«Per secoli e secoli
sono stati puniti di morte delitti diversi dall’assassinio eppure
la pena massima, applicata tanto a lungo, non li ha fatti sparire; da
secoli gli stessi delitti non sono più puniti con la morte eppure
non sono aumentati di numero e alcuni sono perfino diminuiti (…)
Non per questo, credo, e devo ripeterlo, che la responsabilità non
esista al mondo, e che occorra compiacere la moderna tendenza ad
assolvere tutti, vittime e uccisori, accomunandoli in una confusione
d’ordine sentimentale fatta più di vigliaccheria che di generosità
e che, in fin dei conti, arriva a giustificare anche le cose
peggiori”. Scriveva così Camus in un saggio “La ghigliottina.
Riflessioni sulla pena di morte”, dopo molti anni di nuovo
disponibile in libreria.
Roberto Andreotti
Camus e il carnefice
ghigliottinato che ci giudica
«La malattia
dell’Europa si chiama non credere a nulla e pretendere di saper
tutto». Così Albert Camus (1913-1960) scriveva profeticamente nel
saggio Réflections sur la guillotine che conobbe un’articolata
vicenda editoriale. Manès Sperber, amico di Malraux, decise di far
tradurre in Francia Reflections on hanging (1955) che raccoglieva gli
scritti che Arthur Koestler aveva dedicato al tema della pena di
morte sull’«Observer» e chiese a Camus di comporre un testo da
accompagnare a tale opera. Approntato all’inizio del 1957, il
saggio apparve nei numeri di giugno e luglio della «Nouvelle Revue
Française» per essere infine, nello stesso anno, accolto in volume
da Calmann-Lévy con il titolo Réflections sur la peine capitale.
Oltre allo scritto di
Camus e alla traduzione parziale del testo di Koestler figurava
un’indagine sulla pena di morte in Francia curata da Jean
Bloch-Michel che firmava anche una breve prefazione. Ora le Edizioni
Medusa ripropongono meritoriamente con il titolo La ghigliottina
Riflessioni sulla pena di morte (pp. 108, € 13,00) il pamphlet di
Camus nella valida traduzione di Maria Lilith allestita per Longanesi
nel 1958, opportunamente rivista da Alfredo Rovatti e preceduta da
una prefazione di Riccardo De Benedetti (una versione integrale del
volume collettaneo uscì con il titolo La pena di morte presso Newton
Compton nel 1972 e un’ulteriore trasposizione del testo di Camus,
Riflessioni sulla pena di morte, vide la luce per SE nel 1993).
La tematica affrontata da Camus è quanto mai attuale e spazia da osservazioni di carattere autobiografico (il padre avrebbe assistito a un’esecuzione capitale, rimanendone fortemente impressionato) a speculazioni di stampo socio-politico che lo videro esporsi in prima persona contro la condanna a morte di Brasillach, subentrato, all’epoca del regime di Vichy, a Jean Paulhan alla guida della «NRF» e accusato di collaborazionismo:
«Senza la pena di morte
Gabriel Péri e Brasillach sarebbero forse ancora tra noi, e noi
potremmo emettere senza vergogna un giudizio su di loro, secondo la
nostra opinione, mentre invece sono essi che ora ci giudicano, e noi
dobbiamo tacere».
L’esecuzione capitale
presuppone dunque un rapporto rovesciato tra il carnefice e i suoi
giudici, laddove il primo rischia di incarnare i panni della vittima
sacrificale, tenendo conto che «si applica una legge senza
discuterla e i nostri condannati muoiono, diciamo così, per forza
d’inerzia».
Camus sostiene
l’inutilità del «potere intimidatorio» di tali tecniche
efferate, riportando una serie di testimonianze che potrebbero
confluire in una moderna galleria degli orrori. Partendo dalla
biblica legge del taglione e passando per Cesare Beccaria, Camus si
avventura a descrivere come il condannato fosse una sorta di colis,
sballottato prima dell’esecuzione da una cella all’altra e infine
esposto al pubblico ludibrio. Con uno stile semplice ma efficace, che
nulla concede sul versante demagogico, lo scrittore della Peste,
insignito nello stesso 1957 del Nobel, paragona la pena di morte «a
una rozza operazione chirurgica eseguita in circostanze che la
spogliano di qualsiasi carattere edificante».
«Per anni e anni io non ho visto nella pena di morte che un supplizio non tollerabile per l’immaginazione e una delittuosa indolenza che la mia ragione condannava» osserva Camus, soffermandosi ad investigare come «per secoli e secoli sono stati puniti di morte delitti diversi dall’assassinio eppure la pena massima, applicata tanto a lungo, non li ha fatti sparire; da secoli gli stessi delitti non sono più puniti con la morte eppure non sono aumentati di numero e alcuni sono perfino diminuiti».
Sulla falsariga di
quell’Homme révolté, come si intitola la sua raccolta di saggi
del 1951, che costituisce la più coraggiosa maniera di svincolarsi
dal dogmatismo ideologico che imperversava in quegli anni («Visto
che non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo a vivere
almeno il tempo della rivolta» aveva scritto), il pensiero di Camus
non poteva non affrontare un argomento spinoso quale quello della
pena capitale. Sempre con un’ammirevole autonomia di giudizio e un
sorprendente esprit de finesse svincolati da qualsiasi atteggiamento
precostituito:
«Non per questo, credo,
e devo ripeterlo, che la responsabilità non esista al mondo, e che
occorra compiacere la moderna tendenza ad assolvere tutti, vittime e
uccisori, accomunandoli in una confusione d’ordine sentimentale
fatta più di vigliaccheria che di generosità e che, in fin dei
conti, arriva a giustificare anche le cose peggiori. Benedicendo a
occhi chiusi si va a rischio di benedire anche un campo di schiavi,
la forza vile, i carnefici organizzati e il cinismo dei mostri
politici, di vendere i propri fratelli, insomma: non c’è che da
guardarsi attorno».
Già, non c’è che da
guardarsi attorno, anche a distanza di mezzo secolo…
il manifesto – 1 aprile
2018
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