02 aprile 2018

A. CAMUS CONTRO LA PENA DI MORTE


«Per secoli e secoli sono stati puniti di morte delitti diversi dall’assassinio eppure la pena massima, applicata tanto a lungo, non li ha fatti sparire; da secoli gli stessi delitti non sono più puniti con la morte eppure non sono aumentati di numero e alcuni sono perfino diminuiti (…) Non per questo, credo, e devo ripeterlo, che la responsabilità non esista al mondo, e che occorra compiacere la moderna tendenza ad assolvere tutti, vittime e uccisori, accomunandoli in una confusione d’ordine sentimentale fatta più di vigliaccheria che di generosità e che, in fin dei conti, arriva a giustificare anche le cose peggiori”. Scriveva così Camus in un saggio “La ghigliottina. Riflessioni sulla pena di morte”, dopo molti anni di nuovo disponibile in libreria.


Roberto Andreotti

Camus e il carnefice ghigliottinato che ci giudica
«La malattia dell’Europa si chiama non credere a nulla e pretendere di saper tutto». Così Albert Camus (1913-1960) scriveva profeticamente nel saggio Réflections sur la guillotine che conobbe un’articolata vicenda editoriale. Manès Sperber, amico di Malraux, decise di far tradurre in Francia Reflections on hanging (1955) che raccoglieva gli scritti che Arthur Koestler aveva dedicato al tema della pena di morte sull’«Observer» e chiese a Camus di comporre un testo da accompagnare a tale opera. Approntato all’inizio del 1957, il saggio apparve nei numeri di giugno e luglio della «Nouvelle Revue Française» per essere infine, nello stesso anno, accolto in volume da Calmann-Lévy con il titolo Réflections sur la peine capitale.

Oltre allo scritto di Camus e alla traduzione parziale del testo di Koestler figurava un’indagine sulla pena di morte in Francia curata da Jean Bloch-Michel che firmava anche una breve prefazione. Ora le Edizioni Medusa ripropongono meritoriamente con il titolo La ghigliottina Riflessioni sulla pena di morte (pp. 108, € 13,00) il pamphlet di Camus nella valida traduzione di Maria Lilith allestita per Longanesi nel 1958, opportunamente rivista da Alfredo Rovatti e preceduta da una prefazione di Riccardo De Benedetti (una versione integrale del volume collettaneo uscì con il titolo La pena di morte presso Newton Compton nel 1972 e un’ulteriore trasposizione del testo di Camus, Riflessioni sulla pena di morte, vide la luce per SE nel 1993).

La tematica affrontata da Camus è quanto mai attuale e spazia da osservazioni di carattere autobiografico (il padre avrebbe assistito a un’esecuzione capitale, rimanendone fortemente impressionato) a speculazioni di stampo socio-politico che lo videro esporsi in prima persona contro la condanna a morte di Brasillach, subentrato, all’epoca del regime di Vichy, a Jean Paulhan alla guida della «NRF» e accusato di collaborazionismo:

«Senza la pena di morte Gabriel Péri e Brasillach sarebbero forse ancora tra noi, e noi potremmo emettere senza vergogna un giudizio su di loro, secondo la nostra opinione, mentre invece sono essi che ora ci giudicano, e noi dobbiamo tacere».

L’esecuzione capitale presuppone dunque un rapporto rovesciato tra il carnefice e i suoi giudici, laddove il primo rischia di incarnare i panni della vittima sacrificale, tenendo conto che «si applica una legge senza discuterla e i nostri condannati muoiono, diciamo così, per forza d’inerzia».
Camus sostiene l’inutilità del «potere intimidatorio» di tali tecniche efferate, riportando una serie di testimonianze che potrebbero confluire in una moderna galleria degli orrori. Partendo dalla biblica legge del taglione e passando per Cesare Beccaria, Camus si avventura a descrivere come il condannato fosse una sorta di colis, sballottato prima dell’esecuzione da una cella all’altra e infine esposto al pubblico ludibrio. Con uno stile semplice ma efficace, che nulla concede sul versante demagogico, lo scrittore della Peste, insignito nello stesso 1957 del Nobel, paragona la pena di morte «a una rozza operazione chirurgica eseguita in circostanze che la spogliano di qualsiasi carattere edificante».

«Per anni e anni io non ho visto nella pena di morte che un supplizio non tollerabile per l’immaginazione e una delittuosa indolenza che la mia ragione condannava» osserva Camus, soffermandosi ad investigare come «per secoli e secoli sono stati puniti di morte delitti diversi dall’assassinio eppure la pena massima, applicata tanto a lungo, non li ha fatti sparire; da secoli gli stessi delitti non sono più puniti con la morte eppure non sono aumentati di numero e alcuni sono perfino diminuiti».

Sulla falsariga di quell’Homme révolté, come si intitola la sua raccolta di saggi del 1951, che costituisce la più coraggiosa maniera di svincolarsi dal dogmatismo ideologico che imperversava in quegli anni («Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo a vivere almeno il tempo della rivolta» aveva scritto), il pensiero di Camus non poteva non affrontare un argomento spinoso quale quello della pena capitale. Sempre con un’ammirevole autonomia di giudizio e un sorprendente esprit de finesse svincolati da qualsiasi atteggiamento precostituito:

«Non per questo, credo, e devo ripeterlo, che la responsabilità non esista al mondo, e che occorra compiacere la moderna tendenza ad assolvere tutti, vittime e uccisori, accomunandoli in una confusione d’ordine sentimentale fatta più di vigliaccheria che di generosità e che, in fin dei conti, arriva a giustificare anche le cose peggiori. Benedicendo a occhi chiusi si va a rischio di benedire anche un campo di schiavi, la forza vile, i carnefici organizzati e il cinismo dei mostri politici, di vendere i propri fratelli, insomma: non c’è che da guardarsi attorno».

Già, non c’è che da guardarsi attorno, anche a distanza di mezzo secolo…

il manifesto – 1 aprile 2018

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