29 personaggi a grandezza naturale,
fra i quali gli studiosi identificano, da oltre cent’anni, un gruppo di adepti
ai misteri dionisiaci; in «I misteri di Pompei», lo storico francese Paul Veyne
invece è convinto che il noto affresco evochi un matrimonio profano.
Valentina Porcheddu
Gesti usuali e sublimi di una scena
di nozze secondo Paul Veyne
Una giovane donna che, per la
raffinatezza dei tratti, somiglia alle statuette di terracotta in stile Tanagra
compie un gesto usuale ma sublime: si pettina, seduta su uno sgabello. La
raffigurazione fa parte dell’affresco detto «dei Misteri», nell’omonima villa
pompeiana.
Secondo Paul Veyne, è una scena di
toletta in preparazione delle nozze e la ragazza sarebbe accompagnata dalla
nymphéutria, la «damigella d’onore». È questo uno degli elementi chiave
dell’ultimo libro dello storico francese (I misteri di Pompei, traduzione di
Paolo Lucca, Garzanti, pp. 204, euro 20,00). Lungo una ventina di metri e alto
due, il celebre dipinto – risalente al I secolo a.C. ma ispirato a un originale
ellenistico – è popolato da ventinove personaggi a grandezza naturale, fra i
quali gli studiosi identificano da oltre cent’anni un gruppo di adepti ai
misteri dionisiaci.
L’oggetto che ha condizionato l’interpretazione religiosa del ciclo pittorico è il vaglio (líknon) che nasconde il totem sessuale di Dioniso. L’obiettivo perseguito da Veyne attraverso un testo dalla prosa coinvolgente è dimostrare che, invece, si tratta di un equivoco. I misteri erano culti privati che prevedevano il pagamento di una certa somma e alcuni di essi godevano di particolare successo. È noto il caso dei Misteri di Demetra ad Elusi, che attiravano nella Porta dell’Ade persino gli imperatori romani.
Le fonti antiche non hanno
tramandato notizie riguardo ai riti: la liturgia era oscura e segreta:
relazionandosi intimamente con il dio nella speranza di ottenere prosperità e
vantaggi, l’iniziato provava il brivido di una rivelazione esoterica. Se dunque
non era lecito spiegare i misteri, come si può affermare – chiede l’autore –
che l’affresco della più famosa villa vesuviana costituisca il racconto,
realistico o allegorico, di un’iniziazione?
Per Veyne, non ci sono dubbi: a
essere evocato è un matrimonio profano. Ognuna delle scene che compongono la
megalografia – rara testimonianza del perduto incanto della pittura greca –
viene analizzata con minuzia, allo scopo di avvalorare la nuova tesi. Ben
curato anche l’apparato grafico del volume, che contiene le foto della Villa
dopo i restauri di qualche anno fa.
Nella parete sinistra del triclinium
in cui risplende l’opera, s’incontra una rappresentazione al femminile, dove
l’unico intruso è un fanciullo che legge i classici. All’autore ricorda l’iconografia
del pastós – dipinto che decorava la camera nuziale come segno di
benvenuto per la sposa – o meglio un pasticheispirato
ai pastoí di tradizione greca. Compaiono poi una cantatrice che
solleva lo scialle e una danzatrice nuda che tiene il ritmo con i crotali: sono
artiste reclutate per la cerimonia. Inoltre, le tavole del contratto
matrimoniale esposte sulla poltrona in cui troneggia la matrona della casa, la
focaccia di sesamo servita da una schiava coronata di mirto e il disvelamento
del vaglio appartengono per Veyne alla simbologia delle nozze.
Le descrizioni dei vari quadri sono
suggestive ma si ha l’impressione che per sostenere le sue idee l’autore non
ponga limiti all’immaginazione, generando delle forzature. La verve letteraria
si rivela soprattutto davanti allo scorcio più emozionante dell’affresco:
Dioniso e Arianna – alla quale il tempo ha sottratto il volto – emergono come
due attori sul palco di una «féerie shakespeariana». Li circondano satiri,
sileni e una creatura fantastica che allatta un capretto. Dioniso e i suoi
compagni animano la scena in previsione di una festa che deve scatenare gli
onirici piaceri della sposa: la divinità brillante e seducente adorata nei
misteri è qui metafora di un radioso futuro coniugale.
Alla fine di una trattazione appassionante seppur un po’ ripetitiva, si è quasi tentati di dar ragione a Veyne, che per accreditare definitivamente la tesi del matrimonio sceglie un inedito accostamento con le Nozze Aldobrandine. Nel pregevole affresco di età augustea conservato ai Musei Vaticani si ritrovano infatti il momento del bagno, gli artisti (technîtai) convenuti al presunto banchetto nuziale e un magnifico Bacco, «star delle star». Tuttavia, sarà meglio attendere le risposte dei pompeianisti a questo saggio per capire se d’ora in poi la Villa dei Misteri dovrà chiamarsi la Villa delle Nozze.
Il Manifesto/Alias – 18 marzo 2018
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