nella forma in cui compare nel volume
Prima che il gallo canti, nel 1939 ‒ e ciò perché col suo stile
tutto evocativo e fantastico minaccia di rovinare la teoria ch'io
abbia cominciato proprio in quell'anno col neo-realismo
all'americana. Ciò è semplicistico, e del resto nella carriera
letteraria che mi si traccia non troverebbero posto libri come Feria
d'agosto o i Dialoghi con Leucò, quei dialoghi che sono forse la
cosa meno infelice ch'io abbia messo sulla carta.”
Qui colpisce, oltre alla
determinazione con cui Pavese contrasta la tesi semplicistica del
“neo-realismo all’americana”, anche la “modestia” con la
quale parla dei Dialoghi come “forse la cosa meno infelice ch’io
abbia messo sulla carta”. E viene in mente tutto il grande lavoro –
di quantità e di qualità – fatto negli anni della sua breve
vita e che Calvino riassume con grande efficacia:
“Per
noi che lo conoscemmo negli ultimi cinque anni della sua vita, Pavese
resta l’uomo dell’esatta operosità nello studio, nel lavoro
creativo, nel lavoro dell’azienda editoriale, l’uomo per cui ogni
gesto, ogni ora aveva una sua funzione e un suo frutto, l’uomo la
cui laconicità e insocievolezza erano difesa del suo fare e del suo
essere, il cui nervosismo era quello di chi è tutto preso da una
febbre attiva, i cui ozi e spassi parsimoniosi ma assaporati con
sapienza erano quelli di chi sa lavorare duro. Questo Pavese non è
men vero dell’altro, del Pavese negativo e disperato, e non è solo
consegnato ai ricordi degli amici, e a un’attività al di fuori
delle pagine scritte; era quello l’uomo che “faceva”, l’uomo
che scriveva i libri; i libri della maturità portano questo segno di
vittoria e addirittura di felicità, sia pur sempre amara.”
Laddove invece fa
dispiacere il giudizio di Pierpaolo Pasolini che, in un’intervista
a Franco Contini del 1972 parla di Pavese come di uno scrittore
“medio e anche mediocre”; sembrano per certi versi più
comprensibili i giudizi sprezzanti di Moravia, ma da Pasolini si fa
più fatica ad accettarli…
Procediamo con
l’auto-analisi:
“Mi si consenta di
parlare della mia opera come se fosse quella di un altro, e io un
critico che non ha nulla da perdere. Dirò dunque che quest'opera,
cominciata scontrosamente in pieno periodo ermetico e di prosa
d'arte, quando il castello della chiusa civiltà letteraria italiana
resisteva imperterrito ai venti gagliardi del mondo, non ha sinora
rinunciato alla sua ambigua natura, all'ambizione cioè di fondere in
unità le due ispirazioni che vi si sono combattute fin dall'inizio:
sguardo aperto alla realtà immediata, quotidiana, «rugosa», e
riserbo professionale, artigiano, umanistico ‒ consuetudine coi
classici come fossero contemporanei e coi contemporanei come fossero
classici, la cultura insomma intesa come mestiere.”
Difficile negare che si
tratti di un programma ambizioso e affascinante, a prescindere da una
valutazione sul quanto Pavese riesca a raggiungere l’obiettivo
altissimo che si pone. D’altro canto è la frase del suo Diario che
definisce la perenne “tensione emotiva” dell’opera d’arte:
“tutta l’arte è un problema di equilibrio fra due opposti”: in
questo caso gli opposti sono la classicità e la contemporaneità.
“Della civiltà
umanistica quest'opera vuole (sia detto con tutta umiltà) conservare
il distacco contemplativo e formale, il gusto delle strutture
intellettualistiche, la lezione dantesca e baudelairiana di un mondo
stilisticamente chiuso e in definitiva simbolico. Della realtà
contemporanea rendere il ritmo, la passione, il sapore, con la stessa
casuale immediatezza di un Cellini, di un Defoe, di un chiacchierone
incontrato al caffè.”
Qui si capisce anche la
sua polemica verso coloro (anche politici della sua parte) che
vorrebbero far prevalere negli scrittori le esigenze del presente,
delle lotte sociali, o anche i tragici ricordi della guerra con tutti
gli orrori compiuti verso l’umanità intera, in particolare con i
campi di sterminio. Ma Pavese ha in mente entrambi i poli, in un
difficile tentativo di renderli inscindibili:
“Esigenze
difficilmente conciliabili, è chiaro. Ma ci sembra che il tempo sia
giunto: o adesso o mai più. In un'epoca come la nostra in cui chi sa
scrivere pare non abbia più niente da dire e chi comincia ad aver
qualcosa da dire non sa ancora scrivere, l'unica posizione degna di
chi pure si sente vivo e uomo tra gli uomini ci sembra questa:
impartire alle masse future, che ne avranno bisogno, una lezione di
come la caotica e quotidiana realtà nostra e loro può essere
trasformata in pensiero e fantasia. Per far questo, va da sé che
sarà necessario non essere sordi né all'esempio intellettuale del
passato - il mestiere dei classici, - né al tumulto rivoluzionario,
informe, dialettale, dei nostri giorni. La crisi è, beninteso,
soprattutto politica.”
“O adesso o mai più”,
dice Pavese parlando del cambiamento in letteratura. Ma sembra che
quella frase abbia per lui un significato più ampio, di un
cambiamento radicale dopo la fine della guerra e l’inizio
dell’esperienza democratica. Lo dimostra il suo tentativo di
impegnarsi nella vita sociale, anche con l’iscrizione al PCI. Come
purtroppo sappiamo, tutto il tentativo andò irrimediabilmente deluso
e si concluse tragicamente. Ma la sua aspirazione di “adesso o mai
più” riguardava una visione completa, dalla letteratura, alla vita
sociale e a quella personale.
“Scendiamo a più
umili quote. Sarà forse chiaro adesso perché Pavese rifiuti
l'etichetta di neo-realista, di regionalista, e via dicendo.”
Prendiamo da un
vocabolario di Italiano la definizione di “neo-realismo”: “dicesi
neo-realismo la corrente letteraria e, successivamente, tendenza
artistica e cinematografica, che si propone di rappresentare
realisticamente la vita umana e sociale, senza finzioni, artifici
estetico-retorici, idealizzazioni”. Sentiamo invece da Pavese
stesso quanto lui sia di fatto lontano da questo atteggiamento:
“ Mi spiego. Quando
Pavese comincia un racconto, una favola, un libro, non gli accade mai
di avere in mente un ambiente socialmente determinato, un personaggio
o dei personaggi, una tesi. Quello che ha in mente è quasi sempre
soltanto un ritmo indistinto, un gioco di eventi che, più che altro,
sono sensazioni e atmosfere. Il suo compito sta nell'afferrare e
costruire questi eventi secondo un ritmo intellettuale che li
trasformi in simboli di una data realtà. Ciò gli riesce, beninteso,
secondo il grado di concretezza, sensoriale, dialogica, umana, che
porta nella sua elaborazione. Nasce di qua il fatto, non mai
abbastanza notato, che Pavese non si cura di «creare dei
personaggi». I personaggi sono per lui un mezzo, non un fine. I
personaggi gli servono semplicemente a costruire delle favole
intellettuali il cui tema è il ritmo di ciò che accade: lo stupore
come di mosca chiusa sotto un bicchiere, in Carcere, la
trasfigurazione angosciosa della campagna e della vita quotidiana
nella Casa in collina, la ricerca paradossale di che-cosa siano
campagna, civiltà cittadina, vita elegante e vizio nel Diavolo sulle
colline, la memoria dell'infanzia e del mondo in La luna e i falò. I
personaggi in questi racconti sono del tutto sommari, sono nomi e
tipi, non altro: stanno sullo stesso piano di un albero, di una casa,
di un temporale o di un'incursione aerea.”
Si ha infatti, alla fine
della lettura di un’opera di Pavese, sia essa una poesia o un
racconto breve o lungo (si fa sempre fatica a chiamarlo “romanzo”
anche nel caso di un “racconto lungo”), la sensazione di una
certa “evanescenza” dei personaggi e della storia, mentre è
decisamente forte una “sensazione complessiva”, che è forse
proprio quella che lui vuole e che chiama “il ritmo di ciò che
accade”. Appunto: “la memoria dell'infanzia e del mondo in La
luna e i falò”, “la trasfigurazione angosciosa della campagna e
della vita quotidiana nella Casa in collina”, e così via.
“Ecco perché
Pavese, con ragione, ritiene i Dialoghi con Leucò il suo libro più
significativo, e subito dopo vengono le poesie di Lavorare stanca. In
ciascuno dei dialoghi con Leucò si rievoca con rapide battute
dialogiche fra i due protagonisti un mito classico, veduto e
interpretato nella sua problematica e angosciosa ambiguità,
penetrato nel suo nòcciolo umano, spogliandolo di ogni bellurie
neoclassica e trattandone i protagonisti come bei nomi carichi bensì
di destino ma non di un carattere psicologico a tutto tondo. Così
sono, più o meno, tutti i personaggi di Pavese, e così egli spera
di continuare a farli, fin che gli bastino le forze.”
Con questa visione del
suo lavoro di scrittore e poeta, con quasi tutto il valore dato al
ritmo e al simbolo e poco alla storia e ai personaggi, diventa per
lui ovvio mettere al primo posto Leucò e Lavorare stanca. E così
sarà “fin che gli bastino le forze”.
Pavese risponde poi alle
altre domande che Leone Piccioni gli aveva posto nel questionario:
“Vorremmo
ora conoscere la Sua posizione nei confronti della narrativa italiana
del passato e contemporanea. Pensa che il Suo lavoro si inserisca in
una tradizione classica italiana? Quali indirizzi e quali nomi di
contemporanei particolarmente apprezza?”
“Alla stessa
conclusione si arriva esaminando le predilezioni letterarie di
Pavese, e con ciò si risponde alla seconda domanda del questionario.
Prima che italiane le sue letture sono classiche e poi sovente
straniere. Pavese ritiene massimi narratori greci Erodoto e Platone
(a proposito, egli non fa differenza tra teatro e narrativa) -
scrittori che mirano non tanto al personaggio ‒ come fanno invece
Omero e Sofocle - quanto al ritmo degli eventi o alla costruzione
intellettualistico-simbolica della scena.”
Ormai è tutto così
chiaro che Pavese rischia di essere ripetitivo: non costruzione di
personaggi a tutto tondo ma ricerca di ritmi e simboli. Questo si
ritrova anche nella predilezione degli autori per le letture
classiche.
“Gli piace molto
Shakespeare, ma non per la romantica ragione che questi crea
personaggi indimenticabili, bensì per una più vera: il suo assurdo
e meraviglioso linguaggio tragico (e anche comico), le terribili
frasi o tirate del quinto atto in cui, per diversi che fossero i
caratteri dei personaggi, tutti dicono sempre la stessa cosa. Gli
piace, come narratore, Giovanni Battista Vico - narratore di
un'avventura intellettuale, descrittore ed evocatore rigoroso di un
mondo - quello eroico dei primi popoli - che ha sempre interessato
Pavese e da anni gli ha fatto smettere ogni lettura amena per
dedicarsi alle relazioni e ai documenti etnologici - testi in cui
egli ritrova quel senso di una realtà simbolica e insieme fondata su
saldissime istituzioni che, a suo parere, è la fonte prima di ogni
poesia degna di questo nome.”
Ed ecco emergere, nello
stesso tempo, sia il disinteresse per le letture amene, di evasione,
che l’interesse forte per l’etnologia, e quindi tutto il filone
di ricerca con Ernesto De Martino e la loro “Collana viola”.
Argomento che Pavese considera addirittura “la fonte prima di ogni
poesia degna di questo nome”.
“Infine gli piace
assai Herman Melville, il cui Moby Dick ha tradotto, non sa con
quanta competenza, ma con molto trasporto, una ventina di anni fa e
che ancora adesso gli serve di pungolo a concepire i suoi racconti
non come descrizioni ma come giudizi fantastici della realtà.
Infatti i suoi
racconti (compresi ovviamente i “racconti lunghi”) non sono mai
“descrizioni” ma “giudizi fantastici della realtà”. E’ un
po’ quello che sostiene anche nel saggio “Hanno ragione i
letterati”, quando mette in evidenza la differenza, secondo lui
profonda, tra il lavoro del giornalista e quello dello scrittore.
Questa lista di
letture è, s'intende, solamente indicativa. Ma a che scopo fare un
facile sfoggio di nomi? Resterebbero i viventi, gli italiani viventi,
ma a che scopo farsi degli amici interessati e dei nemici? Meglio
evitare il trabocchetto e dichiarare ‒ del resto, secondo verità ‒
che per Pavese il maggior narratore contemporaneo è Thomas Mann e,
tra gli italiani, Vittorio De Sica.”
Insomma, con questa
“intervista” Cesare Pavese ci fornisce l’interpretazione
autentica del proprio lavoro. Autentica e definitiva, se consideriamo
il periodo (estate del 1950) in cui venne rilasciata. Ci rendiamo
conto, ancora una volta, che nel suo lavoro tutto è ricerca continua
verso un punto limite che non si raggiunge mai. Ritmi, sensazioni,
atmosfere; personaggi (peraltro non ben definiti, che possono far
pensare alle sculture “apparentemente” incomplete di
Michelangelo) come mezzo e non come fine. E il poter capire, con
Calvino: “come la cultura del letterato e la sensibilità del poeta
si trasformavano in lavoro produttivo, in valori messi a disposizione
del prossimo, in organizzazione e commercio d’idee, in pratica e
scuola di tutte le tecniche in cui consiste una civiltà culturale
moderna”.
Ottimi, entrambi !!!
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