Nuovi
tabù
Il corpo - coi suoi fluidi e odori - è diventato sconveniente
Anna
Belardinelli
Chi di noi, sentendosi ben lontano
non solo dai burqa ma anche dai gonnelloni delle proprie nonne e dai colletti
inamidati dei loro sposi, non se ne rallegra? A più riprese dal dopoguerra, al
sessantotto, agli anni del femminismo, ad oggi, abbiamo festeggiato il trionfo
del corpo liberato da vecchi pudori. Finalmente ciascuno può portarlo come un
abito disinvolto non da nascondere ma da mostrare.
Oggi più che mai, di fronte alle
ballerine televisive in tanga, o a cartelloni che pubblicizzano jeans
sapientemente slacciati sulla pelle nuda, o alle magliette corte della vicina
di casa che scoprono il piercing all'ombelico, sembra paradossale parlare del
corpo come di un oggetto tabù.
Eppure sappiamo bene che segnali
piccoli, come il comparire di una parola di nuovo conio o la sparizione di una
parola, sono a volte rivelatori. A questo proposito viene allora da chiederci
in che modo e perché, in tempi tanto spregiudicati, sia avvenuta la scomparsa
di un'espressione come andare di corpo. Come mai sia diventata
per lo meno imbarazzante da pronunciare e da ascoltare, e venga sostituita
eventualmente dalla forma: andare in bagno. Un salto dalla funzione
fisiologica, corporea appunto, alla tecnologia igienica. Dall'evocazione dello
svuotamento delle viscere, all'immagine molto più asettica di sanitari
luccicanti, di ambienti piastrellati, di attività di lavaggio a scroscio.
Alla stessa maniera un'altra parola
derivata: «corporale», è caduta in disuso. Quelli che erano bisogni corporali,
castighi corporali, difetti corporali, esercizi corporali, diventano bisogni,
castighi, difetti, esercizi fisici.
Nell'appoggiare la mano sul ventre:
«Ho il corpo pieno»; «Ho il corpo vuoto»; «Ho mal di corpo...», si identificava
addirittura il corpo umano con la sua parte più materica, più indomabilmente
animale, meno «nobile»: la pancia. Era, questo, un buon esempio di sineddoche,
quel modo di dire che scambia il tutto con una sua parte e sembra così voler
significare che questa parte ne è l'essenza più vera. Così si poneva al centro,
e non solo geometrico, del corpo, quel laboratorio di carne in cui la materia si
impasta, si trasforma, si riproduce, e produce scorie.
Oggi «corpo», o meglio ancora
«body», vuol dire muscolatura da esposizione, pelle levigata, silouette.
Insomma superficie. In questa accezione sì, che il «corpo» è ben presente.
Presente e soprattutto presentabile. «Presentabile»! Non mi aspettavo che
riflettendo sull'atteggiamento che abbiamo oggi verso il corpo avrei utilizzato
un'espressione che suonerebbe bene in una conversazione da salotto vittoriano.
È impresentabile, invece, se richiama troppo da vicino la propria materialità.
Sconveniente qualsiasi traccia dei suoi fluidi, scarti, deiezioni.
Eppure è poco più che cinquantenne
chi ha visto in uso oggetti che lascerebbero increduli i più giovani: le
sputacchiere nei luoghi pubblici o i vasi da notte che troneggiavano dentro i
comodini di qua e di là dal letto coniugale. Anche chi a quei tempi già c'era,
stupisce al riemergere del ricordo. Anche a lui sembrano cose d'altro mondo.
Con che strani contenitori si misura quanta acqua è passata sotto i ponti! Non
li cito per una bizzarra nostalgia della sputacchiera o dell'urinale, ma perché
possono essere un buon indice della distanza. Distanza da allora, e distanza
che abbiamo preso dalla materia.
Dagli odori oggi patiti, ma
abbondantemente lamentati, solo quando ci tocca, ahimè, subire l'inevitabile
promiscuità del tram. Dal proprio sudore tollerato solo se è di jogging. Dal
grasso prodotto dalla propria pelle, che viene tolto accuratamente e
rimpiazzato con grassi di laboratorio. Dalle persone che, non ancora abbastanza
incivilite, ti parlano troppo a ridosso. Dalla carne che si deve pur mangiare,
ma che non ci ricordi in niente la bestia che è stata. Dal sangue, anche solo
di un foruncoletto scorticato, su cui ormai grava l'ombra sospettosa di contagio
innominabile. Dal proprio pianto e moccio che non si riporta in tasca fino a
casa ma si getta insieme col fazzoletto usa e getta, appunto, senza traccia.
Distanze. Come se fossimo altro e
altrove. Ma cosa e dove?
Tutto contribuisce alla perdita di
consapevolezza di quell'osmosi fra dentro e fuori che fa di un corpo un corpo
vivo. Osmosi che è scambio, trasformazione, e implica anche la morte. Ho detto
di non nutrire bizzarre e, aggiungo, neanche più poetiche nostalgie per il buon
tempo andato. So quanto dolorosamente quella consapevolezza passava, sì,
proprio attraverso lacrime, sudore e sangue, e il più spesso delle volte senza
nessuna poesia. Vedo anche però che oggi, insieme alle scorie fastidiose,
rinneghiamo ognuno di quei segni che in maniera costante, quotidiana, concreta,
ci ricordavano il divenire del corpo, la sua immersione nel mondo, la
connessione dei corpi fra loro. Che facevano apparire il mondo intero come un
unico corpo fatto di corpi.
Anche un ragazzino nato in città
aveva conosciuto in casa il pollo con tanto di zampe, collo spiumato, becco
aperto. Ne aveva visto estrarre le viscere che riempivano la cucina di odore
nauseante, togliere con cura senza romperla la vescichetta del fiele dal
fegato, aprire lo stomaco ancora pieno di granaglie e di insetti mezzo
digeriti. A pranzo se lo ritrovava nel piatto.
In famiglie religiose c'era a questo
punto una pausa. Si chiedeva la benedizione su quel corpo che si stava per
«assumere» affinché ritornasse ad essere carne e sangue vivi nel corpo dei commensali.
Forse in quei momenti a qualcuno, come a me, sarà passata in testa la parola
«Incarnazione», sentita tante volte in chiesa: «Il Dio incarnato... Questo è il
mio Corpo...». Magari l'avrà subito scacciata sembrandogli blasfema davanti ad
una coscia di pollo.
Oggi, dal versante laico in cui
sono, se mi fermo a considerare questa parola: incarnarsi, farsi carne, farsi
corpo, sento tutta la reverenza che si ha per un Mistero. Un mistero che ci
portiamo addosso. Di questo ringrazio quella pausa davanti al piatto; chiedo
perdono a mia figlia a cui non ho saputo insegnare un' attenzione simile
Se tanto avveniva in città, è
inutile dire quanto in campagna il richiamo all'impasto corporeo della vita
fosse presente in ogni cosa e in ogni parola. Nelle bestie gravide quando era
la loro stagione, nei vitelli che si attaccavano alla poccia, nelle uova prese
dalla cova e bevute lì ancora calde. Nei racconti eroicomici in cui nemici
malintenzionati erano sbaragliati e messi in fuga da peti fragorosi. Nella
concimaia dove andava a finire ogni scarto dei corpi a diventare nutrimento per
la terra e per i suoi frutti e quindi di nuovo per i corpi: un mondo ciclico e
continuo. Nell'accudimento del morto, che non prevedeva addetti alle pompe
funebri, ma figli, nuore, cognate, vicine di casa.
Anche con quest'ultimo atto il corpo
spogliato, lavato e rivestito, chiudeva il cerchio. Tornava all'affidamento
totale della prima infanzia. Affidamento a mani quasi sempre di donna, che
sapessero trattare la carne indifesa. Mani rese forti dalla lunga dimestichezza
con la vulnerabilità dei corpi.
Toccare il freddo dei morti,
annusare il sudore dei vivi, mangiare corpi sapendo di mangiare corpi,
combattere a suon di scorregge, andar di corpo... Tutte cose che, per usare
un'espressione anche questa caduta in disuso, oggi «farebbero senso», ribrezzo.
Cioè si appellerebbero troppo da vicino ai nostri sensi: tatto, odorato, udito,
gusto. Non a caso dei cinque sensi quello a cui adesso sembriamo affidare di
più la fruizione dei corpi e del mondo è la vista; quello che permette di
restare a maggiore a distanza. Visti attraverso le telecamere, i corpi
dilaniati o le pance gonfie di fame ci guastano la digestione sicuramente meno
di come farebbe un vicino di tavolo che si lava poco o che biascica. Eppure la
repulsione per un vicino di tal fatta vorrebbe dimostrare come i nostri sensi e
le nostre anime siano diventati più acuti, più sensibili.
Insomma: la principessa sul pisello,
quella che nella favola non riesce a dormire perché sente il fastidio di un
pisello sotto dodici materassi, è davvero tanto nobile e sensibile? Oppure è
una questione di distanza: dodici materassi sono ancora troppo pochi per lei?
l'Unità 28 gennaio 2002
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