COSA SOGNANO I FILMS
di Daniela Brogi
Oggi esce il volume Altri Orizzonti. Interventi sul cinema contemporaneo.
Alcuni degli articoli raccolti in Altri Orizzonti erano usciti, in una
prima versione, su «Le parole e le cose». Quelle che seguono sono le
prime pagine del libro, tratte dall’Introduzione.
La patria dei sogni a occhi aperti
L’altra Heimat – Cronaca di un sogno (Die andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht), diretto da Edgar Reitz e presentato a Venezia nel 2013, è l’ultima opera del progetto Heimat, realizzato nell’arco di trent’anni e nato dall’idea di raccontare la storia della Germania nel Novecento. Ne L’altra Heimat siamo ancora nel villaggio immaginario di Schabbach, la patria da cui aveva preso avvio la vicenda di Heimat 1,
al termine della prima guerra mondiale; ma la saga della famiglia Simon
stavolta si svolge durante il secolo precedente, in particolare tra il
1840 e il 1843, negli anni che preparano le grandi migrazioni verso il
Brasile delle famiglie di contadini dell’Hunsrück, ridotti alla fame
dalla carestia e dalla politica feudale prussiana. L’altra patria, il
nuovo mondo dove arriveranno le carovane di migranti che si stagliano in
campo lungo, non si vede mai: è la destinazione sconosciuta della parte
della famiglia Simon che alla fine del film lascerà il paese; ma
l’altra patria è anche l’altrove di chi resta, sognando tutta la vita di
partire: è un punto di fuga della vita interiore, è il mondo di
illusioni che ci portiamo dentro, il luogo a immagine dei propri desideri cui tende l’anima romantica di Jacob Simon, il protagonista, mentre fantastica tra i suoi libri.
Anche se rimarrà sempre invisibile, per
l’intera durata del film, l’altra patria sognata è però evocata da un
oggetto che torna in tre situazioni diverse, e sempre come un motivo
apparentemente “libero”: è una specie di talismano che non serve a
indicare i passaggi logici ma gli snodi magici della storia. Si tratta
del disco di agata che il lavoratore di pietre del villaggio, vale a
dire il genitore di Henriette, detta Jettchen, dona alla figlia – la
ragazza è innamorata di Jacob, ma sposerà Gustav, il fratello. Per un
misterioso trauma, il padre di Henriette ha perduto la parola, dunque
per comunicare si inventa risorse extraverbali: le espressioni, i gesti,
e, nella scena di cui stiamo parlando, una sezione di agata messa in
controluce. Indugiando sulle iridescenze e le striature del giallo
aranciato – si tratta di uno dei pochi casi in cui la pellicola è
colorata – padre e figlia contemplano l’architettura microcosmica di
quel mondo che prende vita; luce movimento e percezione formano un
abbraccio perfetto suggellato dallo schermo di agata, che strappa
Fürchtegott e Henriette alle miserie del qui, proiettandoli
nell’immaginazione di un altrove.
Questo oggetto riapparirà in altri due momenti: quando Henriette lo porta alla sua migliore amica, per cercare di riparare un tradimento; e quando, prima di emigrare, Henriette lo sotterrerà nel cimitero del villaggio, come un simbolo di quella memoria ancestrale che compone le nostre esistenze anche quando non la viviamo; come una pietra magica messa a proteggere un luogo sacro: quello da cui ripartirà la storia di Heimat 1 .
Attraverso i riflessi di miele di quella sezione di agata, L’altra Heimat trasforma
in esperienza visiva e emotiva ciò che racconta, vale a dire il potere
di sognare un’altra patria, un leggendario El Dorado al di là del mondo
conosciuto; e, intanto che fa questo, il film parla anche di cosa sia il
cinema: un’invenzione che ha il potere di farci vivere la visione di ciò che è lontano, per via di proiezioni, introiezioni e empatia.
D’altra parte proprio Reitz, in una recente intervista a proposito di L’altra Heimat – Cronaca di un sogno,
ci aiuta a capire come il cinema, in quanto metafora dell’altrove, non
rielabori soltanto materiali provenienti dal mondo delle immagini, o
inventati dal nulla: «Ho cominciato a riflettere sul perché tanta
gente in quel periodo aveva deciso di partire; la situazione sociale
era certamente molto difficile, la grande miseria, le guerre, ma
non era tanto diverso da altre volte, non tanto almeno da
giustificare un esodo di queste proporzioni. Una risposta l’ho
trovata nella diffusione dell’alfabetizzazione. La gente aveva
imparato a leggere e attraverso i libri, le parole, immaginava
altre vite, altri mondi. Di Jakob sin dalla prima scena sappiamo che
è un accanito lettore. La lingua in cui si esprime non è quella
quotidiana ma gli viene dai libri che legge»[1].
La capacità del cinema di attivare un sistema di emozioni e di
proiezioni che reagiscono con ciò che sta fuori dallo schermo, vale a
dire con la realtà circostante, ma anche con una cultura eterogenea
fatta pure di parole; questa profondità di campo che trasforma lo
schermo in una specie di agata scintillante su cui si depositano tracce e
matrici di pensiero inizialmente separate: sono elementi che ci portano
a un’ulteriore definizione. Oltre a essere la patria dei sogni ad occhi
aperti, il cinema infatti è esso stesso un perenne “racconto dei
racconti”: espressione di una creatività che mentre allestisce nuove
forme e altri sguardi, al tempo stesso riattiva, reinventandole, anche
la forza visionaria e l’energia narrativa provenienti da altre storie
(come ha fatto recentemente Garrone con Basile), o da altri generi
artistici (come fa Ejzenštejn con i quadri di Ensor, o Guillermo Del
Toro con le storie illustrate a inizio Novecento da Arthur Rackham, o
Martone con i macchiaioli). Racconto dei racconti, dunque, in quanto
elaborazione continua, e impura, di nuove narrazioni che trascendono se
stesse e si riamalgamano in una nuova e originale sintesi. E proprio
questa sua impurità può far diventare il cinema l’arte più creativa di
tutte.
«Il cinema sarà [l’unica forma di] azione per i nevrastenici» scriveva Louis Haugmard nell’Esthétique du Cinématographe
(1913). Del resto, non è un caso che i due eventi che più di tutti gli
altri segnano la nascita della cultura moderna novecentesca, vale a dire
la prima proiezione pubblica di un cortometraggio dei fratelli Lumière (La Sortie de l’usine Lumière, 28 dicembre 1895) e la pubblicazione de L’interpretazione dei sogni (Die Traumdeutung,
1899 ma datato 1900), abbiano su per giù la medesima età: tanto la
scoperta del cinema quanto l’invenzione della psicanalisi appartengono a
un tempo, a una cultura e a un immaginario che hanno cominciato a
vivere su due livelli alla volta: quello delle parole e quello delle
immagini; il livello dell’evidenza immediata e quello dove è importante
non solo ciò che vediamo con gli occhi, ma anche ciò che vediamo
emotivamente, che immaginiamo, che sentiamo, che ricordiamo, che
continuiamo a vedere dentro di noi attraverso le risonanze di ciò che
abbiamo provato durante la visione; il livello della superficie
conosciuta, e quello del sottosuolo, degli abissi. Lo stesso mondo di
cui ci parlano alcune delle immagini che compongono l’atlante della
memoria del cinema: il finestrino di un treno in corsa, un palombaro,
una luna accecata da un missile, una palla di vetro con una casetta
nella neve mentre una bocca maschile pronuncia «Rosebud», un gatto
rosso. Del resto, sarebbe impossibile che la poetica modernista
dell’epifania – (dal greco “epiphainomai”: apparire) – appartenesse a un’epoca diversa da quella in cui il mondo si è abituato ai flash,
e a far comunicare memoria sensi e immaginazione attraverso
l’esperienza fisica di immagini che scavalcano il tempo e lo spazio
lineari. Questa vertigine di cui ci parlano alcuni dei più grandi
romanzi novecenteschi fa famiglia con le «allucinazioni sensoriali»
descritte da Hugo Munsterberg in Photoplay: a Psychological Study (1916).
Alla stessa maniera per cui, inversamente, sarebbe impossibile che la
nascita del concetto di cinema come durata appartenesse a un mondo
diverso da quello in cui si leggeva Bergson.
Scrivere di cinema può significare anche
rimettere in azione l’esperienza di questo dinamismo, perché il cinema è
per un verso l’arte più autonoma, ma per l’altro verso è anche l’arte
che più ha bisogno di essere in relazione con ciò che sta fuori.
L’avventura del cinema è l’avventura della “società”, per usare
un’espressione un po’ fuori moda ma tanto importante usata qualche anno
fa da Fofi[2].
Per una cultura cinematografica
La sfida, sempre sbilanciata a suo
favore, che ci chiede di giocare il cinema è allora anche quella di
creare discorsi che tengano in vita la sua impurità e il suo connaturato
polimorfismo: che non solo ci impediscono di avere una visione unica e
statica, ma ci chiedono di non dimenticare mai del tutto che siamo
dentro un’illusione creata allo scopo di esprimere e suscitare emozioni.
Anche se non è un’affermazione
originale, va ripetuta, perché è vera: il discorso critico ridotto a
opinione sciatta e impressionistica, che perpetua l’idea del film come
opera che non richiede una competenza specifica per essere valutata, fa
male al cinema; né è meno nocivo il contenutismo, che elimina alla
radice il problema e il piacere del cinema, vale a dire il suo specifico
formale, che consiste nella trasformazione di un’idea, di
un’intuizione, o di un’immagine, in espressione visiva – sono gli aspetti di cui si parla nel volume più bello mai scritto di critica cinematografica: il libro-intervista Il cinema secondo Hitchcock, di François Truffaut.
Ma anche il giudizio critico inteso solo
come esercizio di un mestiere, come sfoggio di tecnicismi da cineclub,
può rischiare di sfavorire il cinema; è un po’ come chi volesse
intrattenersi con un acrobata, mentre sta eseguendo il suo numero, per
farsi dire quanto è alto da terra il filo su cui eseguirà le sue
capriole, quanto tempo ci ha messo ad allenarsi, dove tiene le mani
mentre salta: così, probabilmente, sortiremmo soltanto l’effetto di far
cadere l’artista. Alla stessa maniera per cui il linguaggio tecnico
autoassertivo può talvolta rischiare di sfocare la condizione di
creatività in re da cui nascono i film, finendo per
intrappolare il cinema nel ventre della balena del linguaggio – e il
cinema non è solo linguaggio, ma espressione. Oltretutto, così facendo,
si rischia di escludere dal cinema ciò di cui più ha bisogno: l’occhio
del pubblico.
L’analisi dei film presuppone «una visione allo stesso tempo attenta, tecnica, e interpretativa»[3].
Il progetto di cui può far parte, soprattutto in un’epoca come quella
odierna in cui «il cinema è diventato il discorso dominante dei nostri
discorsi»[4],
è la costruzione di una “cultura cinematografica” vale a dire di una
sensibilità e una conoscenza più diffusa del linguaggio cinematografico –
sarebbe ora che fosse insegnato anche a scuola, per esempio; e, nel
medesimo tempo, di una nuova abitudine culturale a mettere il cinema in
dialogo con gli altri immaginari, che non rappresentano solo delle
fonti, dei palinsesti di un’astratta trama intertestuale, ma un sistema
di fili tenuto in tensione. Scrivere di cinema può significare anche
questo: provare a prolungare lo chock dell’opera d’arte il più a fondo
possibile, nell’intelligenza e nella sensibilità di chi legge – come
ricorda Barbera citando Bazin[5].
Se Freud (1856-1939) fosse nato
cinquant’anni più tardi, potrebbe aver intitolato il suo famoso lavoro
del 1908 intorno alle fantasie narrative riguardanti l’infanzia non più
“il romanzo familiare” ma “il film familiare” dei nevrotici: perché è il
cinema l’arte che, nel corso del ventesimo secolo, ha sedotto la nostra
fantasia e modellato la maniera in cui sogniamo il mondo a occhi
aperti, plasmando sempre di più il nostro modo di stabilire metafore.
Metafore, per l’appunto, vale a dire procedimenti formali e figurali di
“spostamento”, come dice l’etimologia originaria (in Grecia si legge
spesso la scritta “metaphorein” sui teloni dei camion merci); metafore
come transfert cognitivi ed emotivi tra noi e la realtà circostante. (Il
treno con cui i Lumière fanno arrivare il cinema è molto di più di una
suggestiva scena).
Il cinema è l’arte più popolare di tutte: quella diventata più famigliare per chiunque, come documenta l’antologia Racconti di cinema
(a cura di Emiliano Morreale e Mariapaola Pierini, 2015). Questa
popolarità è tanto più peculiare e intensa perché è trasversale: è
riuscita a portare nel medesimo luogo e a mescolare, loro malgrado, le
classi sociali più diverse. Il cinema diventa, nel Ventesimo secolo, un
agglomeratore di «incidenti, di incontri e d’avventure», come si
racconta in uno dei libri italiani più belli dedicati al cinema, Ombre Rosse (1954)
di Piero Santi: una narrazione scandita in tante parti distinte quanti
sono i cinema di Firenze in cui si svolgono le storie.
Scrivere di cinema può voler dire anche
questo: mantenere il cinema in contatto con questa anima popolare, che
del resto tiene anche fede alle sue origini di spettacolo da baraccone.
La critica on line, che è lo spazio di discorso cui nella maggior parte
dei casi appartengono le prime versioni dei testi qui proposti, può dare
e può togliere; ma, da parte mia, non sono affatto pessimista: gli
articoli qui riuniti in più di un caso sono arrivati a molte spettatrici
e a molti spettatori perché è diventata virale, come si suol dire, la
fiducia nel cinema come fatto vivo e come macchina che produce empatia.
Ho scritto questo libro perché sono
felice per una delle cose più importanti che il cinema mi ha dato e
continua a darmi: mi aiuta a avere meno paura. Per questo non ho avuto
paura di approfondire senza evadere nell’incomunicabilità, o nello
specialismo; scrivere di cinema è inseguire qualcosa che ci sfuggirà
sempre, intanto che ci fa sognare altri orizzonti.
Note
[1] Il passo è tratto dall’intervista a cura di Giovanna Branca e Cristina Piccino pubblicata su «il manifesto» il 27 marzo 2015.
[2] L’avventurosa storia del cinema italiano, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2009, vol. I, p. 10.
[3] Augusto Sainati – Massimiliano Gaudiosi, Analizzare i film, Marsilio, Venezia, 2007, p. 11.
[4] Giona A. Nazzaro, Il conflitto delle idee. Al cinema con Micromega, Edizioni Bietti, Milano 2014, p. 13.
[5] Alberto Barbera, La preziosa inutilità. Considerazioni sull’esercizio e il ruolo della critica, in I film studies, a cura di Emiliana De Blasio e Dario Edoardo Viganò, Carocci, Roma 2013, p. 235.
[Immagine: Edgar Reitz, L’altra Heimat – Cronaca di un sogno (Die andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht), 2013 (dbr)]Documento ripreso dal sito LEPAROLELECOSE
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