Il buonuomo Lenin recensito da Gianni Biondillo
Sembra non si riesca a fare a meno
di Curzio Malaparte. Come un fiume carsico, non ostante ostracismi e amnesie,
la sua opera torna, riaffiora, si mostra nella sua pienezza. Scrittura,
diciamolo subito, di qualità indiscussa. “La miglior penna del regime” ebbe a
dire di lui l’amico/avversario Piero Gobetti.
Malaparte, l’individualista,
l’arcitaliano, fascista della prima ora, anarchico e liberale, comunista
convertito al cattolicesimo sul letto di morte, strapaesano e stracittadino,
l’esteta e il popolano, il realista e l’espressionista. Tutto e il contrario di
tutto. Più amato all’estero, scevro da pregiudizi ideologici, autore di almeno
due romanzi che lo pongono al centro della letteratura nazionale del novecento.
E di quel secolo è, a modo suo, esemplare irrinunciabile e inimitabile.
Giornalista e viaggiatore, a pochi anni
dalla morte del più famoso rivoluzionario dei suoi anni, con il corpo
imbalsamato già parte della mitologia e del culto comunista, Malaparte, dopo il
fortunato Technique du coup d’etat, decide di scrivere per Grasset,
direttamente in francese, questo Il buonuomo Lenin che vedrà luce in
italiano solo dopo la sua morte.
Cos’è questo libro? Saggio storico,
romanzo, pamphlet, biografia, reportage giornalistico? Tutto questo assieme? È,
inutile dirlo, un libro di Malaparte. Un libro, cioè, che nasce da una intuizione,
da una provocazione che si dipana inesorabile lungo il corso dell’intera
scrittura. Il ritratto imperante di Lenin in quegli anni, e siamo negli anni
trenta, visto dalla parte delle democrazie avanzate europee lo raffigura come
un uomo violento, brutale. Un Gengis Khan del proletariato, sbucato dal cuore
dell’Asia, al di là del mondo razionale dell’Occidente, vissuto oltre il
confine della ragionevolezza, un mongolo pronto a portare il caos nel mondo
civile.
Ma per Malaparte Lenin è tutto il
contrario di questa ideologica iconografia. Ai suoi occhi, ecco la profonda
provocazione, Lenin è semmai l’emblema, quasi didascalico, del buon piccolo
borghese europeo, capace, nella sua grigia esistenza, di costruire teorie
slegate dalla realtà, ma con l’ordine e la disciplina del travet che, giorno
dopo giorno, si occupa della ragioneria della rivoluzione a venire.
La Storia non lo vede mai
anticipatore o condottiero. A questo ci pensano ribelli romantici, altrettanto
denigrati da Malaparte, come Lev Trotsky. Compito del piccolo borghese Lenin,
talmente vile che durante i giorni dell’insurrezione si tiene sempre da parte,
nascosto, o ridicolmente travestito, è essere pronto quando gli eventi,
inesorabili, gli si porranno di fronte. Eliminando i nemici interni, facendo
del partito il suo campo di battaglia, superando Karl Marx per, in realtà,
esautorarlo.
di Gianni Biondillo
Curzio Malaparte, Il buonuomo Lenin, Adelphi, 2018, 311 pagine
Pezzo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/
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