11 agosto 2016

CINEMA E SOGNI



COSA SOGNANO I FILMS
 di Daniela Brogi

Oggi esce il volume Altri Orizzonti. Interventi sul cinema contemporaneo. Alcuni degli articoli raccolti in Altri Orizzonti erano usciti, in una prima versione, su «Le parole e le cose». Quelle che seguono sono le prime pagine del libro, tratte dall’Introduzione.


La patria dei sogni a occhi aperti
L’altra Heimat – Cronaca di un sogno (Die andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht), diretto da Edgar Reitz e presentato a Venezia nel 2013, è l’ultima opera del progetto Heimat, realizzato nell’arco di trent’anni e nato dall’idea di raccontare la storia della Germania nel Novecento. Ne L’altra Heimat siamo ancora nel villaggio immaginario di Schabbach, la patria da cui aveva preso avvio la vicenda di Heimat 1, al termine della prima guerra mondiale; ma la saga della famiglia Simon stavolta si svolge durante il secolo precedente, in particolare tra il 1840 e il 1843, negli anni che preparano le grandi migrazioni verso il Brasile delle famiglie di contadini dell’Hunsrück, ridotti alla fame dalla carestia e dalla politica feudale prussiana. L’altra patria, il nuovo mondo dove arriveranno le carovane di migranti che si stagliano in campo lungo, non si vede mai: è la destinazione sconosciuta della parte della famiglia Simon che alla fine del film lascerà il paese; ma l’altra patria è anche l’altrove di chi resta, sognando tutta la vita di partire: è un punto di fuga della vita interiore, è il mondo di illusioni che ci portiamo dentro, il luogo a immagine dei propri desideri cui tende l’anima romantica di Jacob Simon, il protagonista, mentre fantastica tra i suoi libri.
Anche se rimarrà sempre invisibile, per l’intera durata del film, l’altra patria sognata è però evocata da un oggetto che torna in tre situazioni diverse, e sempre come un motivo apparentemente “libero”: è una specie di talismano che non serve a indicare i passaggi logici ma gli snodi magici della storia. Si tratta del disco di agata che il lavoratore di pietre del villaggio, vale a dire il genitore di Henriette, detta Jettchen, dona alla figlia – la ragazza è innamorata di Jacob, ma sposerà Gustav, il fratello. Per un misterioso trauma, il padre di Henriette ha perduto la parola, dunque per comunicare si inventa risorse extraverbali: le espressioni, i gesti, e, nella scena di cui stiamo parlando, una sezione di agata messa in controluce. Indugiando sulle iridescenze e le striature del giallo aranciato – si tratta di uno dei pochi casi in cui la pellicola è colorata – padre e figlia contemplano l’architettura microcosmica di quel mondo che prende vita; luce movimento e percezione formano un abbraccio perfetto suggellato dallo schermo di agata, che strappa Fürchtegott e Henriette alle miserie del qui, proiettandoli nell’immaginazione di un altrove.
altri orizzonti1


Questo oggetto riapparirà in altri due momenti: quando Henriette lo porta alla sua migliore amica, per cercare di riparare un tradimento; e quando, prima di emigrare, Henriette lo sotterrerà nel cimitero del villaggio, come un simbolo di quella memoria ancestrale che compone le nostre esistenze anche quando non la viviamo; come una pietra magica messa a proteggere un luogo sacro: quello da cui ripartirà la storia di Heimat 1 .
Attraverso i riflessi di miele di quella sezione di agata, L’altra Heimat trasforma in esperienza visiva e emotiva ciò che racconta, vale a dire il potere di sognare un’altra patria, un leggendario El Dorado al di là del mondo conosciuto; e, intanto che fa questo, il film parla anche di cosa sia il cinema: un’invenzione che ha il potere di farci vivere la visione di ciò che è lontano, per via di proiezioni, introiezioni e empatia.
D’altra parte proprio Reitz, in una recente intervista a proposito di L’altra Heimat – Cronaca di un sogno, ci aiuta a capire come il cinema, in quanto metafora dell’altrove, non rielabori soltanto materiali provenienti dal mondo delle immagini, o inventati dal nulla: «Ho comin­ciato a riflet­tere sul per­ché tanta gente in quel periodo aveva deciso di par­tire; la situa­zione sociale era cer­ta­mente molto dif­fi­cile, la grande mise­ria, le guerre, ma non era tanto diverso da altre volte, non tanto almeno da giu­sti­fi­care un esodo di que­ste pro­por­zioni. Una rispo­sta l’ho tro­vata nella dif­fu­sione dell’alfabetizzazione. La gente aveva impa­rato a leg­gere e attra­verso i libri, le parole, imma­gi­nava altre vite, altri mondi. Di Jakob sin dalla prima scena sap­piamo che è un acca­nito let­tore. La lin­gua in cui si esprime non è quella quo­ti­diana ma gli viene dai libri che legge»[1]. La capacità del cinema di attivare un sistema di emozioni e di proiezioni che reagiscono con ciò che sta fuori dallo schermo, vale a dire con la realtà circostante, ma anche con una cultura eterogenea fatta pure di parole; questa profondità di campo che trasforma lo schermo in una specie di agata scintillante su cui si depositano tracce e matrici di pensiero inizialmente separate: sono elementi che ci portano a un’ulteriore definizione. Oltre a essere la patria dei sogni ad occhi aperti, il cinema infatti è esso stesso un perenne “racconto dei racconti”: espressione di una creatività che mentre allestisce nuove forme e altri sguardi, al tempo stesso riattiva, reinventandole, anche la forza visionaria e l’energia narrativa provenienti da altre storie (come ha fatto recentemente Garrone con Basile), o da altri generi artistici (come fa Ejzenštejn con i quadri di Ensor, o Guillermo Del Toro con le storie illustrate a inizio Novecento da Arthur Rackham, o Martone con i macchiaioli). Racconto dei racconti, dunque, in quanto elaborazione continua, e impura, di nuove narrazioni che trascendono se stesse e si riamalgamano in una nuova e originale sintesi. E proprio questa sua impurità può far diventare il cinema l’arte più creativa di tutte.
«Il cinema sarà [l’unica forma di] azione per i nevrastenici» scriveva Louis Haugmard nell’Esthétique du Cinématographe (1913). Del resto, non è un caso che i due eventi che più di tutti gli altri segnano la nascita della cultura moderna novecentesca, vale a dire la prima proiezione pubblica di un cortometraggio dei fratelli Lumière (La Sortie de l’usine Lumière, 28 dicembre 1895) e la pubblicazione de L’interpretazione dei sogni (Die Traumdeutung, 1899 ma datato 1900), abbiano su per giù la medesima età: tanto la scoperta del cinema quanto l’invenzione della psicanalisi appartengono a un tempo, a una cultura e a un immaginario che hanno cominciato a vivere su due livelli alla volta: quello delle parole e quello delle immagini; il livello dell’evidenza immediata e quello dove è importante non solo ciò che vediamo con gli occhi, ma anche ciò che vediamo emotivamente, che immaginiamo, che sentiamo, che ricordiamo, che continuiamo a vedere dentro di noi attraverso le risonanze di ciò che abbiamo provato durante la visione; il livello della superficie conosciuta, e quello del sottosuolo, degli abissi. Lo stesso mondo di cui ci parlano alcune delle immagini che compongono l’atlante della memoria del cinema: il finestrino di un treno in corsa, un palombaro, una luna accecata da un missile, una palla di vetro con una casetta nella neve mentre una bocca maschile pronuncia «Rosebud», un gatto rosso. Del resto, sarebbe impossibile che la poetica modernista dell’epifania – (dal greco “epiphainomai”: apparire) – appartenesse a un’epoca diversa da quella in cui il mondo si è abituato ai flash, e a far comunicare memoria sensi e immaginazione attraverso l’esperienza fisica di immagini che scavalcano il tempo e lo spazio lineari. Questa vertigine di cui ci parlano alcuni dei più grandi romanzi novecenteschi fa famiglia con le «allucinazioni sensoriali» descritte da Hugo Munsterberg in Photoplay: a Psychological Study (1916). Alla stessa maniera per cui, inversamente, sarebbe impossibile che la nascita del concetto di cinema come durata appartenesse a un mondo diverso da quello in cui si leggeva Bergson.
Scrivere di cinema può significare anche rimettere in azione l’esperienza di questo dinamismo, perché il cinema è per un verso l’arte più autonoma, ma per l’altro verso è anche l’arte che più ha bisogno di essere in relazione con ciò che sta fuori. L’avventura del cinema è l’avventura della “società”, per usare un’espressione un po’ fuori moda ma tanto importante usata qualche anno fa da Fofi[2].
 Per una cultura cinematografica
La sfida, sempre sbilanciata a suo favore, che ci chiede di giocare il cinema è allora anche quella di creare discorsi che tengano in vita la sua impurità e il suo connaturato polimorfismo: che non solo ci impediscono di avere una visione unica e statica, ma ci chiedono di non dimenticare mai del tutto che siamo dentro un’illusione creata allo scopo di esprimere e suscitare emozioni.
Anche se non è un’affermazione originale, va ripetuta, perché è vera: il discorso critico ridotto a opinione sciatta e impressionistica, che perpetua l’idea del film come opera che non richiede una competenza specifica per essere valutata, fa male al cinema; né è meno nocivo il contenutismo, che elimina alla radice il problema e il piacere del cinema, vale a dire il suo specifico formale, che consiste nella trasformazione di un’idea, di un’intuizione, o di un’immagine, in espressione visiva – sono gli aspetti di cui si parla nel volume più bello mai scritto di critica cinematografica: il libro-intervista Il cinema secondo Hitchcock, di François Truffaut.
Ma anche il giudizio critico inteso solo come esercizio di un mestiere, come sfoggio di tecnicismi da cineclub, può rischiare di sfavorire il cinema; è un po’ come chi volesse intrattenersi con un acrobata, mentre sta eseguendo il suo numero, per farsi dire quanto è alto da terra il filo su cui eseguirà le sue capriole, quanto tempo ci ha messo ad allenarsi, dove tiene le mani mentre salta: così, probabilmente, sortiremmo soltanto l’effetto di far cadere l’artista. Alla stessa maniera per cui il linguaggio tecnico autoassertivo può talvolta rischiare di sfocare la condizione di creatività in re da cui nascono i film, finendo per intrappolare il cinema nel ventre della balena del linguaggio – e il cinema non è solo linguaggio, ma espressione. Oltretutto, così facendo, si rischia di escludere dal cinema ciò di cui più ha bisogno: l’occhio del pubblico.
L’analisi dei film presuppone «una visione allo stesso tempo attenta, tecnica, e interpretativa»[3]. Il progetto di cui può far parte, soprattutto in un’epoca come quella odierna in cui «il cinema è diventato il discorso dominante dei nostri discorsi»[4], è la costruzione di una “cultura cinematografica” vale a dire di una sensibilità e una conoscenza più diffusa del linguaggio cinematografico – sarebbe ora che fosse insegnato anche a scuola, per esempio; e, nel medesimo tempo, di una nuova abitudine culturale a mettere il cinema in dialogo con gli altri immaginari, che non rappresentano solo delle fonti, dei palinsesti di un’astratta trama intertestuale, ma un sistema di fili tenuto in tensione. Scrivere di cinema può significare anche questo: provare a prolungare lo chock dell’opera d’arte il più a fondo possibile, nell’intelligenza e nella sensibilità di chi legge – come ricorda Barbera citando Bazin[5].
Se Freud (1856-1939) fosse nato cinquant’anni più tardi, potrebbe aver intitolato il suo famoso lavoro del 1908 intorno alle fantasie narrative riguardanti l’infanzia non più “il romanzo familiare” ma “il film familiare” dei nevrotici: perché è il cinema l’arte che, nel corso del ventesimo secolo, ha sedotto la nostra fantasia e modellato la maniera in cui sogniamo il mondo a occhi aperti, plasmando sempre di più il nostro modo di stabilire metafore. Metafore, per l’appunto, vale a dire procedimenti formali e figurali di “spostamento”, come dice l’etimologia originaria (in Grecia si legge spesso la scritta “metaphorein” sui teloni dei camion merci); metafore come transfert cognitivi ed emotivi tra noi e la realtà circostante. (Il treno con cui i Lumière fanno arrivare il cinema è molto di più di una suggestiva scena).
Il cinema è l’arte più popolare di tutte: quella diventata più famigliare per chiunque, come documenta l’antologia Racconti di cinema (a cura di Emiliano Morreale e Mariapaola Pierini, 2015). Questa popolarità è tanto più peculiare e intensa perché è trasversale: è riuscita a portare nel medesimo luogo e a mescolare, loro malgrado, le classi sociali più diverse. Il cinema diventa, nel Ventesimo secolo, un agglomeratore di «incidenti, di incontri e d’avventure», come si racconta in uno dei libri italiani più belli dedicati al cinema, Ombre Rosse (1954) di Piero Santi: una narrazione scandita in tante parti distinte quanti sono i cinema di Firenze in cui si svolgono le storie.
Scrivere di cinema può voler dire anche questo: mantenere il cinema in contatto con questa anima popolare, che del resto tiene anche fede alle sue origini di spettacolo da baraccone. La critica on line, che è lo spazio di discorso cui nella maggior parte dei casi appartengono le prime versioni dei testi qui proposti, può dare e può togliere; ma, da parte mia, non sono affatto pessimista: gli articoli qui riuniti in più di un caso sono arrivati a molte spettatrici e a molti spettatori perché è diventata virale, come si suol dire, la fiducia nel cinema come fatto vivo e come macchina che produce empatia.
Ho scritto questo libro perché sono felice per una delle cose più importanti che il cinema mi ha dato e continua a darmi: mi aiuta a avere meno paura. Per questo non ho avuto paura di approfondire senza evadere nell’incomunicabilità, o nello specialismo; scrivere di cinema è inseguire qualcosa che ci sfuggirà sempre, intanto che ci fa sognare altri orizzonti.

Note 
[1] Il passo è tratto dall’intervista a cura di Giovanna Branca e Cristina Piccino pubblicata su «il manifesto» il 27 marzo 2015.
[2] L’avventurosa storia del cinema italiano, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2009, vol. I, p. 10.
[3] Augusto Sainati – Massimiliano Gaudiosi, Analizzare i film, Marsilio, Venezia, 2007, p. 11.
[4] Giona A. Nazzaro, Il conflitto delle idee. Al cinema con Micromega, Edizioni Bietti, Milano 2014, p. 13.
[5] Alberto Barbera, La preziosa inutilità. Considerazioni sull’esercizio e il ruolo della critica, in I film studies, a cura di Emiliana De Blasio e Dario Edoardo Viganò, Carocci, Roma 2013, p. 235.
[Immagine: Edgar Reitz, L’altra Heimat – Cronaca di un sogno (Die andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht), 2013 (dbr)]

Documento ripreso dal sito LEPAROLELECOSE

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