Ritorna, edita da
Sellerio, I Beati Paoli di Luigi Natoli: uscì a puntate tra il
1909 e il 1910. ha fatto sognare generazioni intere di siciliani
convinti che si trattasse di una storia vera. E in fondo lo era, visto
che in realtà della mafia si parlava, vista come reazione (noi diremmo
"deviata") alla corruzione e all'ingiustizia del potere statale. Sul
tema intervenne anche Sciascia. Qualunque cosa siano stati (ammesso che
siano veramente esistiti), oggi i Beati Paoli sono diventati un richiamo
turistico.
Paolo Di Stefano
«I Beati Paoli», la
Sicilia iniqua tra nobili crudeli e una setta segreta
Che cos’è questo
strano oggetto narrativo che si intitola I Beati Paoli? È un
romanzo-fiume, un romanzo d’appendice di quasi 1.300 pagine scritto
da Luigi Natoli, fervente mazziniano palermitano, vissuto dal 1857 al
1941, che cominciò a collaborare per i giornali diciassettenne prima
di diventare professore di Storia nei licei della sua città e
affermato poligrafo, autore di una trentina di romanzi a carattere
storico, di numerosi saggi e di opere teatrali. I Beati
Paoli uscì in 239 puntate, con grande successo, sul «Giornale
di Sicilia», tra il 1909 e il 1910, sotto lo pseudonimo inglese di
William Galt.
Che cos’è dunque I
Beati Paoli? Intanto è un bel romanzo di sapore dumasiano,
appassionante, dal ritmo rapido nonostante la mole, diviso in quattro
ampie parti di brevi capitoli (una ventina ciascuno): un romanzo di
intrecci contorti e di storie parallele, di personaggi buoni e
cattivi, di eroismi (pochi) e viltà (molte), di tradimenti,
passioni, follie d’amore, equivoci, fughe, duelli, scorribande
cavalleresche, rapimenti, gelosie furibonde, violenze, vendette,
capovolgimenti scespiriani del destino. E con una setta segreta, i
Beati Paoli. Siamo nella Sicilia che va dal 1698 al 1719, tra Palermo
Messina e Catania, con rari sconfinamenti in terraferma (Torino,
Genova, Roma sono solo evocate): è l’epoca in cui l’isola, con
la pace di Utrecht (1713), viene ceduta dalla Spagna ai Savoia e poi
contesa tra spagnoli di ritorno e impero austriaco, ed è il tempo
eterno in cui si consumano le rivalità tra nobili locali, feudatari,
principi, baroni, duchi, marchesi veri e presunti.
La trama non è
raccontabile, il lieto fine assicurato. I protagonisti sono
molti, a cominciare dal cuore nero di don Raimondo Albamonte della
Motta, che si sbarazza degli eredi del fratello maggiore Emanuele
(morto in guerra) per far valere le sue ansie di potere; arriva a
cedere sua moglie, donna Gabriella, al re per guadagnarsi i favori
del sovrano; viene perseguitato da missive anonime dietro cui si
nasconde una misteriosa e potentissima congrega che aspira a fare
giustizia della corruzione imperante. Sono, appunto, i Beati Paoli,
altro cuore nero del romanzo, che si oppongono ai delitti oscuri di
don Raimondo senza farsi scrupolo di compiere nuovi feroci misfatti.
È un libro sui
sotterranei metaforici e fisici: nei cunicoli della città si
incontra la setta segreta. Un libro sulla cecità del potere che
sovrasta l’interesse comune e sull’oscurità della violenza che
vorrebbe travolgere quel potere. Due poteri altrettanto nefandi che
non risparmiano nulla pur di prevalere all’insaputa del popolo, che
c’è ma non sa, non vede e non parla, e se sa viene coinvolto a
fare l’interesse dell’una o dell’altra prepotenza, senza via di
scampo, perché si ritorni all’ordine (o al disordine) stabilito.
Ci sono anche i buoni, il figlio e il figliastro di Emanuele, la
povera figlia di Raimondo, Violante, che a volte per troppa bontà o
per troppa fierezza sbagliano, cadono, inciampano anche loro
nell’orrore, si compromettono. Non ci sono cavalieri senza macchia
e senza peccato.
La
parola giustizia ricorre in tutte le sue accezioni, anche perché
ciascuno ha la sua da imporre all’altro, giusta o ingiusta che
sia: «Non bisogna per amore di giustizia essere ingiusti…»,
dirà Blasco, figliastro del duca Emanuele. Ma il capo dei Beati
Paoli non la pensa così: «Che cosa è un uomo dinanzi a un diritto
violato? Che cosa una vita umana dinanzi alla giustizia che cammina
diritta per la sua strada? Essa deve andare innanzi e stritolerà
coloro che incontra». Ma dove sta la nobiltà d’animo se si sente
l’esigenza di muoversi nell’ombra? Per caso, chiede Blasco, «voi
non osate affrontare la luce, perché sentite vacillare la fede nella
vostra giustizia?» Risposta: «Ah no! Vacilla soltanto la fede nella
giustizia legale; anzi non vacilla, manca addirittura… L’ombra? È
necessaria. È la nostra forza e la nostra sicurezza. La giustizia
del re è amministrata da uomini che vedono in essa non un dovere, ma
il salario». È la teoria tutta italiota in cui hanno spesso trovato
«giustificazione» i delitti mafiosi e quelli brigatisti, ma anche
il principio del «governo ladro» su cui spesso si regge il presunto
diritto all’evasione fiscale. Il farsi giustizia da sé di fronte
all’ingiustizia dello Stato.
Luigi Natoli
A proposito del successo
che arrise a I Beati Paoli, lo storico La Duca ha scritto
che il romanzo divenne «sillabario e testo sacro, tenuto al
capezzale del pater familias che ne leggeva i diversi
capitoli a parenti e vicini». Un libro che ha saputo non solo
divertire e affascinare, ma anche «toccare le corde profonde
dell’identità popolare», aggiunge Barbato.
D’altra parte, come ha
fatto notare Eco, ci sono le tinte collaudate del romanzo gotico, con
il gusto fosco dell’occulto e del complotto. Si veda la
fisiognomica dei ritratti. Il cattivo Raimondo viene descritto con il
volto pallido, gli occhi lampeggianti, la bocca come una lunga
ferita, le mascelle angolose. L’innocente fanciulla Pellegra ha
movenze graziose e composte dalle «dolci curve»: «Il capo, ricco
di capelli castani, avvolto in una specie di cuffia o berretto, si
inchinava un po’ sull’omero destro, sopra il collo svelto e di
classico disegno». Le metafore sono vivide e corpose: una brutta
notizia può presentarsi come «un sasso che, cadendo improvviso nel
fondo limaccioso di un pozzo, turbi la limpidezza dell’acqua
facendo assommare la belletta».
Gli ambienti si presentano spesso
sinistri, con ombre avvolte nei mantelli ferme ad ogni angolo di
strada e pronte a dileguarsi all’improvviso. I paesaggi sono tersi
e luminosi oppure cupi, il tramonto fa morire il cielo d’oro in
tinte prima rosee poi violacee. Lugubri forche, in piazza Marina,
hanno braccia nere: «Essi videro con raccapriccio una forma umana
pendente da un laccio, girare su se stessa, al soffio del vento».
Barbato ricorda un giudizio lusinghiero — e probabilmente un po’
fuori misura — espresso su «Le Monde» dal critico francese
Jean-Noël Schifano: «Insieme ai Promessi Sposi, a I
Viceré, al Nome della rosa e alla Storia della
Morante ecco, infine, tradotto con I Beati Paoli il quinto
monumento storico della letteratura italiana contemporanea».
Palermo, La grotta dei Beati Paoli
Resterebbe da capire se i
Beati Paoli sono un’entità oscura realmente esistita,magari, come
sostiene qualcuno (Francesco Paolo Castiglione), come «una sorta di
servizio segreto deviato nei torbidi del passaggio definitivo della
Sicilia e del suo baronaggio al dominio spagnolo». Quanta base
storica ci fosse nel libro di Natoli fu la domanda che animò il
dibattito seguito all’edizione Flaccovio.
D’altra parte, se il
semiologo del Superuomo di massa aveva puntato la sua
lettura inserendo I Beati Paoli nel solco europeo del
«romanzo popolare» con la vittoria consolatoria del bene sul male,
escludendo l’intenzione civile del romanzo storico, La Duca
esaltava la realtà documentaria che intrama le vicende. Se per Eco
si tratta di una tarda espressione ideologica di quel filone
d’evasione che tende a pacificare i conflitti disinnescando ogni
velleità rivoluzionaria popolare, per La Duca il libro di Natoli
realizza una sintesi tra fonti storiche e tradizione popolare: quanto
ai rapporti genetici con la mafia, va escluso, secondo lo studioso,
che si possa tracciare un collegamento diretto, ma non c’è dubbio
che in quella società segreta soffia uno spirito essenzialmente
mafioso.
Leonardo Sciascia,
secondo il quale non può fare a meno di conoscere il romanzo di
Natoli chi voglia capire che cosa significa «essere siciliani»,
ricorda un opuscolo del Marchese di Villabianca che dà origine,
nella seconda metà del Settecento, alla leggenda dei Beati Paoli. Il
Villabianca, che da bambino ha sentito parlare di quella setta, la
riconduce ai Vendicosi, una congrega di tenebrosi giustizieri
attestata in due cronache del XII secolo. Il diario di Villafranca
avrebbe ispirato Natoli suggerendogli la «linea per così dire
ideologica» di quel romanzo-fiume che da I Beati Paoli si
riversa nei successivi Coriolano della Floresta e Calvello
il bastardo: «E il ciclo — osserva Sciascia — si conclude quando
i Beati Paoli sono ormai massoni e giacobini». L’avversione che il
marchese nutre per la setta viene rovesciata dal Natoli in un
consenso considerato da Sciascia «pieno e aperto» e dal quale
deriva la popolarità dei suoi libri: «Coi romanzi di Natoli si può
dire che arriviamo a scoprire la mafia come vera profonda inalterata
costituzione». La mafia come «modo di essere».
Il corriere della sera –
8 agosto 2016
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