Aprile, il mese del pieno risveglio della natura, è dedicato ad Afrodite, la dea dell'amore.
Guido Araldo
Il mese di Afrodite
Aprile dolce dormire. Il
mese di aprile prese il nome dalla dea dell’amore etrusca Apru,
simile al greco Aphròs (schiuma) da cui Afrodite, che nasce su una
grande conchiglia tra la schiuma del mare. La bellezza che salverà
il mondo.
A Roma nel primo giorno
di aprile ricorreva una festa di grande successo: i Veneralia
dedicati a Venere Verticordia (che “apre i cuori") e alla sua
compagna Fortuna Virile (la misteriosa Fortuna vergine). Le donne,
soprattutto nubili, si recavano al tempio di Venere dove rimuovevano
le collane d'oro dalla statua della dea, per sottoporla a un lavaggio
rituale e cospargerla con profumati petali di rosa. Seguiva una
fantastica e poco chiara processione ai bagni pubblici maschili, in
cui le donne andavano nude coprendosi pudicamente con fronde di
mirto, poiché Venere aveva nascosto le sue nudità quando fu
sorpresa dai satiri a bagnarsi nuda in un laghetto. In quei momenti i
bagni pubblici traboccavano di maschietti. La processione approdava
in ultimo davanti a un’altra statua di Venere, calva, dove si
tenevano brindisi inebrianti con papavero, latte e miele: la bevanda
sorseggiata dalla dea il giorno del suo sposalizio con il dio
Vulcano. Si può supporre che le partecipanti a questa insolita
processione fossero giovani donne in cerca di marito e, in tal modo,
si palesavano…
L’Afrodite greca e,
prima ancora, fenicia: dea della forza vitale, sotterranea, che
induce le gemme a fiorire, il germoglio a dischiudersi e la “maschia
virtù dell’uomo” a inturgidirsi, era molto diversa dalla Venere
romana, intesa principalmente come mater familias, meno cosmica e più
popolare, tesa a esaltare le virtù muliebri domestiche. Non a caso,
la più antica statua della dea della bellezza romana era quella
della “Venere calva”; in ricordo delle donne romane che si erano
rasate i capelli per sopperire alla mancanza di corde durante
l’assedio dei Galli al Campidoglio. Anzi, a Roma in origine la dea
Venere non era affatto la dea della bellezza, ma la custode della
primavera: dei campi e dei prati ordinati, rigogliosi, annuncianti
ricchi raccolti. Cominciò a indentificarsi con Afrodite, la dea
della bellezza, dopo la seconda guerra punica, quando l’ellenismo
cominciò a dilagare nella cultura romana.
L’Afrodite ellenica,
soprattutto ellenistica, è consequenziale a Marte e, non a caso,
nella mitologia greca il più famoso dei tradimenti fu quello
consumato tra Afrodite e Ares (Marte per i Romani): peccaminosi
amanti catturati in flagranza amorosa dallo sgraziato Efesto
(Vulcano), marito cornuto di Afrodite. Tese loro una trappola,
utilizzando una grande rete d’oro, così sottile da sembrare
invisibile. Quella volta tutti gli Dei dell’Olimpo corsero a
godersi lo spettacolo dei due amanti penzolanti impotenti nella
grande rete: esposti alla loro irrisione. Un’altra catena
invisibile legava Ares ad Afrodite, rendendo il dio prigioniero del
trono della dea: il legame che collega marzo ad aprile. La loro
unione diventa il simbolo dell’esplodere della natura all’inizio
della primavera, il momento in cui Persefone lascia il regno
sotterraneo dell’Erebo e si affaccia sul mondo. Storicamente, dalla
feconda unione tra Afrodite e Ares (Venere e Marte), allegoria della
fusione tra civiltà ellenistica e latina che emerse dalle guerre
puniche, nacque la Roma rinnovata dopo le devastazioni di Annibale.
L’Afrodite ellenistica,
di remota derivazione fenicia, meglio ancora dall’Istar
mesopotamica, è una dea dalle molte sfaccettature, riconducibili
sostanzialmente agli appellativi attribuiti ad Afrodite: porne
(carnale e sensuale), dea della prostituzione sacra, pulsante
genitrice dell’umanità; urania, dea ispiratrice delle etere
nell’antica Grecia, esaltante le qualità muliebri
dell’intelligenza, fino a coniugarsi filosoficamente con la Sophia
del platonismo; Anadiomene, dea che emerge sublime dal mare, sintesi
tra porne e urania, la bellezza pura, idealizzata da pittori e poeti.
Per certi versi, più
ancora di Cibele, Cerere, Artemide… Afrodite si configura come la
vera “dea madre”, similmente alla babilonese Ishtar. Era infatti
la prima dea olimpica, che precede tutti gli altri dèi poiché
figlia di Urano, sorella di Kronos, zia o prozia degli dèi che
abitavano sull’Olimpo, alla quale tutti dovevano rispetto. Quale
triade celeste. Urano il grande architetto dell’universo,
l’insondabile intelligenza che governa il mondo; Gea il pianeta
terra palpitante di vita, la nostra vera madre, la grande madre, e la
bellezza quale massima virtù connubio tra pneuma universale e Gaia.
L’Afrodite ellenistica
può essere colta come sintesi e madre delle tre dee supreme del
pantheon greco: Themis, Tyche e Ananke, non gradite sull’Olimpo,
similmente a Dioniso, verso le quali anche gli Dei erano costretti a
inchinarsi e rispettare le loro regole ineluttabili.
Afrodite, dea
“dell’essenza della natura” e non soltanto della sensualità,
racchiude in sé le prerogative di Themis (la legge naturale
inalterabile), di Tyche (il divenire ineludibile della casualità,
che mischia in un’insondabile alchimia uomini e donne) e Ananke (il
fato imponderabile che condiziona il destino degli amanti). Come già
evidenziato, Afrodite era la dea primordiale dell’Olimpo, poiché
figlia di Gea (la terra) e di Urano (il cielo), generata dallo sperma
di quest’ultimo quando Kronos lo evirò e gocciolò sul mare, di
fronte a Paphos, nell’isola di Cipro: galleggiò, formò un cerchio
e dal suo pullulare nacque la più bella tra le dee e le donne,
emersa su una grande conchiglia. Sacro ad Afrodite era l’albero del
melograno, com’era sacro a Cibele e Persefone, accomunate in questa
simbologia come dee della fecondità; quasi una primordiale trinità
femminile.
In tutte le antiche
civiltà situate nel bacino del Mediterraneo nel mese di aprile si
tenevano grandi processioni propiziatrici, dove le dee primeggiavano
sugli dei e tra queste spiccava Afrodite che in Egitto s’identificava
con Hathor (successivamente con Isi), in Mesopotamia con Ishtar,
sulle coste del Levante con Astarte e in Anatolia con Cibele,
nell’Etruria con Apru o Turan e a Roma con Venere. Tutte
derivazioni dalla sumera Inanna.
In età cristiana queste
processioni si trasformarono nelle “litanie”, previste dal
calendario liturgico, per invocare la protezione sui raccolti. Ancora
pochi decenni fa le “litanie maggiori” si tenevano nel giorno di
san Marco, il 25 di aprile. C’erano poi le “litanie minori”,
che ricorrevano nei giorni antecedenti la festa dell’Ascensione,
quaranta giorni dopo la Pasqua. Rogazioni occasionali, ma non
secondarie, si tenevano in onore di San Grato, il 7 settembre,
protettore dalla grandine: processioni propiziatorie della vendemmia.
Da: Guido Araldo, Mesi
Miti Mysteria
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