11 aprile 2018

IPOCONDRIA


Dunque, è andata che in questo mese ho preso uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto medicine; e uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici e dodici lavativi; mentre il mese scorso sono arrivato a dodici medicine e venti lavativi. Non c'è da meravigliarsi se in questo mese sto meno bene del mese scorso. Lo dirò al dottore perché rimetta le cose in ordine”. Così scriveva Molière nel 1673 quando l'industria (e la pubblicità) dei farmaci era ancora di là da venire.

Daniela Ranieri

Ipocondria, la malattia di sentirsi malato

“Se un medico è bravo”, diceva Vittorio Gassman, “prima o poi qualcosa te lo trova”. Dietro l’irresistibile battuta si cela la consapevolezza micidiale dell’ipocondriaco: non importa quanti progressi compia la medicina; la malattia, come la tartaruga con Achille, sarà sempre un passo avanti, amando nascondersi nei sintomi apparentemente più trascurabili della faticosa vita biologica. L’ipocondriaco – che si chiama così perché un tempo si riteneva che soffrisse agli “ipocondri”, organi che si credeva siti sotto l’addome tra fegato e milza, dove si accumula la “bile nera” responsabile della “melanconia” – è, al contrario della persona normale, qualcuno che conosce questa verità.

Quasi tutti i grandi geni melanconici del passato erano ipocondriaci: Schubert, Chopin, Liszt, Rossini, Molière (che sulle sue manie ha costruito Il malato immaginario); ipocondriaco con tendenza all’avvelenamento era Mozart; patofobico era Charlie Chaplin; germofobo era il poeta Majakovskij: sigillava le finestre, toccava le maniglie solo con un fazzoletto, temeva un raffreddore più della morte (a cui invece ricorse come estrema soluzione). Il pittore Pontormo per undici anni visse chiuso nel cantiere del coro di San Lorenzo, solo e febbrile: faceva bollire nello stesso barile in cui mischiava i colori anche 50 uova, che mangiava in un giorno, redigendo un Diario allucinatorio in cui registrava maniacalmente tutte le variazioni delle sue funzioni corporali. Freud, che curava i pazienti dalle “nevrosi d’ansia”, soffriva di cardiofobia, cioè aveva costantemente paura di morire di infarto.

Oggi l’ipocondriaco è quanto mai solo; la medicalizzazione pop della vita quotidiana, lungi dal rassicurarlo, lo sfida incessantemente. Gli spot che pubblicizzano farmaci da banco anche per il più lieve malessere non fanno che confermargli che c’è una parte del mondo che si cura, sostenuta dalla medicina ufficiale; e una parte, in cui lui si trova, per la quale non esiste rimedio perché non esiste diagnosi. La furia diagnostica che lo spinge a sottoporsi a esami su esami (in ciò aiutato da medici che preferiscono prescrivere analisi costose e invasive piuttosto che impegnarsi in una conoscenza complessiva del paziente, fondamentalmente per mettersi al riparo da eventuali cause giudiziarie) non lo rasserena; anzi, l’esito negativo lo terrorizza e lo convince vieppiù di avere qualcosa di raro e di grave.

Secondo gli psicoterapeuti Alessandro Bartoletti e Giorgio Nardone, che hanno appena pubblicato La paura delle malattie. Psicoterapia Breve Strategica dell’Ipocondria (Ponte alle Grazie), l’ossessione dell’ipocondriaco consiste nella tendenza a dare una “interpretazione catastrofica” alle proprie sensazioni corporee. Contrariamente a quanto si pensa, infatti, l’ipocondriaco non inventa niente. Ha davvero i malesseri che accusa. Si tratta di dolori, disturbi, sintomi che possono essere innocui, e nella maggior parte dei casi lo sono, oppure no. È la coscienza dell’“oppure no” a caratterizzare il patofobico e a condurlo a comportamenti compulsivi o fobici (paura dell’attività fisica o dei luoghi affollati).
Gli autori chiamano questa tendenza “ricerca algica”, una specie di rincorsa del dolore; l’ipocondriaco “tende costantemente l’orecchio” alle sue sensazioni, sollecita il sintomo, lo “socializza” con amici e parenti, in una ipervigilanza sfiancante che lo debilita e nella maggior parte dei casi finisce per renderlo davvero malato (lo stress riduce le difese immunitarie). Dal personale al collettivo: dalle epidemie ipocondriache come quelle per la Sars o per la cosiddetta Sindrome della mucca pazza alla patologia della cybercondria, o ipocondria digitale, caratterizzata dalla compulsione a cercare su Internet la diagnosi al proprio male.

Bartoletti e Nardone descrivono gli stratagemmi e le tecniche che adottano coi loro pazienti per dissuaderli dall’essere ipocondriaci (come in una specie di contrappasso dantesco, si tratta di esacerbare il controllo su sé stessi fino a rendere poco remunerativa e molto sfiancante la pratica). Auguriamo a tutti gli ipocondriaci di guarire, ma offriamo loro la nostra letteraria solidarietà: come sapeva bene il grande ipocondriaco-ironico Carlo Emilio Gadda, l’ipocondriaco non solo non è matto, ma può essere al contrario un grande logico, della specie di Amleto. All’estremo limite della ragione, sa che l’ipocondria può coesistere con la malattia vera, e che riconoscere di essere ipocondriaci non immunizza certo dall’ammalarsi.

Il Fatto – 10 aprile 2018

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